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BERLUSCONI: IL SUCCESSORE? LO SCEGLIEREMO INSIEME

Pubblicato il 14 aprile, 2011 in Politica | No Comments »

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“Tra tutte le colpe che mi addossano ora c’è anche quella di essermi scelto il mio successore…”. Silvio Berlusconi sceglie l’arma dell’ironia per “commentare” l’eco delle sue parole sull’investitura di Angelino Alfano. Il premier, incontrando i vertici del partito a palazzo Grazioli, ha spiegato che il suo successore sarà scelto dal partito. Non mi prendo certo questa responsabilità, lo sceglieremo tutti insieme, ha sottolineato il Cavaliere. Il presidente del Consiglio non ha fatto alcun cenno ad una tentazione di fare un passo indietro e all’intenzione di non candidarsi per la prossima legislatura. “Io sono convinto che il presente di Berlusconi sarà ancora molto lungo e che ogni discussione che riguardi il futuro è assolutamente prematura”, ha commentato anche il ministro della Giustizia, Angelino Alfano.

Discussione “prematura”, ha insistito Alfano, “non fosse altro per il motivo evidente che in tutte le democrazie occidentali il presente e il futuro dei leader lo stabiliscono gli elettori e mi pare che gli elettori abbiano suggellato ancora una volta in quest’ultimo triennio il loro favore nei confronti del presidente del Consiglio il quale peraltro ha una maggioranza solida in Parlamento”. Anche il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, fa sapere di occuparsi solo del presente: “Credo che Berlusconi abbia fatto bene a dire che abbiamo una robusta classe dirigente che ha avuto il merito di formare in questi anni”. “Il suo movimento politico è un robusto collettivo di persone – ha spiegato Sacconi – non entro nel merito. Mi occupo del presente e non del futuro”.

L’ESERCITO EGIZIANO PER SALVARSI GETTA MUBARAK IN PASTO ALLA FOLLA

Pubblicato il 14 aprile, 2011 in Politica estera | No Comments »

Davanti alla marea montante in piazza che accusa con forza l’esercito egiziano di fare parte del vecchio regime e di essere altrettanto repressivo, il maresciallo di campo Mohammed Hussein Tantawi ha compiuto la sola mossa che restava a sua disposizione: ha fatto arrestare l’ex presidente Hosni Mubarak e i suoi due figli per interrogarli con l’accusa di corruzione e di abuso di potere.

Ieri l’ex rais ha avuto un malore – le sue condizioni di salute sono pessime da almeno due anni – ma ugualmente sarà trasferito dalla sua villa di Sharm el Sheikh verso un ospedale del Cairo. Il ministro della Giustizia, Mohammed el Guindi, dice che gli interrogatori riprenderanno accanto al suo letto, segno che l’ex presidente in questo momento potrebbe non stare così male, ma non ci sono notizie precise. L’incertezza sullo stato di Mubarak è un riflesso degli anni del suo potere, quando anche soltanto nominare l’argomento era proibito: nel 2007 un famoso direttore di giornale, Ibrahim Eissa, fu condannato a sei mesi di carcere pr avere violato questo ennesimo codice del silenzio.

Alaa e Gamal, i due figli, lo hanno preceduto in manette a bordo di un piccolo convoglio militare che si è fermato nella prigione di Tora. Un gruppo di fedeli del regime ha bombardato con sassi e bottiglie i poliziotti incaricati dei tre trasferimenti. L’ordine di detenzione per 15 giorni è stato pubblicato sulla pagina Facebook della procura generale, aperta per facilitare le comunicazioni e la trasparenza dal tribunale e con gli egiziani – e soprattutto con i familiari delle vittime morte negli scontri di piazza durante i giorni della ribellione, ma anche per blandire lo spirito libertario e tecnologico della ribellione dei giovani.

Fino a quattro mesi fa il regime sembrava così saldo che il passaggio di poteri era quasi dato per certo a favore di Gamal. Le ambizioni politiche dell’ex banchiere formato a Londra erano state però subito sacrificate durante i primi giorni della rivolta, quando ancora la situazione sembrava controllabile: non tira aria, aveva detto Mubarak al figlio, sarà meglio non parlare più della tua ex certa candidatura per placare la gente nelle piazze. Ora Tantawi si è comportato con il padre secondo lo stesso schema: meglio farti saltare come se tu fossi un fusibile di sicurezza messo tra noi e la rabbia popolare. Il generale non poteva più ignorare i segni d’allarme. Venerdì scorso  una gigantesca manifestazione in piazza Tahrir al Cairo aveva investito direttamente il ruolo di Tantawi, per molti anni ministro della Difesa di Mubarak: “Con chi stai, con noi o ancora con lui?”. I manifestanti hanno inscenato un finto processo a carico del rais. Mustapha Kamel al Sayyid, professore di Scienze politiche all’Università americana del Cairo, spiega che la piazza piena è stata “un ultimatum. Se l’ex presidente non fosse stato interrogato, ci sarebbe stata una escalation”. Ma nonostante la presenza numerosa dei Fratelli musulmani, l’arresto di ieri “è una vittoria dei gruppi laici. Sono stati loro, la settimana prima, a cominciare a imporre la questione e a richiamare gente”.

