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BERLUSCONI: OGGI L’INCONTRO CON SARKOZY, SUBITO DOPO LA LEGA

Pubblicato il 26 aprile, 2011 in Politica | No Comments »

L’incontro con Nicolas Sarkozy, la Lega da frenare sul conflitto libico, il rimpasto da concedere al gruppo dei Responsabili, la riforma della giustizia da lanciare. Silvio Berlusconi si è tenuto lontano dai soliti miasmi sul 25 aprile e dalle polemiche di Palazzo. Per qualche giorno il premier è rimasto a casa in Sardegna, ma il suo ritorno sulla scena, a Roma, dopo la pausa per le festività pasquali, già da oggi è fitto di incontri, scadenze, grane da disinnescare. Prima di tutto la decisione, annunciata ieri ma presa – pare – tre giorni fa, di partecipare ai bombardamenti sulla Libia. Il conflitto di Tripoli sarà oggetto, oggi, del Vertice bilaterale con il presidente francese Sarkozy (assieme alla questione immigrazione).

Il Cavaliere conta di poter uscire vittorioso dall’incontro, cui partecipa in prima fila anche il ministro degli Esteri Franco Frattini. Parigi ha già manifestato disponibilità ad aprire un tavolo di discussione “tecnica” con l’Italia in tema di immigrazione. L’esito sarà probabilmente comunicato da entrambi i leader come un successo: l’avvio di una fase distensiva e di collaborazione tra i due paesi. L’uno e l’altro, il presidente del Consiglio italiano e il presidente della Repubblica francese, sono impegnati in campagna elettorale e – spiegano fonti diplomatiche – hanno entrambi interesse a comunicare segnali di efficienza al proprio elettorato.

Ma l’annuncio della partecipazione italiana alle operazioni di bombardamento è anche una grana per il presidente del Consiglio, alle prese con il nervosismo della Lega che risponde al proprio antico riflesso anti interventista (dai tempi del conflitto in Kosovo) e si agita all’interno della compagine di governo. “Non voterò mai per i bombardamenti. Ma non è a rischio la tenuta del governo”, ha detto il ministro della Semplificazione, Roberto Calderoli. Fino a una settimana fa, anche per via della perplessità leghista, il Cavaliere sembrava incline ad assecondare una linea di più cauto disimpegno. Ma tutto è cambiato, in seguito all’incontro con i dissidenti libici a Roma, alle pressioni internazionali e a calcoli strategici dell’ultim’ora maturati alla vigilia del bilaterale con Sarkozy. Per il premier – sul fronte interno – si pone adesso il problema di affrontare l’irrequietezza di Bossi e del suo personale politico, già agitato per i toni gladiatori della campagna elettorale: non è escluso che all’incontro con Sarkozy segua, domani, un vertice tra Berlusconi e il leader della Lega.

All’alleato nordista il Cavaliere dovrà raccontare delle difficoltà riscontrate sulla linea di una politica estera un po’ defilata e delle pressioni internazionali cui è stato sottoposto dalla Nato e dall’America. Ma potrà anche rassicurarlo sulla tenuta del consenso interno in vista delle elezioni amministrative, e sulla possibilità che il processo breve slitti al dopo voto (per evitare lacerazioni istituzionali con il Quirinale e attriti eccessivi con le opposizioni). Tuttavia l’indole energica del Cav. continua a suggerirgli una doppia azione politica: rilancio dell’iniziativa di governo e radicalizzazione del dibattito pubblico sul tema della giustizia. Il rimpasto di governo è stato troppo a lungo promesso per poter essere disatteso, e questa potrebbe essere la settimana decisiva. Ma il punto centrale della strategia fa perno sul binomio elezioni-giustizia. La riforma potrebbe rapidamente arrivare in Aula nei prossimi giorni per diventare un utile grimaldello da incastrare al momento opportuno tra le contraddizioni della sinistra: tra la sua enunciata vocazione riformista e i suoi riflessi più intimamente giustizialisti. Per questo l’avvio della riforma, in Aula, potrebbe affiancarsi a manifestazioni che il Pdl immagina indirizzate a contrastare “l’ideologismo della sinistra intellettuale che percorre la via giudiziaria all’eliminazione di Berlusconi”. Salvatore Merlo, FOGLIO QUOTIDIANO, 26 aprile 2011

LA TRUFFA DI CIANCIMINO. ECCO TUTTI I COMPLICI DEL GRANDE IMBROGLIO

Pubblicato il 25 aprile, 2011 in Il territorio | No Comments »

