Tremila soldati, appoggiati da otto carri armati e due blindati, hanno iniziato ieri il rastrellamento a Deraa. Le testimonianze sono drammatiche: “Stanno bombardando coi mortai il centro della città e colpiscono le case con i mitra pesanti”. E ancora: “Avanzano a plotoni nelle strade e sparano all’impazzata, a caso”. Il regime baathista siriano ha deciso di soffocare la ribellione della città che ha dato inizio alla protesta, dispiegando la stessa ferocia con cui nel 1982 il padre di Bashar, Hafez, soffocò la rivolta di Hama. La differenza è che questa volta il rais, dopo le prime stragi, ha affiancato alla violenza delle brigate speciali guidate dal fratello Maher un volto “riformatore”. Ha ricevuto i parenti delle prime vittime, le ha chiamate “martiri”, ha licenziato il governatore della città, ha promesso riforme.

Questo è il gioco delle parti tra due fratelli che incarnano l’ala politica e l’ala militare del Baath, ma è chiaro che oggi a Damasco prevale la linea della repressione più spietata. Abolite le leggi di emergenza in vigore dal 1963 – è l’unica riforma attuata, ma di fatto non ha ridotto la pressione del regime, anzi – il governo è passato direttamente alla legge marziale (è impressionante il video sull’ingresso dei tank e della fanteria a Deraa), con un incremento esponenziale dei morti: un centinaio al minimo le vittime nel solo fine settimana tra Duma, al Maadamiyeh, i sobborghi popolari di Damasco, Jabla, Deraa e altri centri (i morti sono oltre quattrocento dall’inizio della rivolta).

Ieri la Siria ha anche chiuso
la sua frontiera con la Giordania perché, secondo il regime, il governo di Amman ha “spalleggiato gli insorti”. Mentre gli Stati Uniti valutano la possibilità di imporre “sanzioni mirate”, la crisi siriana si internazionalizza. La Giordania, infatti, appartiene allo schieramento saudita-sunnita, strettamente alleato con gli Stati Uniti e contrapposto al blocco dell’“Internazionale sciita” che fa perno sull’alleanza tra la Repubblica islamica dell’Iran e la Siria. Negli ultimi mesi, il “blocco sunnita” (la definizione è dell’ex segretario di stato americano Condoleezza Rice, che teorizzò la funzione di contenimento di Teheran proprio facendo leva sul fronte dei paesi sunniti, che comprende soprattutto l’Arabia Saudita e l’Egitto) è stato indebolito dalla rivoluzione del Cairo, che ha reso instabile – e molto più aperturista nei confronti degli ayatollah di Teheran – il più importante tra i paesi arabi del blocco, così come dalla rivolta sciita in Bahrein e dalla crisi yemenita. Ma ora la rivolta dei sunniti (e dei curdi) siriani contro la minoranza sciita al governo di Damasco – discretamente appoggiata, appunto, da Giordania e Arabia Saudita – non soltanto pareggia i rapporti di forza con l’Iran, ma apre una faglia di instabilità pericolosa nel cuore della “rivoluzione sciita”.

Il regno di Riad aveva già da tempo cercato di dividere la primavera araba in due tronconi: le rivolte del Golfo e tutte le altre. Se sulle seconde – come si è visto in Libia – l’Arabia Saudita ha lasciato che la comunità internazionale intervenisse e guidasse il gioco, con le proteste nel Golfo non ha permesso alcuna ingerenza, arrivando anche ad atteggiamenti ben poco diplomatici con l’alleato americano. La rivolta in Bahrein è stata sedata con la forza dalle truppe saudite; in Yemen, il rais Saleh sta negoziando una via d’uscita cui Riad non è certo estranea. In più, internamente re Abdullah non deve temere le proteste – gli appuntamenti per le rivolte sono andati deserti –, mentre nel rivale Iran l’Onda verde rumoreggia: “Perché gli altri sì e noi no?” 26 aprile 2011