L’intimidazione brutale da parte dei soldati contro una protesta di femministe – sottoposte a un test per provarne la verginità – il mese scorso e l’arresto recente di un blogger per avere criticato le Forze armate su Internet non rassicurano nessuno sull’atteggiamento dell’esercito, che nei giorni della deposizione di Mubarak era circondato da un alone eroico ma adesso – almeno fino all’arresto di Mubarak – sta deludendo le attese. Ora la mossa potrebbe aver funzionato, ma all’esterno suonerà come un avvertimento per i regimi in bilico nel resto del mondo arabo, dallo Yemen alla Siria al Bahrein. Lasciare il potere non basta, dopo vengono il processo e la possibile incriminazione.

.…………Non sappiamo, nessuno sa, se Mubarak nel corso dei 30 anni di potere gestito essenzialmente con l’appogggio e il sostegno delle Forze Armate da cui proveniva, abbia commesso crimini o si sia arricchito. O se ciò hanno fatto i suoi figli, uno dei quali era destinato alla successione come avviene nelle monarchie o nei regimi totalitari. Lo si saprà.  Però un merito Mubarak ce l’ha e nessuno potrà mai disconoscerglielo: è’ stato lui e il suo geverno che hanno  contribuito a creare le condizioni di parziale stabilità in un’area del Mediterraneo sconvolta dallo scontro tra Israele e Paesi arabi e dalle azioni terroristiche degli estremisti islamici. E’ stato Mubarak che a capo di una Nazione araba e religiosamente antiebraica  per quasi 30 anni si è trasformato nell’alleato più fedele dell’Occidente e nella trincea avanzata contro il terrorismo antioccidente. Non lo si può e non lo di deve dimenticare. Come non va dimenticato che sebbene ne abbia avuto la possibilità, come Ben Alì in Tunisia, Mubarak non ha abbandonato l’Egitto, non è fuggito con il “tesoro” in accoglienti rifugi  che di certo l’avrebbero ospitato…Mubarak  si è dimesso, evitando bagni di sangue e guerre civili come sta accadendo in Libia, ed  è rimasto in Egitto, insieme ai suoi figli, forse  anche in virtù di una qualche promessa che i “suoi” generali e qualche Potenza grata per la trentennale alleanza gli avranno fatto. Promessa  che evidentemente non è stata mantenuta se all’ex presidente e ai suoi stessi figli è stata riservata l’onta delle manette  e la cosiddetta custodia cautelare. Una brutta pagina e, come scrive il Foglio quest’oggi, un brutto messaggio per i tanti dittatori sparsi nel mondo che visto il precedente, difficilmente rinunzieranno al potere senza  spargere sangue innocente. g.

TECNICA DI UN COLPO DI STATO

Pubblicato il 14 aprile, 2011 in Politica | No Comments »

Il professor Alberto Asor Rosa incita sul manifesto, compassato quotidiano comunista, al colpo di stato. E’ un italianista in cattedra, quindi non si cura di scegliere come Dio comanda tra congiuntivo e indicativo (vuole “una prova di forza… che scenda dall’alto, che instaura… un normale stato d’emergenza” eccetera, e il resto della citazione la trovate qui sotto nell’antologia degli orrori confezionata per voi). Ma per quanto scriva da passante, Asor Rosa non è un passante. E’ un esponente autorevole della cricca Scalfari. E’ uno che con il vecchio Toni Negri, oggi in pensione, animava le correnti ideologiche contigue al terrorismo, dette “operaisti”, e che amava molto Slobodan Milosevic e il suo nazionalcomunismo abbattuto dalla guerra del Kosovo. Insomma, uno special one del più trucido e violento cazzeggio dell’antidemocrazia travestita da perbenismo e neopuritanesimo all’italiana.

Non solo il professore non è un passante, la sua idea golpista, esplicitata ieri come mai prima d’ora, con tanto di invocazione di Carabinieri e Polizia di stato al servizio di un piano eversivo per “congelare la Camere” e liquidare con la forza il governo eletto, è la versione letterale di molte altre posizioni analoghe, più o meno dissimulate, espresse da editorialisti del quotidiano di Carlo De Benedetti, la tessera numero uno del Partito democratico (così il brillante finanziere e nostro saltuario collaboratore ebbe a definirsi in passato). Ammiccamenti o pupi viventi del sardo-piemontese e appena un po’ più contegnoso Ezio Mauro, e del mondano Fondatore del giornale che egli dirige, gli editorialisti militanti di Rep. sono gli stessi che parlano dai palchi accanto al vanesio Eco e al banale Saviano e a un bambino tredicenne incaricato di recitare la litania dell’odio contro il Cav., una vera forma di prostituzione politica minorile al servizio dell’Anticostituzione. Tutti teorizzano il diritto di abbattere il tiranno con ogni mezzo, e affermano che non si può ottenere una nuova maggioranza in Parlamento e nemmeno nelle urne, ragion per cui occorre il colpo di stato, nelle forme magari meno evidenti di un governo del presidente o in quelle trucibalde descritte ieri da Asor Rosa.

Il pretesto è che Berlusconi è un delinquente, tocca il culo alle ragazze (il playful premier del Financial Times o, se volete, il “giocoliere galante” evocato dal vostro direttore), ha rincretinito gli italiani con i palinsesti televisivi, immagino a colpi di Lerner, Gabanelli, Gruber, Dandini, Floris, Santoro e Fabio Fazio, in più annullando ogni caratterizzazione politica dei programmi Mediaset e generando durante il suo dominio tirannico sul sistema un terzo polo televisivo in cui eccelle Enrico Mentana con il suo tg7; il delinquente inoltre ordina al Parlamento il confezionamento di leggi ad personam per difendersi dalla cura equilibrata con cui magistrati comizianti della procura di Palermo vogliono tirarlo dentro da anni con accuse di strage mafiosa, una delicata Boccassini vuole imputargli una rete di prostituzione per delle feste tenutesi a casa sua, e una quantità di altri magistrati, civili e penali, desiderano che vada in galera per le accuse più varie e che prima, per cortesia, passi un sette-ottocento milioni di risarcimento all’editore di Repubblica.