Solo con la voluttà della calunnia, e con il corri­spondente piacere del­la giustizia politica, può spiegarsi l’infame sto­riaccia di Massimo Ciancimi­no e dei suoi bardi. Arrestato per calunnia e truffa pluriag­gravata, il figlio del corleone­se don Vito da quasi tre anni pontificava con il bollo della Procura di Palermo, del suo numero due, il dottor Anto­nio Ingroia, il magistrato che fa comizi in piazza contro le leggi all’esame del parlamen­to, il professionista dell’anti­mafia che ha la libido da con­vegno, da manifesto politico­ideologico, e che usa il suo de­­licatissimo potere d’indagine e di ac­cusa mescolando­lo con un attivismo politico fazioso in forma incompati­bile con la Costitu­zione e la legge del­la Repubblica. (Il caso Lassini, al confronto, fa sor­ridere, e bisognerà pure che Milano torni ad essere una capitale della liber­tà, capace di ribel­larsi contro l’oscurantismo borbonico di una giustizia piegata a servire le traversie della politica politicante. Ca­ro sindaco Moratti, lei fa be­nissimo a impegnarsi per una competizione in cui il vol­to moderato e ragionevole della sua maggioranza emer­ga contro ogni manipolazio­­ne interessata, ma mi aspetto da lei e dalla borghesia colta che la sua maggioranza rap­presenta una parola chiara su una grande questione mi­lanese e nazionale: lo strame che si fa della giustizia). Massimo Ciancimino non è un pentito, non rientra nel­l­a controversa categoria di co­loro che pretendono di aver aiutato a fare giustizia con ri­velazioni in qualche modo ri­scontrate e capaci di mettere in scacco la delinquenza or­ganizzata di tipo mafioso. È invece un teste d’accusa sul­la cui attendibilità, in modi azzardati e avventurosi, alcu­ni Pm diretti da Ingroia han­no fatto la scommessa della loro vita professionale, por­tandolo per mano nel circui­to mediatico-giudiziario, con l’aiuto di Michele Santo­r­o e altri professionisti dell’in­formazione obliqua, insi­nuante, della macchina del fango (come impudentemen­te dicono, per ritagliarla sugli altri), dentro una narrazione calunniosa che ha investito lo Stato, i governanti, la politi­ca e infine il capo e coordina­tor­e dei servizi di si­curezza e di infor­mazione sui quali si fonda la credibi­lità degli apparati della forza e del­l’ordine repubbli­cano. Sotto scorta e as­sistito dai suoi di­rettori spirituali e giudiziari, per me­si e mesi il figlio di don Vito ha infan­gato Berlusconi, presidente del Consiglio; il senatore Del­­l’Utri, uno che sta per pagare con molti anni di galera la tra­sformazione calunniosa del­le sue amicizie controverse in un reato penale da Paese borbonico (concorso ester­no in mafia); Nicola Manci­no, già presidente del Senato e ministro dell’Interno e vice­presidente del Consiglio su­periore della magistratura; Giovanni Conso, giurista e già ministro di Grazia e Giu­stizia; il generale Mario Mori, l’eroe italiano che arrestò il capo della mafia; infine il pre­fetto De Gennaro, per anni ca­po della polizia, un uomo che ha lavorato contro la mafia con Falcone in modi contro­versi ma efficienti, e che ora fa parte, agli occhi dei suoi ne­mici, di un odiato apparato di governo della Repubbli­ca. E molti altri, secondo le convenienze d’occasione. Serve un colpetto al grup­po dei deputati che è entrato a far corpo con la maggioranza politica che gover­na il Paese? Ecco una propalazione pronta sul ministro appena nominato Saverio Romano, da tredici anni sotto in­dagine per mafia e da tenere ancora sul­la graticola anche grazie alle parole va­ghe, generiche ma velenose e insultanti e infanganti del ventriloquo di un padre morto da anni, che fa parlare al cospetto della giustizia i fantasmi della passione politica faziosa, al servizio di chi non si sa, ma per mezzo di quali avalli giudizia­ri e mediatici lo si sa benissimo. Il dottor Ingroia è arrivato alla delicatezza lettera­ria di scrivere la prefazione al libro di ca­lunnie del figlio di don Vito. Se una peri­zia non a­vesse svelato il carattere truffal­dino di questa testimonianza, chissà do­ve sarebbe arrivato il terzetto Ciancimi­no- Ingroia-Santoro. Questo tizio che ora è in carcere per calunnia e truffa, per aver fatto operazi­o­ni di copia e incolla su vecchi documen­ti fotocopiati per incastrare chi-sa-lui con il bollo della giustizia, è già finito a pagina 21 di Repubblica e a pagina 27 del Corriere della sera .L’insabbiamento del caso è già in pieno corso. I giornalisti giudiziari che hanno usato le sue carte false, e accompagnato con la loro opero­sa attività cronistica la scandalosa pro­mozione del suo ruolo di «icona dell’an­timafia », hanno già girato la frittata, prendendoci tutti per rimbecilliti, pri­ma di tutto i lettori dei loro riveriti giorna­li. Secondo loro quell’arresto non dimo­stra l’esistenza di una cospirazione poli­tico­ giudiziaria che si chiama appunto calunnia contro uomini pubblici decisi­vi della nostra vita democratica, no, c’è un puparo ignoto dietro la calunnia e adesso gli stessi magistrati che hanno ac­cudito il pupo dovranno eroicamente dare la caccia al puparo. Un nuovo mi­stero, nuovo fango che avanza, nuova in­giustizia. Ora basta. Se nessuno tra coloro che hanno autorità per farlo si muovesse, se il ministro Alfano, il vicepresidente del Csm Vietti, il capo dello Stato, non sen­tissero il dovere civile di accertare che cosa è accaduto, sotto il travestimento ridicolo dell’obbligatorietà dell’azione penale, se nulla di serio e di liberale e di garantista dovesse accadere nei prossi­mi giorni, l’anarchia già in fase avanzata in cui vive questo Paese straziato da un ventennio di uso politico della giustizia diverrebbe un’esondazione di colpe in­crociate, il fomite di una generale dele­gittimazione. E chi ama la Repubblica non può stare a guardare senza fare nul­la. Ci sono forze ancora grandi e limpide capaci di reagire in modo serio, respon­sabile, equilibrato, trovando le parole giuste per dire lo scandalo più grave, in materia di stato di diritto e di regolare funzionamento delle istituzioni, da vent’anni a questa parte? Quando un magistrato avalla una cospirazione ca­lunniosa contro i capi del governo, i par­lamentari, i generali dei carabinieri, i ca­pi dei servizi segreti, i vicepresidenti del Csm, che cosa si deve fare? Starsene a braccia conserte? Godersi lo spettacolo voluttuoso della calunnia di Stato e aspettare che chi l’ha consentita faccia giustizia? Che cosa aspettiamo a tirare fuori l’articolo 289 del codice penale,«at­tentato a organi costituzionali», che pu­nisce con dieci anni di galera chi cospira contro lo Stato? Giuliano Ferrara, Il Giornale, 25 aprile 2011
……..Ecco un atto di coraggiosa denuncia di una giustizia asservita a scopi poco chiari. Bravo Ferrara, purtroppo però non basta la sua denuncia se la politica e in primo luogo la maggioranza non trova la forza per sottrarsi al politicamente corretto e dica pane al pane e vino al vino. Nella vicenda di Ciancimino, il cui fermo è stato tramutato in arresto, l’unico a parlare è stato l’on. Cicchitto il quale ha dichiarato che l’arresto di Ciancimino da parte della Procura di Palermo,  che per anni, come pure ricorda Ferrara, lo ha usato per delegittimare lo Stato, nasconderebbe l’obiettivo di sottrrarre la gestione del grande calunniatore alla Procura di Caltanissetta e per tentare dei distinguo. Ed infatti il pm palermitano Ingroia, quello dei comizi e dei proclami contro il governo e la maggiorazna che lo sostiene, già ieri si è precipitato a dire che le parole di Ciancimino vanno valutate caso per caso. Alla luce di ciò e della denuncia di Cicchitto, che sembra trovare conferma proprio nelle parole di Ingroia,  il  ministro della Giiustizia si affretti ad assumere le iniziative necessarie, prima che l’arresto di Cinacimino venga usato per altri infamanti tentativi di infangare quelli che nel 1994 impedirono alla occhettiana  macchina da guerra di conquistare il Paese per trasformarlo in un immenso Gulag del terzo millennio. g.

IL PDL DEVE ANCORA FARSI E IL CENTRO DESTRA PUO’ AVERE UN FUTURO DOPO BERLUSCONI SOLO CON UN PARTITO VERO

Pubblicato il 23 aprile, 2011 in Politica | No Comments »

Se il Pdl diventasse un partito vero, il centrodestra potrebbe avere un futuro. Al contrario, se dovesse restare l’”incompiuta” che dal marzo 2009 abbiamo sotto gli occhi difficilmente quel blocco sociale e culturale di orientamento conservatore continuerà ad identificarsi nel movimento berlusconiano. E in questa malaugurata ipotesi inevitabilmente ci troveremmo davanti a una gigantesca delusione dagli effetti devastanti: la destrutturazione del bipolarismo e l’implosione del sistema. Se le cose dovessero svilupparsi in tal modo, non è escluso, come da molti segni si intuisce, che le numerose “anime” del centrodestra finiranno addirittura per combattersi tra di loro, mandando in fumo le aspirazioni politiche di quei ceti dinamici, produttivi, conservatori che si erano riconosciuti nell’annunciata, ma mai realizzata, rivoluzione nazional-liberale. Questo è lo scenario che si propone alla nostra considerazione mettendo insieme gli eventi che negli ultimi mesi hanno squassato il Pdl, l’ultimo dei quali, il conflitto innescato dal ministro Giancarlo Galan contro il ministro Giulio Tremonti, è il punto d’arrivo di un magmatico disagio interno che non è stato domato come era lecito attendersi che avvenisse. Il motivo è semplice. Il Pdl se fosse stato un partito e non un comitato elettorale, peraltro mal sopportato dal suo stesso fondatore, non si sarebbero prodotte nel suo seno le molteplici scosse che rischiano di far franare la già fragile costruzione. I partiti politici, con buona pace di tutti i “nuovisti”, sono gli unici soggetti riconosciuti affinché si produca il consenso politico funzionale a dare sostanza ad una democrazia. Possono, naturalmente, essere declinati in vario modo, ma non abrogati almeno fino a quando i sistemi di partecipazione e di intervento popolare saranno quelli che conosciamo. Se lo posero il problema della rappresentanza all’inizio del secolo passato Max Weber e negli anni Trenta Roberto Michels, arrivando alle stesse conclusioni: essa non può prescindere, nelle società di massa, modellate da interessi e valori, dall’azione dei partiti e, dunque, dalle strutture attraverso le quali questi interagiscono con i cittadini. Non credo ci sia bisogno di ripetere la lezione neppure a coloro che hanno dato vita al Pdl provenienti, perlopiù, da soggetti tradizionali e perciò avvezzi a maneggiare la materia con una certa confidenza. Forse è soltanto il caso di ricordargli che la forma-partito impone la discussione interna, il confronto, il conflitto se del caso, ma possibilmente in luoghi deputati e occasioni opportune. Insomma, che qualsivoglia querelle debba deflagrare sui giornali, accendere i dibattiti televisivi, riproporsi distorta o strumentalizzata davanti all’opinione pubblica non è certo un omaggio alla trasparenza, come si potrebbe pensare, ma una sudditanza allo sputtanamento in voga che certo non aiuta i cittadini a riconoscersi nel loro partito. Il quale, per quanto non debba più essere chiuso, fideistico, confessionale o oligarchico (ecco che torna l’insegnamento di Michels), dovrà pure avere una sua compattezza che gli consenta di assumere decisioni e orientare l’opinione pubblica che in esso si riconosce. Qualcuno può onestamente dire di aver mai riscontrato elementi vagamente somiglianti a questi richiamati nel Pdl? Dalla ovvia risposta negativa discende la comprensione delle ragioni che lo stanno logorando. E che, a dispetto di tanti buoni propositi enunciati da molti suoi dirigenti, le lacerazioni sembra che si estendano maggiormente quando si dovrebbero serrare le file, come nell’imminenza di importanti appuntamenti elettorali e di battaglie politico-parlamentari. Da qui la necessità di rimettere ordine nel partito, ripensandolo profondamente e subito, non quando i buoi saranno ormai scappati. Confidiamo che Berlusconi afferri l’occasione e sappia cavalcare la crisi della sua ultima creatura politica prima che sia troppo tardi. Prima, cioè, che arrivi il tempo dei diadochi pronti a spartirsi le vesti di un centrodestra che, a quel punto, sarà soltanto il simulacro di quel soggetto popolare e pre-politico che cercava risposte, congrue alle speranze coltivate, dalle vittorie elettorali di un partito che non è mai riuscito a definirsi.  Gennaro Malgieri, Il Tempo, 23/04/2011

IL PROFESSORE FA STUDIARE FACCETTA NERA PERCHE’ RACCONTA UN’EPOCA: SCOPPIA LA POLEMICA

Pubblicato il 22 aprile, 2011 in Costume | No Comments »

Lo spartito originale di «Faccetta nera» del 1935Lo spartito originale di «Faccetta nera» del 1935

Nel mezzo delle polemiche sulla scuola che indottrina i ragazzi arriva dal Veneto un caso che aggiunge benzina sul fuoco: «Faccetta Nera» cantata a scuola, in una media del Vicentino, per iniziativa del professore di musica. La canzone simbolo della presenza «civilizzatrice» dell’Italia fascista in Abissinia, è stata proposta agli alunni della media di Pove del Grappa (Vicenza) nel corso di un programma multidisciplinare che prevede lo studio sul fascismo e la musica del Ventennio. Peccato che quando hanno sentito i figli provare a casa sullo spartito «Faccetta Nera», ma anche «Giovinezza» – come riferisce Il Mattino di Padova – alcuni genitori siano rimasti di stucco. Ora sono intenzionati a chiedere spiegazioni alla scuola, perché loro – spiegano – delle canzoncine del ventennio fascista nel programma non sapevano nulla. Si difende il professore di musica, Nicola Meneghini. Quelle canzoni, come anche Va’ Pensiero e la Leggenda del Piave studiate per il periodo della prima Guerra Mondiale, rientrano «in un ciclo di lezioni che hanno cercato di contestualizzare i periodi storici anche con la musica». «Conoscere non significa nè abbracciare nè sposare una causa – chiarisce la preside della scuola, Luisa Caterina Chenet – La cosa è stata contestualizzata. Non c’è alcun indottrinamento. La nostra è una scuola seria. Forse è stata una scelta culturale un po’ ingenua, ma l’insegnante non voleva certo sostenere alcuna posizione politica». Il docente di musica, però, già rilancia: per lo studio della seconda Guerra Mondiale i ragazzini troveranno sui banchi anche lo spartito di Lili Marlene». (Ansa)

….Sin qui la notizia così come l’ha diffusa l’ANSA e l’ha ripresa il Corriere della Sera di oggi. Ci domandiamo: si può censurare anche la musica che, come giustamente sottolinea l’insegnante, contribuisce a  raccontare una determinata epoca della storia italiana? E se si può censurare Faccetta nera che non era una canzone razzista, anzi era una canzone che accumunava i neri “occupati” ai bianchi “occupanti”, si dovrebbe anche censurare il Piave che era una canzone di guerra che può  per questo dispiacere i pacifisti. E poi c’è  la struggente  Lili Marlene,  che fu cantata dai soldati di tutto il mondo durante la seconda guerra mondiale, ma che fu lanciata dai microfoni della Germania nazista per voce della sua prima indimenticabile interprete, l’ungherese Lale Anderson, e poi cantata  dai microfoni degli alleati dalla più nota attrice di quei tempi, dalla bellissima Marlene Dietrich, tedesca,  a cui si è di certo ispirata la splendida e affascinante Serena Autieri quando l’ha  cantata qualche sera fa alla TV  nel corso di una delle trasmissioni di Vespa e Baudo dedicate all’Unità d’Italia. Insomma, non il è davvero caso di mescolare il sacro con il profano, la musica con i fatti accaduto durante il tempo in cui una certa musica, talvolta un brano, una canzone, sono andati di moda. Se così dovesismo fare dovremmo dimenticare e distruggere,  e non solo per la  musica, tanta parte della cultura del passato. g.