La faccenda è grottesca, ma è anche molto seria. Il fronte antiberlusconiano eccita gli animi alla guerra civile. Il gioco è sporco, brutale. Le gride illiberali emesse da questi tecnici del colpo di stato rimbecilliscono davvero una minoranza fanatica. La loro stampa fiancheggiatrice di bassa lega, guidata da un manipolo di teppisti dell’informazione, diffama e denigra a piene mani, tutti i giorni, coloro che tentano di resistere all’ondata di piena merdaiola. Mettono in pericolo la convivenza civile con l’ostentazione della virtù mentre i loro attori e saltimbanchi simbolo investono alla caccia del 20 per cento di interessi promesso dal Madoff dei Parioli i loro piccoli risparmi ottenuti nel vasto e florido mercato dell’odio politico. Questa masnada mette in mora le istituzioni e i poteri neutri. Rovescia ogni frittata e, mentre butta fango e merda sull’Arcinemico, lamenta di essere vittima di una orwelliana macchina del fango (il senso dell’umorismo non è il forte di questi golpisti meschini, di questi chiagn’ e fotti).

C’è chi il dirty job, il lavoro sporco, lo fa con argomenti diretti, come l’italianista che sbaglia congiuntivo e indicativo, chi lo fa con argomenti malinconici e profetici, chi lo fa impancandosi a difensore del diritto o meglio di una versione totalitaria e incostituzionale della legalità, intesa come una clava da opporre alla sovranità del Parlamento, alla sovranità dei cittadini che lo eleggono, alla divisione dei poteri distrutta dalla incauta riforma dell’articolo 68 della Costituzione, nell’anno di grazia del Grande Terrore, il 1993.

E’ ovvio che a nessuno di questi gentiluomini, a nessuna di queste nobildonne importa che sia possibile processare Berlusconi. Se questo fosse l’obiettivo, a prescrizione sospesa, con il lodo Maccanico, poi Schifani, poi Alfano, sarebbe un gioco da ragazzi costruire un’alternativa al giocoliere galante, rovesciarlo con un voto popolare e poi processarlo in tribunale. Ma loro non vogliono processarlo, vogliono abbatterlo e vogliono farlo anche per derubare noi delle imperfette ma vive libertà italiane e per derubare lui del suo patrimonio a nome e per conto (corrente) dei loro padroni. In spregio ai cittadini che hanno scelto un imprenditore e leader politico atipico per ben tre volte (e hanno scelto liberamente un altro principe, Romano Prodi, ben due volte relegando Berlusconi all’opposizione).

L’Italia è una democrazia. Il giocoliere galante gioca con tutto tranne che con la regola delle regole, il diritto della maggioranza a governare sotto il controllo delle istituzioni. Un controllo occhiuto, che va dal Quirinale alla Corte costituzionale, da un establishment economico e finanziario criticabile, ma plurale ed europeo, a una stampa liberissima e in certi casi omologata alla morale corrente del contropotere. Questa democrazia è sotto il tiro dei cecchini. Sono pallottole verbali, come abbiamo visto sono invocazioni alla violenza contro la Costituzione e le leggi, contro il verdetto elettorale, sono parole che chiedono dall’alto quel che non si riesce a fare dal basso per mancanza di consenso, sono parole ma parole contundenti, che avvelenano l’aria che si respira, condannano una generazione politica al settarismo, al moralismo più insincero e al virtuismo ipocrita. Sono parole che vanno spiegate, diffuse, illustrate e criticate, anzi demolite, con tutti i mezzi leciti. Non capisco come sia possibile che, al posto o a integrazione di piccoli show in tribunale, il Popolo della libertà non convochi un grande raduno nazionale al Palasport di Roma con il titolo: “Storia di una persecuzione politica”. E il sottotitolo: “Tecnica di un colpo di stato”.

Non si può assistere a questo grottesco scempio della legalità e sovranità repubblicana senza protestare, senza scendere in strada, senza resistere. E le istituzioni terze, le istituzioni di garanzia, alle quali in sospetta concomitanza il leader del Pd Massimo D’Alema chiede uno sbrigativo “scioglimento delle Camere”, dovrebbero, se ci sono, battere un colpo significativo e rumoroso. E spiegare che con la democrazia non si scherza, che c’è un confine valicare il quale è costituzionalmente proibito. Giuliano Ferrara,  FOGLIO QUOTIDIANO, 14 aprile 2011

Giuliano Ferrara

COSA CI SARA’ NELL’ERA DEL DOPO BERLUSCONI

Pubblicato il 14 aprile, 2011 in Politica | No Comments »