LA CULTURA DI DESTRA? CLANDESTINA, MA VIVA

Pubblicato il 22 aprile, 2011 in Cultura | No Comments »

Chi ha ucciso la cultura di destra? Le piste al vaglio degli inquirenti sono quattro: la sinistra, Berlu­sconi, Fini, il suicidio. O per dir meglio, le ipotesi finora avanzate sono le seguenti: a) l’egemonia culturale della sinistra con la sua cappa ideologico-mafiosa le avrebbe negato gli spazi di libertà e visibilità fino a soffocarla; b) l’egemonia sottoculturale del ber­lusconismo in tv e in politica l’avrebbe per metà corrotta e per metà emarginata; c) l’insipienza della destra politica avrebbe de­molito ogni ragione culturale e ideale della destra, fino all’epilo­go indecente finiano; d) la cultu­ra di destra è evaporata per la sua stessa inconsistenza.

La riapertura del caso, dopo an­ni di silenzio, è dovuta alla ripubblicazione di un saggio di Furio Jesi, Cultura di destra (già Garzanti, ora Notte­tempo), uscito negli anni Set­tanta. È già un brutto indizio che si regredisca ai feroci e cupi anni Settanta con un trattato di criminologia culturale. Jesi, che morì precocemente nel 1980, convoca in un tribunale ideologico grandi autori, da Eliade a Kerényi, da Evola a Spengler, fino a Pirandello e D’Annunzio, arrivando perfi­no a Carducci e a De Amicis, so­cialista patriottico qui accusa­to di razzismo. Per Jesi la cultu­ra di destra è connotata dal raz­zismo e dall’antidemocrazia, dalle «idee senza parole», dalla mitologia irrazionalistica e dal culto della morte. Jesi liquida la cultura di destra come «una pappa omogeneizzata» (se c’è una cosa che ripugna alla cultu­ra di destra è la pappa omoge­neizzata) che esige valori non discutibili con la maiuscola: «Tradizione e Cultura, Giusti­zia e Libertà, Rivoluzione». È curioso notare che eccetto la Tradizione, quei valori sono di­chia­rati indiscutibili e maiusco­li a sinistra; Giustizia e Libertà è pure il nome di un movimento antifascista di ieri e di oggi.

Nella prefazione alla nuova edizione, che ignora i numerosi saggi sul tema usciti nel frattem­po negli ultimi 32 anni, Andrea Cavalletti sostiene che la cultu­ra di destra è «caratterizzata, in buona o in cattiva fede, dal vuo­to ». Ora, a parte l’assurdo di de­dicare centinaia di pagine al «vuoto», ne avessero dalle sue parti di «vuoti» come quei gigan­ti del pensiero e della letteratu­ra prima citati… E conclude allu­dendo, come è ovvio, a Berlu­sconi: la cultura di destra ama la relazione tra «la moltitudine e il vate» e perciò si ritrova nel pre­sente: «un simile benefattore è il tipo politico dei nostri giorni», «il linguaggio delle idee senza parole è la dominante di quan­to oggi si stampa e si dice» (ma che dice? Oggi dominano le pa­role senza idee e la stampa non è certo in mano alla cultura di destra) e la cultura di destra è egemone perché «ciò che la ca­ratterizza è la produzione del vuoto dal vuoto» (ma crede che Evola e Spengler siano i precur­sori di Lele Mora e Fede?). Con un livello così misero, capite il disagio nel discutere sulla cultu­ra di destra. E capite perché ne­ghino ancora, al più grande filo­sofo italiano del ’900, Giovanni Gentile, una via a Firenze dove fu ucciso dopo aver predicato la concordia in piena guerra civi­le.

Ma torno alla domanda inizia­le su chi ha ucciso la cultura di destra. Sono plausibili tutte le piste indicate ma a patto di chia­rirle meglio.
Certo, la cultura dominante di sinistra, dopo un periodo di dialogo e apertura, si è reincatti­vita e condanna la cultura di de­stra alla morte civile. Sono lon­tani i tempi in cui un editore co­me Laterza pubblicava, facen­do 15 ristampe, un saggio sulla cultura della destra di un auto­re di destra. In seguito, inaspri­to il clima, lo stesso editore ha declinato l’invito a integrare quel testo con i dialoghi dell’au­t­ore con Dahrendorf e con Bob­bio. Oggi dialogano solo se ti di­chiari antiberlusconiano. Ma la cultura di sinistra era egemone e faziosa già ai tempi in cui fiori­va la cultura di destra; dunque l’ipotesi è fondata ma non ba­sta.

Certo, la sottocultura televisi­va, il frivolo e il banale domi­nanti hanno reso straniera la cultura di destra, la fanno senti­re a disagio, fuori posto. Ma quella sottocultura imperversa­va dai tempi della Carrà e dei quiz, di Giovannona coscialun­ga e affini; e allora non c’era an­cora il berlusconismo. Insom­ma pure questa ipotesi è fonda­ta ma non basta.

Anche l’insipienza della de­stra politica è storia vecchia, Fi­ni l’ha portata al suo gradino ul­timo e più infame, ma sarebbe troppo ritenere che le sue piro­ette abbiano cancellato la cul­tura di destra. Quella cultura non viveva all’ombra di un par­tito; per la stessa ragione non può essere uccisa dalla politi­ca.

All’evaporazione, infine, non credo; piuttosto è vera la ra­refazione dei talenti, anche per il clima di cui sopra, tra nemici di fuori, ignoranti di dentro e il nulla che tutto pervade. Nel ge­nerale degrado della cultura, anche quella di destra spari­sce. Della cultura di sinistra so­pravvive la cappa di potere, l’as­setto mafioso e intollerante, non certo l’elaborazione di idee. Non mancano pulsioni autodistruttive, nella cultura di destra, derivate da pessimismo endogeno e sconforto esoge­no. Ma la cultura di destra ha dismesso i panni della cultura militante, panni vecchi e fuori tempo, ed è tornata al Padre. Si è fatta invisibile e celeste, me­no legata alla storia e alla lotta, più essenziale ed esistenziale, liberata dalle categorie ideolo­giche. Quegli autori citati, no­nostante alcuni brutti risvolti, restano grandi ed è meglio che non siano sporcati nella conte­sa politica e siano lasciati alla loro grandiosa solitudine.

Al termine delle indagini sommarie, si può dire: la cultu­ra di destra non è stata uccisa e vive sotto falso nome; o forse fal­so era il nome di «destra» che le fu affibbiato. Per metà non la ve­diamo perché abbiamo perso gli occhi della mente, accecati dal livore presente e dalla nullo­crazia. Per metà non si fa vede­re lei, perché si è spostata su pia­ni diversi, impolitici. È passata alla clandestinità e non ha per­messo di soggiorno.

IN PARLAMENTO PROPOSTA PER FORMALIZZARE LA “SFIDUCIA COSTRUTTIVA”: E’ DEL PUGLIESE SARDELLI

Pubblicato il 21 aprile, 2011 in Politica | No Comments »

Luciano Sardelli, il capogruppo dei ‘Responsabili’, ha presentato alla Camera una proposta di legge costituzionale per inserire nella carta quella che chiama la “sfiducia costruttiva”. Il testo, composto da un solo articolo, mira a modificare l’articolo 94 della Costituzione, e  prevede che il presidente del Consiglio possa cessare dalla carica se il Parlamento, in seduta comune, approva “una mozione di sfiducia motivata, conetenente l’indicazione del successore, con votazione per appello nominale a maaggioranza dei suoi componenti”.

PRIORITA’ – Sardelli spiega che “la logica dei Responsabili è quella di assicurare la governabilità del Paese. Si tratta di una riforma che andrebbe fatta ancor prima della legge elettorale”, ha spiegato il capogruppo di Iniziativa Responsabile (Ir), sottolineando il senso della sua proposta di legge. Sardelli si è rivolto anche all’opposizione, chiedendo che partecipi costruttivamente alla discussione della proposta.
Nel dettaglio, il voto contrario di una o di entrambe le Camere su una proposta del governo, non comporta l’obbligo di dimissioni, come invece prevede l’articolo 94 della Costituzione. La mozione di sfiducia, invece, deve essere firmata da almeno un terzo dei componenti di ciascuna Camera e non può essere messa in discussione prima di tre giorni dalla sua presentazione. La nomina del nuovo presidente del Consiglio da parte del Capo dello Stato, conclude il testo della proposta di legge, comporta automaticamente la revoca di quello precedente e la decadenza dei ministri in carica. Secondo Sardelli “l’Italia non si può permettere di continuare ad essere in balia di un istituto costituzionale che consente all’opposizione, a qualsiasi schieramento essa appartenga, di paralizzare o ritardare l’azione del governo proponendo esclusivamente la sfiducia a questo senza prospettare un’alternativa”.

ARRESTATO MASSIMO CIACIMINO: ERA L’EROE ANTIBERLUSCONI DI SANTORO E COMPAGNI

Pubblicato il 21 aprile, 2011 in Giustizia, Politica | No Comments »

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Arrestato per calunnia. L’imprenditore Massimo Ciancimino è stato fermato dalla polizia a Bologna su ordine della procura di Caltanissetta per aver calunniato l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro. Ciancimino Junior è stato per mesi un ospite fisso del programma Annozero, al centro delle sue dichiarazioni la presunta trattativa tra Stato e mafia e i presunti rapporti tra Berlusconi, Dell’Utri e suo padre Vito Ciancimino. Le ospitate del figlio del sindaco mafioso provocarono subito scalpore, sia a destra che a sinistra. Ciancimino Jr attaccava tutto e tutti sulla base di presunti pizzini. Una tribuna mediatica che per mesi ha catalizzato milioni di telespettatori. Oggi la veridicità del guru di Annozero inizia a incrinarsi.
Ciancimino, già condannato per riciclaggio, è testimone in diverse inchieste di mafia tra cui quella sulla presunta trattativa tra Cosa nostra e lo Stato. Ciancimino è stato fermato da agenti della Dia di Palermo su ordine della Dda palermitana e non nissena. Il figlio dell’ex sindaco mafioso del capoluogo, infatti, è indagato a Caltanissetta per aver calunniato l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro, ma ha prodotto anche alla procura palermitana documenti tra cui uno che sarebbe stato “manomesso” in cui c’è il nome del direttore del Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza.

Nell’elenco di nomi sulla fotocopia consegnata ai pm di Palermo da Massimo Ciancimino, quello di Gianni Gennaro sarebbe stato “interpolato” secondo l’analisi fatta dalla polizia scientifica. Lo conferma il procuratore di Palermo, Francesco Messineo. Ciancimino aveva spiegato ai magistrati che quell’appunto di suo padre conteneva personaggi vicini ai servizi segreti che avrebbero svolto un ruolo nella presunta trattativa tra Stato e mafia. Assieme ai nomi di Restivo, Ruffini, Malpica, Parisi, Sica, Contrada, Narracci, Delfino, La Barbera (dattiloscritti) c’è anche quello di De Gennaro, manoscritto, legato al nome “Gross” con una freccia. “La scientifica ha stabilito con certezza assoluta – spiega Messineo – che il nome di De Gennaro è stato estrapolato da un altro documento presentato da Massimo Ciancimino e posto in quel foglio. In questo momento non ci risulta che ci siano altri documenti ’falsificatì ma non lo possiamo escludere, visto che la scientifica analizza i fogli che Ciancimino ci ha dato in vari periodi”.

PAOLO MIELI, L’HABITUE’ DELLE CAUSE PERSE

Pubblicato il 21 aprile, 2011 in Costume | No Comments »

Con una petulanza un po’ da sfaccendato, Paolo Mieli torna a dire che il Cav non ha comprato la villa di Lampedu­sa. L’ex direttorone del Corse­ra si è nuovamente presenta­to ieri in tv, Agorà su Rai Tre, per ripetere che a due settima­ne dall’annunciato acquisto ci sono solo caparra e compro­messo. Lo scopo di Mieli è riaf­fermare che il Berlusca gli sta sulle scatole e lo piglia per i fondelli:«Ha detto “l’ho com­prata”. Come dice spesso, “l’ho fatto”oppure “Lampe­dusa è tra le cose fatte” che poi uno va vedere e la cosa non è come Berlusconi l’ha presentata». È la terza volta che Mieli ci batte, considerandola la sua intuizione forte di questo scorcio di primavera. La pri­ma sortita è stata a Ballarò il 5 aprile, dando manleva a Fini che in un video criticava la vi­sita all’isola del Cav in quelle ore. Paolo, in studio, salta su trionfante e dice: «Conosco il proprietario di quella villa e so per certo che non è stata ac­quistata da Berlusconi. È una bugia».