Silvio Berlusconi Cosa c’era nell’era a.B. quella avanti Berlusconi? Risposta automatica: la Prima Repubblica. In realtà c’era il caos generato dalla ditta di demolizioni della magistratura, il crollo del Muro di Berlino e la nascita di un altro ordine internazionale. Cosa ci sarà nell’era d.B. quella dopo Berlusconi? Osservando alcuni fenomeni del passato possiamo immaginare il futuro e spiegare perché è sbagliato – a sinistra ma soprattutto a destra – provare a «ingegnerizzare» la successione a Silvio.
Berlusconi non è figlio della tradizione dei partiti italiani. La sua stagione nasce dalla ricetta del «meno Stato più mercato». In diciassette anni l’essenza del berlusconismo è ancora il mix di ingredienti all’origine di Forza Italia e del suo fondatore. Un soggetto a-politico, im-politico, fuori dal giro istituzionale, outsider dell’establishment finanziario e culturale del Paese. Berlusconi è la «rupture» del sistema dei partiti generato dal dopoguerra che aveva costruito la democrazia italiana. In questi giorni si ipotizzano due scenari di successione: il primo è un regime change pilotato, guidato e “battezzato” dallo stesso Cav; il secondo è un putsch interno che ha raggiunto la sua massima espressione nel malpancismo di corrente.
Nessuna delle due ipotesi sta in piedi. Lo stesso Berlusconi dimentica che l’uomo venuto da Arcore entra in scena in una forma inedita, non mediata dai partiti, attraverso un’investitura popolare che deriva da un rapporto diretto con l’elettorato e la miriade di pixel che si fa audience, pubblico televisivo, costume nazionale. La prima rivoluzione berlusconiana (la più grande e permanente) si compie nella proiezione dell’immagine passiva (tv ieri, videomessaggio oggi) e cambia i codici della comunicazione politica. Lo scenario del d.B., il dopo Berlusconi, sarà un altro giorno: visione, ascolto e narrazione della politica saranno un fenomeno attivo (teoria e pratica del social network). La successione a Berlusconi e la creazione del post-cavalierato saranno partecipazione e rivoluzione tecnologica, il «social sharing» di un altro immaginario collettivo.

Cari congiurati e aspiranti alla successione, rassegnatevi: il Cavaliere è stato solo il primo di una serie di leader figli di una rivoluzione dal basso. Avanti i nuovi, non i prossimi.  Mario Sechi, Il Tempo, 14 aprile 2011

………….Tutti i giornali stamani riportano e commentano alcune dichiarazioni che sarebbero state  rese da Berlusconi in un incontro con la stampa estera  a proposito del dopo, tra l’altro una investitura di Alfano alla guida del govenro e una investitura di Gianni Letta al Qurinale. Dichiarazioni che il portavoce di Berlusconi, Boaniuti, ha ridotto a ipotesi. Perciò ci sembrano opportune le riflessioni che sul dopo Berlusconi espone questa mattina sul Tempo il suo direttore, Mario Sechi. Riflessioni come sempre lucide accompagnate ad analisi altrettanto fondate che condividiamo. D’altra parte,  e lo sottolineamo,  in politica nulla è più labile (e provvisorio) della programmazione,  perchè,  come ricorda un vecchio adagio,  c’è chi fa le pentole ma c’è sempre qualcun’altro che fa i coperchi. g.

LA CAMERA VOTA IL PROCESSO BREVE: 314 SI, 296 NO

Pubblicato il 13 aprile, 2011 in Politica | No Comments »

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Al termine di un estenuante dibattito via libera al processo breve. La Camera approva il provvedimento con 314 sì e 296 contrari. Presenti e votanti sono stati 610. Ora il testo passa al Senato per l’approvazione definitiva. “Finalmente una legge che mette l’Italia al passo con l’Europa”. Silvio Berlusconi con i diversi deputati che lo hanno chiamato per informalo dell’approvazione della legge sulla cosiddetta ‘prescrizione breve’ non nasconde la soddisfazione per il via libera al provvedimento. Una soddisfazione legata anche alla tenuta della maggioranza che in questi due giorni ha dato prova, a detta del premier, di una reale compattezza: “E’ stata l’opposizione – ha confidato ai suoi – a fare una pessima figura. Tra l’altro – ha proseguito nel ragionamento – i voti in più che ha ottenuto la maggioranza dimostrano che quota 330 è un obiettivo concreto”. Sulla stessa linea Umberto Bossi: “Questo voto ci dice che i numeri ci sono. Non arriviamo a 330? Sempre meglio di niente”. E alla domanda sul timore di scarcerazioni per effetto della legge, Bossi aggiunge: “Sono tutti giochi di prestigio della sinistra che ha fatto questa battaglia alla morte”. 13 aprile 2011

LA GIUSTIZIA USATA PER FINI ELETTORALI

Pubblicato il 13 aprile, 2011 in Giustizia, Politica | No Comments »

Giustizia, il testo sul processo breve arriva in Senato Poverini. Almeno a sentire i vertici del tribunale di Milano, i magistrati che vi lavorano sono “infastiditi” per il chiasso, diciamo così, dei processi a Silvio Berlusconi. I cui elettori, rintuzzati da dimostranti di opposto orientamento, si radunano davanti al Palazzo di Giustizia ogni volta che c’è udienza a suo carico per incoraggiarlo. E per raccoglierne i ringraziamenti e gli sfoghi sulla situazione “irreale” in cui egli si trova, costretto a dividersi in momenti difficili come questi fra gli impegni di capo di governo e di plurimputato. Anche per ovviare a simili inconvenienti il Parlamento ha più volte tentato non di cancellare, come sostengono le opposizioni, ma di sospendere i processi al presidente del Consiglio, e ad altre autorità istituzionali, durante l’esercizio del loro mandato, bloccandone contemporaneamente i termini di prescrizione. Lo ha fatto, in particolare, con diversi “lodi” e infine con la legge sul cosiddetto legittimo impedimento. Ma i magistrati di Milano, sempre loro, si sono costantemente opposti ricorrendo con successo alla Corte Costituzionale, le cui decisioni hanno consentito la ripresa dei processi, tutti insieme. L’elenco si è anzi allungato con il procedimento, ancora più clamoroso degli altri, che porta il nome di Ruby. E che ha ottenuto addirittura la corsia preferenziale del rito immediato per la presunta, assai presunta, completezza di prove addotta dagli inquirenti. Visti i loro insistenti e riusciti ricorsi alla Corte Costituzionale, il meno che si possa dire del “fastidio” ora lamentato dai magistrati milanesi è che se la sono cercata, sottovalutando peraltro le doti comunicative del loro imputato eccellente. Ma non minori sono naturalmente le responsabilità dei giudici costituzionali, che con le loro decisioni hanno disatteso anche il presidente della Repubblica. Il quale ci aveva messo la faccia nella promulgazione di leggi studiate apposta per risparmiare al Paese gli imbarazzanti spettacoli di questi giorni.

La Corte Costituzionale è alquanto permalosa quando se ne criticano le sentenze e se ne ricorda la natura oggettivamente politica, derivante dal fatto che i suoi giudici sono per i due terzi nominati o eletti, rispettivamente, dal capo dello Stato e dal Parlamento. D’altronde, essa fu definita una “bizzarria” all’Assemblea Costituente da Palmiro Togliatti e Pietro Nenni. Non minori furono le preoccupazioni successivamente espresse dall’allora presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, che il 20 giugno 1952 scrisse così al suo vice Attilio Piccioni: «Diffido dell’Alta Corte, che diventerà, temo, un corpo politico paralizzatore». I fatti purtroppo gli hanno dato ampiamente ragione, così come ha ragioni da vendere il Cavaliere quando ne sostiene la riforma. Ma torniamo ai processi di Berlusconi e ai «fastidiosi» inconvenienti improvvisamente scoperti dai magistrati che li hanno promossi e li conducono. Di tutti, il più clamoroso, come ho già scritto, è quello che porta il nome di Ruby. Esso però è anche il più lontano dall’epilogo, a dispetto del suo rito abbreviato, e il più evanescente. L’accusa sostiene che il presidente del Consiglio abbia concusso qualcuno alla Questura di Milano telefonando l’anno scorso a favore di una minorenne che vi era trattenuta e che in precedenza avrebbe fatto sesso con lui a pagamento, ma al processo nessuno si è costituito parte civile come concusso. Né si è costituita come parte lesa la ragazza, che nega di avere fatto sesso con l’imputato. A corto di speranze su questo accidentatissimo percorso giudiziario, per quanto disseminato di carte e di intercettazioni adatte allo sputtanamento del Cavaliere, le opposizioni si sono aggrappate al processo che porta il nome dell’avvocato inglese Mills perché lo considerano il più vicino ad una sentenza di condanna di Berlusconi per corruzione in atti giudiziari. Gli si sono talmente aggrappate da avere alzato le barricate ostruzionistiche contro una legge all’esame della Camera perché contiene una norma che lo farebbe decadere in poche settimane. Essa accorcia di un sesto i tempi di prescrizione per gli incensurati, qual è ancora il presidente del Consiglio, nonostante i tentativi in corso da una ventina d’anni di farne un pregiudicato. Il fatto è però che anche senza questa norma il processo Mills non ha alcuna possibilità di concludersi con una sentenza definitiva, scattando comunque la prescrizione a fine gennaio dell’anno prossimo. Rimarrebbe a portata di mano solo una sentenza di condanna di primo grado, tanto ininfluente sul piano giuridico, mancando un verdetto definitivo di secondo o terzo grado, quanto spendibile sul piano propagandistico contro il Cavaliere. Ecco a che cosa mirano i suoi avversari, togati e non: alla ennesima, arbitraria speculazione elettorale. Che il presidente del Consiglio e la maggioranza parlamentare, a questo punto, cercano legittimamente di impedire. Di un processo destinato a dissolvenza naturale una magistratura svincolata da visioni e interessi politici si libererebbe da sola, come fa con tanti altri procedimenti analoghi, dando la precedenza a processi di più sicura prospettiva. Non è evidentemente il nostro caso. C’è da esserne non infastiditi ma indignati. Francesco Damato, Il Tempo, 13 aprile 2011

ANCHE LA SINISTRA SCARICA FINI: “PEGGIOR PRESIDNETE DELLA STORIA”

Pubblicato il 13 aprile, 2011 in Politica | No Comments »

Roma - Alla fine anche la sinistra ha scaricato Gianfranco Fini. Nella bagarre della prescrizione breve, Montecitorio è stato assalito da una crisi di nervi che ha fatto letteralmente perdere le staffe ai partiti di opposizione che da ieri mattina si stanno affannando a rosicare minuti, secondi ai lavori parlamentari per procrastrinare il più possibile la discussione del ddl presentato dalla maggioranza. E, dopo oltre sedici ore di estenuante dibattito, i democratici hanno gettato la maschera e si sono scagliati contro il “baluardo” della sinistra contro lo strapotere dell’asse Pdl-Lega.