Gongolano gli antipa­tizzanti del Cav e afferra il mi­crofono Walter Veltroni che chiede al Premier di dimetter­si. I toni sono drammatici da quacchero dolente: «Se non è vero quello che il premier ha detto di fronte a tante perso­ne che soffrono, dovrebbe fa­re quello che si fa in un Paese civile: un passo indietro». Mieli si gonfia e la sua calvizie sprizza bagliori di aureola. Due giorni dopo il Foglio pub­blica i documenti della com­pravendita e sbugiarda il di­rettorone. Ma lui ignora. Va ad Annozero e insite. Ieri re­plica. Riguardiamo la scena. Emerge l’antipatia di Mieli per il Cav e, specularmente, la sua consonanza con i politi­ci che detestano il Cav. Si è vi­sto come in tv Paolo sia anda­to in soccorso di Fini e Veltro­ni abbia fatto da spalla a Pao­lo. Ma la lista dei pupilli di Mieli è più vasta perché il gior­nalista- richiamandosi ad an­t­iche figure della professione, Albertini, Missiroli, Scalfari, altri – è ossessionato dall’am­bizione di guidare i governan­ti in veste di maitre à penser.

A questa debolezza umana va anche ricondotta la tensione col premier che, in fondo, è frutto di delusione. Il Cav, in­fatti, aborre l’idea di farsi me­n­are il naso da una mosca coc­chiera, tanto meno da un ex sessantottino qual è Paolone. Quando il Cav scese in poli­tica nel 1994, Mieli dirigeva il Corsera già da un anno e mez­zo. Rimase per un po’ guardin­g­o in attesa che l’astro nascen­te gli desse retta. Insoddisfat­to, gli presentò il conto. Men­tre il Cav presiedeva a Napoli un vertice mondiale, pubbli­cò sul suo quotidiano l’avviso di garanzia del pool di Milano che incriminava il Capo del governo. Era guerra: Mieli aveva schierato contro il pre­mier il quotidiano, fin lì, più governativo d’Italia. Il Corrie­re non fa uno scoop per farlo, come faremmo noi del Gior­nale , più incoscienti. Sui pro e contro ci fa notte. In questo, Paolone è un callido volpone.

In un’altra occasione, quan­do un suo cronista giudizia­rio, Carlo Vulpio, rivelò in una corrispondenza nomi de­­licati – Nicola Mancino vice del Csm, Mario Delli Priscoli, procuratore generale della Cassazione, altri – lo sollevò dell’inchiesta con una secca telefonata, portandolo al li­cenziamento. Dopo Napoli, tra Cav e Mie­li calò la saracinesca. Lascia­to il Corriere nel 1997, Paolo­ne- che non si sentiva valoriz­zato – si dette una spolveratu­ra asettica, al punto che nel 2003 (legislatura berlusconia­na) fu designato come «presi­dente di garanzia» alla Rai. Ma era una sceneggiata e l’aspirante capì che in realtà non lo voleva nessuno. Si legò al dito la disavventu­ra e, tornato per la seconda volta alla guida del Corriere (mai accaduto prima) lo schierò deciso contro il Cav. Un mese prima dell’elezione dell’aprile 2006, stampò un’editoriale di benservito a lui e una sviolinata rivolta Ro­mano Prodi. Scrisse: in cin­que anni Berlusconi ha «bada­to alle sue sorti personali» e ha deluso; «siamo invece con­vinti che la coalizione di Pro­di abbia i titoli per governare al meglio per prossimi cinque anni».

E giù una serie di osser­vazioni incantate sugli alleati del Prof: Rutelli che «ha crea­t­o un moderno partito liberal­democratico », Fassino «il grande traghettatore», il radi­cale Pannella e il socialista Bo­selli con «il loro mix di laici­smo moderato e istanze libe­rali », Bertinotti che ha fatto «approdare i suoi sulle spon­de della non violenza» e via con i solfeggi. Senza dimenti­care qualche benevolo pas­saggio rivolto a Fini e Casini, i «saggi» del centrodestra. Mie­li, occhio di lince, intuiva che intrigavano e li allettava. Que­sta carrellata di consigli, ca­rezze e ammonimenti è la ve­ra natura di Paolone che, per badialità dei gesti e voce sal­modiante, è il Budda del no­stro secolo. Sappiamo bene come sia­no finiti suggerimenti e previ­sioni. Prodi dopo due anni gettò la spugna inseguito dal­le toghe. Rutelli va in pedalò. Fassino è tornato a Torino. Pannella si è fatto crescere le trecce, Boselli ha perso i ca­pelli, per vedere Bertinotti bi­sogna andare a un cocktail.

Gli restavano Fini e Casini, ri­masti in sella grazie al Cav. Finché ha avuto il Corsera (2009), li ha coccolati con pif­feri e fanfare. A Pierferdy ha lasciato in dote un gioiellino tra il 5 e il 7 per cento. All’ami­co e editorialista Galli Della Loggia, ha raccomandato Gianfry. Galli, pasqualmente felice per la sprovvedutezza culturale dell’allievo,gli ha in­dicato con articoli di fondo le nuove praterie in cui pascola­re: la Destra storica, il laici­smo cavourriano, quello ospedaliero delle clonazioni, dei bimbi in provetta, delle fe­condazioni eterologhe. E lì, Gianfry ha brucato fino a ri­dursi alla controfigura di Boc­chino. Oggi, questo amabile burat­tinaio, autore di storia e buon conversatore tv, ha 62 anni. È figlio d’arte. Renato, il babbo, è tra i fondatori dell’Ansa nel dopoguerra, diresse l’Unità, fu segretario di Togliatti. Poi, aprì gli occhi, lasciò il Pci e scrisse un libro meraviglioso sulle malefatte del Migliore nella guerra di Spagna, To­gliatti 1937 . Nei suoi ultimi an­ni, collaborò col Giornale e Montanelli. L’arcobaleno di Paolone è simile. Quando en­tra all’ Espresso di Eugenio Scalfari a 18 anni, è un putti­no biondo e ceruleo. Poi di­venta un ceffo di Potere Ope­raio. Ma sta solo seguendo la moda, ben altri i suoi destini.