Lo hanno definito “il peggiore presidente della Camera”. Non di questi tempi. Il peggiore di tutta la storia della Repubblica italiana. Un’accusa pesante soprattutto se viene dal partito di Pierluigi Bersani con cui Fini, da diversi mesi a questa parte, sta flirtando per riuscire a far cadere il governo. Questa mattina il piddì Roberto Giachetti ha attaccato il leader del Fli per la conduzione dei lavori a Montecitorio. “Da quando è sotto attacco di Pdl e Lega che chiedono le sue dimissioni – ha spiegato l’esponente democratico – lei è il peggior presidente della storia”. Fini, impassibile, ha proseguito con gli interventi sul processo verbale.

Pier Ferdinando Casini si è subito schierato al fianco del presidente della Camera tenendo all’immagine di un Terzo polo coeso. “Sono allibito dalle parole del tutte incongrue di Giachetti contro il presidente – ha detto il leader centrista se avevo qualche dubbio sulla sua terzietà, ora ogni dubbio è svanito. Qui ciascuno vuol tirare il presidente dalla sua parte, ma il presidente non si difende solo quando fa le cose che piacciono a noi…”. Ma la difesa di Casini è caduta nel vuoto.

L’impossibilità di essere super partes per un politico che si trova a guidare sia Montecitorio sia uno dei partito dell’opposizione è stata più volte avanzata dalla maggioranza. Il Pdl lo aveva tacciato di essere un “dipietrista aggiunto”. La Lega Nord, invece, aveva presentato una discussione parlamentare per affrontare l’argomento e sanare la “ferita istituzionale” che si era venuta a creare. Discussione che era stata immediatamente abbandonata. Finché gli ha fatto comodo, però, la sinistra ha giocato di sponda con il fondatore di Futuro e Libertà rispedendo al mittente le accuse del Pdl. E Fini? Avanti per la sua strada. Due giorni prima del voto di sfiducia alla Camera, intervistato da Lucia Annunziata, il leader del Fli si era assunto in prima persona il ruolo di sfiduciatario del primo ministro italiano. Aveva detto: “Voteremo compatti la sfiducia al governo”. Il resto è storia: il 14 dicembre Fini ha perso la battaglia parlamentare in cui ha scelto di giocare un ruolo di primo piano. Ma il suo attenggiamento non è cambiato. Poche ore prima dell’inizio della discussione sulla prescrizione breve – tanto per citare uno degli ultimi episodi – il presidente della Camera ci ha tenuto a ricordare che il ddl è stato presentato dalla maggioranza e che lui è a capo di un partito dell’opposizione. Chi ha orecchie per intendere, intenda.

Forse la sinistra si aspettatava qualcosa di più. Magari un colpo di mano per mandare all’aria il processo breve. Così l’ha scaricato. D’altra parte, sondaggi alla mano, gli italiani hanno già dimostrato di non apprezzare la Santa Alleanza di Massiomo D’Alema che mette insieme democratici, futuristi e centristi. In realtà, i media progressiti avevano, già in passato, invitato Fini ad abbandonare lo scranno più alto di Montecitorio. All’indomani del colpo di mano fallito, Ezio Mauro scriveva su

Repubblica: “Fini dovrà dimettersi dalla presidenza della Camera per fare liberamente la sua battaglia politica decisiva”. Stessa tirata di Franco Cardini su Europa del 22 dicembre: “Una volta sceso sul terreno politico impugnando la bandiera della moralizzazione, e visto che il paese rispondeva (specie a sinistra), avrebbe dovuto far lui subito e per primo il gesto di abbandonare la presidenza della camera per rientrare a vele spiegate, come leader, nella politica”. Anche l’Unità non ci era andata leggera: “Era una scena che sfiorava i limiti della decenza della democrazia quella di veder sfilare i dissidenti del partito di Fini con gli occhi bassi, perché se li alzavano lì, sopra di loro, non c’era chi li doveva proteggere, ma colui che avevano tradito”.

A rigor di legge, Fini non è costretto a lasciare la presidenza della Camera. La costituzione non prevede, infatti, che questo ruolo istituzionale coincida con l’appartenenza alla maggioranza. Tuttavia, da sempre, le prerogative delle più alte cariche dello Stato sono – in base a una prassi precisa – imparziali e in grado di garantire quanto più possibile la propria neutralità. Adesso, anche il Partito democratico si è accorto che Fini non è una figura politica super partes. Il Giornale, 13 aprile 2011

E’ ORA DI FERMARE IL PARTITO DEI GIUDICI

Pubblicato il 13 aprile, 2011 in Giustizia, Politica | No Comments »

Oggi alla Camera c’è la partita che vale la stagione. Si vota per ap­provare la prescrizione breve agli incensurati, ma sarebbe ri­duttivo vederla solo così. Si vota per ripri­stinare l’autonomia del potere legislati­vo da quello giudiziario. Si vota per dire che finalmente nessuno si farà più inti­midire dalle scorribande nella politica. Sì vota per decretare il fallimento del pat­to occulto tra Fini e la magistratura per disarcionare Berlusconi e il suo gover­no. Si vota per dimostrare che in demo­crazia comandano le maggioranze elet­te, non le lobby, le caste, i giornali, i san­toni. E si vota anche per Silvio Berlusco­ni. E perché no? Non c’è il male nel fatto che una maggioranza difenda il suo lea­der dalla più spudorata e violenta ag­gressione giudiziaria della storia. Le opposizioni hanno fatto ieri e faran­no oggi ostruzionismo leggendo in aula articoli della Costituzione, come atto estremo e solenne di difesa del Paese. Certo che al ridicolo non c’è limite.

D’Alema e Bersani martiri di chi? Della prescrizione breve, norma già in vigore in tutti i Paesi occidentali? La sinistra sta giocando sulla pelle della gente. La real­tà è che, a fronte di una norma di civiltà, rischiano di saltare lo 0,2 per cento dei processi penali, nulla in confronto ai procedimenti che vanno già ora in pre­scrizione per la lentezza e l’incapacità di certi magistrati. Bersani e D’Alema laCostituzione do­vrebbero leggerla sì, ma all’articolo che sancisce la libertà e la segretezza delle comunicazioni private tra cittadini, quello violato dalle intercettazioni tele­foniche selvagge ordinate dalle procure per spiare la vita degli italiani. Dovrebbe­ro leggerla, loro e Fini, nelle parti che sta­biliscono l’autonomia e l’indipendenza del potere legislativo da quello giudizia­rio. Ma, soprattutto, mi chiedo che sen­so abbia che ex comunisti sventolino la Costituzione come se fosse cosa loro.

Per quarant’anni ne hanno tradito l’es­senza, complottando occultamente con­tro l’Occidente, e quindi l’Italia, assie­me (e finanziati) all’alleato Unione So­vietica. Se oggi siamo una democrazia è perché questi signori hanno perso e al­tri, in nome della Costituzione, hanno vinto. Cari compagni, la Costituzione non è il Libretto Rosso di Mao. Addirittura, co­me previsto da chi l’ha scritta, la si può cambiare. Che piaccia o no a voi, a Di Pietro e ai magistrati. Il Giornale, 13 aprile 2011

LA BENZINA ALLE STELLE. GLI ESPERTI: VOLA VERSO I 2 EURO A LITRO

Pubblicato il 12 aprile, 2011 in Economia | No Comments »

Cresce, cresce, cresce ancora. Il prezzo di benzina e gasolio, spinto non conosce pause. La crisi libica, le tensioni generalizzate in Medioriente e le rivolte che stanno sconvolgendo il mondo arabo spingono verso l’alto i costi del greggio. La verde sfiora 1,6 euro, il diesel supera l’1,5, con un piccolo contributo dovuto anche alle accise introdotte per garantire l’aumento del Fus (fondo unico per lo spettacolo), ma senza dimenticare che i “dazi” che ancora si pagano al distributore sono relativi alla guerra d’Abissinia (1935), ai terremoti di Irpinia, Belice e Friuli, più la tragedia del Vajont e altre, varie ed eventuali. E gli esperti, come sicuramente si può classificare Christophe de Margerie, (direttore generale e presidente della francese Total), avvertono: “I 2 euro al litro sono inevitabili. Ma se sarà troppo presto è inevitabile ripiombare nella crisi”.

Nuovi aumenti Ancora rialzi per i carburanti, che raggiungono nuovi record. La benzina ha toccato quota 1,590 euro per due diverse compagnie mentre il diesel supera per la Q8 la soglia di 1,5 euro, attestandosi a 1,501 euro il litro con un rialzo di 8 millesimi in un solo giorno. Tutte le compagnie petrolifere hanno ritoccato al rialzo i propri prezzi. L’ultimo rincaro dell’Eni ha fatto da traino a una raffica di incrementi dei prezzi raccomandati dei carburanti anche per tutte le altre compagnie. Con effetti che, sui prezzi praticati, hanno portato a superare lo stesso market leader. Il tutto in uno scenario delle quotazioni internazionali che non sembra mostrare flessioni. I prezzi praticati proseguono di conseguenza la salita mentre le no logo restano abbastanza stabili.

Verso quota 2 euro La benzina a 2 euro al litro “è inevitabile. La vera questione è quando? Bisogna sperare che non arrivi troppo presto altrimenti le conseguenze saranno drammatiche”. Così il presidente e direttore generale di Total, Christophe de Margerie, in un’intervista a Le Parisien, il giorno dopo l’annuncio del governo francese di una tassa per le compagnie petrolifere in Francia. “Che cosa può far impazzire ancora di più i prezzi del barile di petrolio? una rivolta generalizzata nei principali paesi produttori. Oggi – sottolinea de Margerie – l’attenzione è rivolta giustamente alla Libia, allo Yemen o alla Siria. Ricordiamoci che un solo paese com l’Arabia Saudita produce 9 milioni di barili al giorno. Se venisse a mancare sul mercato, i prezzi diventerebbero incontrollabili. È uno scenario certo poco probabile, ma che sottolinea la fragilità della situazione. Senza parlare poi della parità euro-dollaro che svolge un ruolo molto importante”. Per il patron di Total “meno male che l’euro è risalito altrimenti la fattura sarebbe stata ancora più dolorosa”.