Dall’aio Eugenio succhia il gu­sto del potere. A 40 anni acca­lappia Agnelli che lo fa diretto­re della Stampa , due anni do­po è al Corriere , stesso milieu. Ha due figli dal primo matri­monio, una dal secondo con Barbara Parodi Delfino. A pre­sentargli la bella, fu Luca di Montezemolo che aveva avu­to una figlia da lei. Barbara era tiepida. «Mi sembra di una noia mortale», diceva. Dopo la convivenza, oggi fini­ta da tempo, precisò il giudi­zio: «Paolo ha la testa veloce e il corpo lento. Odia lo sport». Perciò non si darà all’ippica e imperverserà in tv. Il Giornale, 21 aprile 2011

IO VOTO LASSINI E MORATTI, di Alessandro Sallusti

Pubblicato il 21 aprile, 2011 in Costume, Giustizia, Politica | No Comments »

Da quasi tragedia a farsa. Roberto Lassini, il candidato consigliere comunale di Milano che Letizia Moratti non vuole più in lista («O me o lui») per via dei manifesti contro i giudici, sembra non possa fare un passo indietro. La legge elettorale non permetterebbe infatti modifiche alla lista dopo che questa è stata depositata in tribunale. E allora che fare? Pare che si vada verso la seguente soluzione: un impegno del reietto a dimettersi in caso di elezione.

In attesa di notizie certe, anticipo la mia intenzione: alle urne voterò entrambi, Moratti sindaco e Lassini consigliere. Mi sembra che i due possano tranquillamente convivere nel più grande partito popolare della Seconda Repubblica. Letizia Moratti ben rappresenta la testa del Pdl, e merita senza dubbi una riconferma. Lassini è invece portavoce della pancia del popolo berlusconiano, che non ha meno titoli e diritti di altre componenti. Chi pensa che questa sia una buona scelta, da oggi può associarsi

……

.…………..Diciamolo francamente.  Il PDL sta paurosamente incamminandosi sulla strada rovinosa che già fu della Democrazia Cristiana, quella del centrosinistra e poi del compromesso storico che aprì la strada al suo dissolvimento, prima ancora che giudiziario, politico. Mi spiego. La Dc, più o meno nel suo generale insieme, salvo qualche onorevole distinguo, ogni qual volta la sinistra, di ogni tipo e sfaccettatura, montava in cattedra per criticare i singoli esponenti della DC, dagli anni 70 in poi, non ci fu mai una sola volta che la DC, nei suoi vertici o anche nei suoi singoli esponenti, salvo, come ho già detto qualche sporadico caso isolato, prendesse le difese dei suoi esponenti aggrediti dalla sinistra. Basterebbe rileggere le cronache giornalistiche di quei tempi per constatare quanto affermo. Questo atteggiamento rinunciatario, se non vile,  della DC,  ne indeboliì la struttura, sopratutto politica e morale, tanto che quando poi si trovò coinvolta in tangentopoli non possedeva più anticorpo capaci di reagire. Unico e ultimo sussulto di dignità  fu quello di Moro che, sia pure per difendere un suo pupillo, Luigi Gui, comunque un galantuomo, in Parlamento osò dire che “mai la DC si sarebbe fatta processare nelle piazze”. Vuoi per l’alta qualità morale di Moro, vuoi per i toni straordinari, considerati quelli a cui Moro aveva abituato i suoi interlocutori, nessuno osò “processare” Moro per quelle sue parole. Ma fu l’ultima volta che la DC ebbe un soprassalto di dignità e reagì al fuoco nemico, cioè al PCI che come sempre guidava l’orda aggressiva della sinistra contro  la DC e il centrismo. Come allora la DC, anche ora il PDL, sebbene si stringa, non foss’altro che per soppravvivere, intorno al presidente Berlusconi e faccia quadrato per impedirne la morte – politica -, ogni volta, però,  che di mezzo non c’è direttamente Berlusconi, singoli esponenti del PDL non esitano a “delegittimare” (aborrisco usare questo abusato verbo di natura comunista doc) i loro colleghi un pò più temerari. Prima di arrivare a Lassini, e solo per fermarmi a questi ultimi giorni: Larussa ha in Aula uno scatto (giustificato!) di nervi contro Fini? eccoti lo Scaiola di turno che inveisce contro Larussa con uno stentoreo “vergognoso” (ma lui è quello di Biagi e della casa al Colosseo, ben più vergognosi dello scatto di Larussa); Pisanu, ex consigliere del buon Zaccagnini, arruolato da Berlusconi nel 1994 e da questi resuscitato politicamente, ora da tempo in zona “critica” del PDL,  sottoscrive una lettera congiunta con Veltroni – PD –  per invitare Berlusconi a farsi da parte per dare vita a una nuova stagione di decantazione politica (sic); sul Corriere della sera la signora Stefania Craxi, che ama chiamare il suo papà non “papà” ma Craxi, col cognome,  dà del “vecchio” a Berlusconi che secondo lei dovrebbe uscire di scena prima di farsi ridere dietro… (salvo poi giustificarsi con la scusa che ciò che l’ha spinta ad insultare Berlusconi, senza del quale lei starebbe dov’è suo fratello Bobo, è il gran bene che gli vuole..chissà cosa avrebbe scritto e detto se gli avesse voluto un gran male….; ieri, non più tardi, un deputato del PDL ha presentato una proposta di legge mirata a riscrivere l’art 1 della Carta (vezzosamente anch’io non aggiungo Costituzionale perchè come è noto in Italia c’è solo lei di Carta….) per precisare che la nostra Democrazia ha nel Parlamento, liberamente eletto dal Popolo, in libere elezioni, la sua centralità….apriti Cielo da parte delle opposizioni che definiscono la proposta “eversiva”…addirittura…..ma non era la centralità del Parlamento che rivendicava il Pci (lo ha ricordato Cicchitto) negli anni 70 e sino a d oggi e più di recente non lo ha rivendicato in tutte le salse l’ex fascista Fini, quello che qualche anno addietro avrebbe  volentieri ripristinato il Gran Consiglio da sostituire al Parlamento? Ebbene  l’on Lupi, di solito uno dei migliori e dei più accorti dirigenti del PDL, ha chiuso la faccenda con un lapidario “occupiamoci delle cose serie”.  Eppure la riscrittura dell’art. 1 non modifica alcunchè nella sostanza in quanto, per esempio, il Capo dello Stato, l’attuale Napolitano come il defunto picconatore  Cossiga, è il Parlamento che li ha eletti in nome  e per conto del Popolo che a sua volta ha eletto il Parlamento. Quindi….E veniamo a Lassini. Io non voto a Milano ma se votassi a Milano io  voterei la preferenza a Lassini,  ad onta di tutto e anche  delle dichiarazioni della signora Moratti che a sua volta dimentica che a votarla e ad eleggerla (mi auguro) ci saranno migliaia e migliaia  di milanesi che la pensano esattamente come Lassini, a proposito non della Magistratura nel suo complesso, ma di alcuni magistrati militanti che usano la giustizia per fare politica. Lassini, poi, una qualche ragione per essere “arrabbiato” con la Magistratura pur ce l’ha, se è vero come è vero, che negli anni 90, quando arrestare un sindaco, specie se DC,  era uno sport cui taluni magistrati si dedicarono con notevole superficialità – e il caso Lassini lo dimostra – negli anni 90, dicevo, Lassini fu arrestato, tenuto in cella 45 giorni, processato e assolto con ampia e liberatoria sentenza perchè il fatto di cui era accusato non sussisteva e risarcito, poi, con appena 5 mila euro, mentre da una parte il Pm suo accusatore, senza prove, faceva carriera e lui, invece, s’era vista distrutta la vita e la carriera, perchè essere stato in carcere, sia pure da innocente, è un marchio che non ti toglie più nessuno. Chissà… se la signora Moratti avesse subito le stesse “attenzioni” riservate a Lassini, forse non sarebbe stata così drastica e draconiana nei suoi confronti, ingiungendogli di lasciare la lista, sebbene una volta in lista, dovrebbe saperlo la Moratti, lì rimane e se i milanesi dovessero votarlo, come gli auguro, Lassini comunque siederà in Consiglio comunale,ad onta di tutte gli sdegni e le indignazioni del mondo, che per essere vere devono riguardare tutti, anche il Presidente del Consiglio che è una istituzione dello Stato, al pari del Presidente della Repubblica e dei Presidenti delle due Camere, quella alta e quella bassa, nella quale, anche nel corso dell’ultimo voto,  s’è sentito un tal Di Pietro definire Berlusconi “coniglio” senza nè che il presidente della Camera sentisse il dovere di togliergli immediatamente la parola, nè si è appreso che l’indomani, dall’alto del più alto Colle il suo attuale inquilino stilasse un doveroso comunicato di sdegno e di indignazione, simile ai tanti che vengono emessi e che, come sempre quando abbondano, fniscono per perdere significato e valore. g.

L’IMMODESTIA DI SCALFARI, IL SUER EGO MILIONARIO DEI FONDATORE-VATE

Pubblicato il 17 aprile, 2011 in Costume | No Comments »

La vanità è una brutta bestia. Quando la vecchiaia si impa­dronisce di un uomo, e un fu­tile compiacimento di sé si insinua nel suo cuore, perfino la di­sperazione di vivere diventa ridi­cola. Prendiamo Eugenio Scalfari, il Fondatore della Repubblica , il giornale che ha esercitato ed eser­cita con successo una pedagogia autoritaria ma non autorevole (glielo disse addirittura l’avvocato Agnelli, sempre attento al quoti­diano- cognato). Da una sua bella vecchiaia, magari orgogliosa e su­perba, ma non vanitosa, avrem­mo avuto tutti qualcosa da guada­gnare. Un bel vecchio sicuro della propria debolezza poteva riflette­re sulla sua boria fascista d’antan (scriveva allegramente su giornali del Duce, ma non se ne è mai as­sunto la responsabilità civile, reci­tando invece nella parte di un eroe longanesiano dell’eterno an­tifascismo bacchettone); poteva indagare sulle miserie di una sca­lata sociale e mondana che ha de­formato e massificato commer­cialmente la tradizione liberale del Mondo di Pannunzio, ma ha preferito lasciarsi pigramente coc­colare dai beautiful people di una Roma carina e indulgente; sareb­be stata una bella lezione intro­spettiva il suo riandare ai giorni in cui divenne un riccastro, sacrifi­cando a un pacco di miliardi debe­nedettiani le bellurie dolosamen­te bugiarde che raccontava sul­l’editore puro, e sul giornale che ha per soli padroni giornalisti libe­­ri e lettori, libertà inesistente scam­biata per solida paghetta nella ur­gente necessità di mettere insie­me la dote per le figlie, come disse giustificandosi, spudorato e inge­nuo; sarebbe stato bello se avesse denunciato il suo conflitto di inte­ressi con il proprio editore nella ventennale crociata antiberlusco­niana per st­rappare tanti bei milio­ni di euro all’Arcinemico, che ave­va rilevato Retequattro dal falli­mento degli eletti mondadoriani e poi la Mondadori dai suoi vecchi azionisti, lasciandogli la Repubbli­ca e il tesoretto dei giornali locali per imposizione politica di Craxi e Andreotti, intermediario Ciarrapi­co; e una meraviglia, sarebbe sta­to, uno Scalfari sereno, con qual­cosa di venerando sotto la sua or­namentale barba bianca, uno Scalfari equilibrato e non vacuo, non rancoroso, autoironico sul suo non facile rapporto di attrazio­ne verso la cultura che lo possiede ma che lui non possiede, la filoso­fia che biascica da liceale del se­condo banco, e magari capace di capire che la laicità è un valore lai­co e liberale, non una stupida con­fessione di fede e di ceto. Niente da fare. Il Fondatore af­fonda sempre di più nell’immode­stia scritta, orale e televisiva. Si guarda pensare allo specchio, in­contra il cardinal Martini per sug­gerire una spiritualità severa, pro­fonda, ma la sua, non quella del prelato di riferimento. Butta fuori a ripetizione libri ariosi e primave­rili, bozze di un banale giornali­smo culturale di serie B, per farseli recensire con gridolini di pensosa delizia sul suo giornale. S’incarta nelle varie «biennali della demo­crazia », dove i suoi scudieri neopu­­ritani, giuristi e ideologi altrettan­to vanagloriosi, gli apparecchiano un simulacro di idee e di pubblico che fa mercato, che fa soldi, che fa politica con mezzi spesso indecen­ti, da cinepanettone porno. Que­sto per la coltivazione dell’amor proprio dal basso. Intanto il suo italianista de chevet , debole in con­giuntivi, lo sprona a tirare le conse­guen­ze dei suoi ragionamenti sul­l’Arcinemico, a chiamare i Carabi­ni­eri e la Polizia di Stato per conge­lare le Camere in una bella prova di forza dall’alto. Il liberalismo del 113. In molti, tra i miei amici, aveva­no provato a restituire a Scalfari un po’ di fiducia in se stesso,solle­citandolo a essere come vorrebbe apparire, una specie di piccolo Montaigne meridionale, un diari­st­a introspettivo di magagne trop­po umane, e non una caricatura di filosofo, un guru pomposo e sem­­plicista per una élite di ignoranti in molta fregola, pieno di albagìa e di intolleranza. Non c’è stato ver­so. Viltà e vanità sono il carattere, evidentemente indelebile, del chierico italiano medio, il suo stig­ma botanico, la parte che riceve quella che Jonathan Franzen de­scrive come «l’impollinazione cul­turale » dei liberal derelitti e medio­cri nonostante tanta volgare pre­sunzione di sé. Peccato, e pazien­za. Bisognerebbe sottoporre il pe­tulante narciso alla cura del silen­zio, che gli farebbe un gran bene. Non fosse che per questo Paese soffocato dai cercatori di applau­so, intontito dagli amplificatori di un senso comune forcaiolo e fazio­so, la cura delle vanità è un sottile quotidiano veleno, fa male, sfini­sce, imbruttisce. GIULIANO FERRARA, 17 APRILE 2011