CI RISIAMO: ECCO IL PAESE DEGLI AVVOLTOI

Pubblicato il 12 aprile, 2011 in Politica | No Comments »

Ieri l’aula del Palazzo di giustizia di Milano con il processo Me­diatrade, domani quella della Camera dei deputati con la votazione sulla legge della prescri­zione breve per incensu­rati. Lo scontro tra Silvio Berlusconi e i magistrati è entrato nella fase finale. Gli avvoltoi che da 18 an­ni svolazzano sul pre­mier e sui governi di cen­trodestra già assaporano il banchetto, scommet­tendo sulla vittoria delle toghe e non soltanto. Il fronte si salda infatti con una Unione Europea in­cosciente che non ne vuo­le sapere di prendersi in carico una quota dei clan­destini sbarcati in Italia non certo perché invitati. Casini, Fini e Bersani, buonisti a parole, godo­n­o a vedere Francia e Ger­mania chiudere le porte in faccia ai clandestini. Dicono che è colpa del no­stro governo, tacciono la verità, cioè che una bana­le e squallida esigenza elettorale di Sarkozy e del­la Merkel, due premier al­la canna del gas battuti nelle urne e nei sondaggi dalla loro destra più in­transigente. Che siano i magistrati, le escort, o la Francia, ben venga tutto ciò che in­fanga o mette in difficoltà l’Italia. Gli sfascisti si alle­ano con chiunque possa servire a raggiungere l’obiettivo. Un assalto quotidiano al quale si ag­giunge il mal di pancia di alcuni uomini della mag­gioranza sulla gestione del Pdl. Fatto che ha por­tato Giuliano Ferrara, do­menica su questo giorna­le, a lanciare l’ipotesi che Silvio Berlusconi possa presto mandare tutti a quel paese e ritirarsi a vi­ta privata. Sogno o realtà che sia, Ferrara ha fatto esultare gli elettori di mezza Italia e preoccupa­re l’altra metà, quella di centrodestra, tanta è la fi­ducia e l’affetto nei con­fronti del premier.

Il messaggio era però di­retto a quelle migliaia di persone che costituisco­no la classe politica e am­ministrativa del Pdl. La ri­conoscenza infatti è mer­ce rara, se poi è combina­ta co­n l’arroganza la men­te si appanna. E per esem­pio ci si dimentica che Berlusconi da diciotto an­ni garantisce l’elezione certa, cioè un posto di la­vo­ro ben pagato e uno sta­tus sociale che per la mag­gior parte di questi signo­ri non erano raggiungibili attraverso al­tre vie. I nostri onorevoli, i mi­nistri eletti sotto la bandiera Pdl hanno infatti goduto di un effetto traino nazionale, l’ef­fetto Silvio, paragonabile a quello che nella prima Repub­blica veniva dall’appartenen­za ai tre grandi partiti, Dc, Pci e Psi.
Qualcuno invece si illude che il Pdl sia come la Dc, cioè un partito più forte dei suoi leader, e che per tanto è scala­bile sul modello delle corren­ti Pd, partito che in due anni è passato di mano tre volte (Veltroni, Franceschini, Ber­sani) senza peraltro cavare un ragno dal buco. Oppure che, via Berlusconi, si possa andare avanti con un altro leader (Tremonti? Monteze­molo?) come se nulla fosse. Il dopo Berlusconi invece, a mio avviso, sarà un Irak: guer­ra civile senza quartiere, im­plosione del centrodestra, vittoria per mancanza di al­ternative della sinistra che inizierà quel ciclo di coman­d­o che aveva partorito e abor­tito nel ’94.È vero che la mamma dei fessi è sempre incinta, ma la vicenda Fini-Bocchino qual­che cosa dovrebbe insegnar­la. Cioè che meschine que­stioni di potere personale e di ricatti non portano a nulla per il Paese e neppure per se stessi. Non credo che qualcu­no, in caso di affondamento di Berlusconi, possa sperare di salvarsi. Bene che vada, i naufraghi del Pdl farebbero la fine dei tunisini che appro­dano a Lampedusa, vaghe­ranno per la politica, sballot­tati da una parte all’altra sen­za più cittadinanza. Alessandro Sallusti, Il Giornale, 12 aprile 2011

…………Abbiamo evidenziato in blu la parte dell’editoriale  odierno di Sallusti che merita una riflessione. Ha fatto bene Sallusti ad evidenziare che il PDL non è la DC e che questa non è la prima repubblica. La caduta di Berlusconi trascinerà con se tutto e tutti. Non si illudano, generali, colonnelli e caporali che possa esserci un PDL post Berlusconi, amministrato dai suoi eredi. Diversamente da quanto accadde nella prima repubblica quando fu la caduta della DC e degli altri partiti che storicamente avevano guidato la Nazione nella difficile ed esaltante fase della rinascita e della riscossa politica ed economica ad aprire la strada alla caduta degli dei e dei semidei che in essi avevano militato e comandato, ora basterebbe la sola caduta di Berlusconi o anche, come ha “sognato” Ferrara, la sua ritirata, a determinare lo squagliamento dell’intera struttura che si regge sul carisma e sul rapporto diretto che Berlusconi ha con gli elettori che votano per il PDL e che voterebbero per qualsiasi altra sigla Berlusconi mettesse in campo. Loro, generali, colonnelli e caporali, che sinora hanno goduto degli effetti di questo carisma e di questo rapporto, squaglierebbero insieme e di molti di loro, forse di quasi tutti, se ne dimenticherebbero sinanche i nomi nel breve volgerer di poche settimane se non di giorni e ciò conferma quel che una volta, non tanto tempo fa, ebbe a dire un  ex autorevole dirigente di Forza Italia: “ciascuno di noi può essere bravo sin che si vuole, ma i voti è Berlusconi che li prende”. Forse sarà il caso che nel corso delle tante cene che si susseguono intorno ai tavoli dei ristoranti romani, questa semplice  ma incontrovertibile verità faccia capolino e induca i molti che invece di dare, chiedono, anzi, continuano a chiedere,  a più miti consigli. Non solo per se stessi, ma anche per l’Italia e il centro destra, altrimenti destinati, l’una e l’altro, a finire maciullati da una nuova macchina da guerra che non farebbe prigionieri. g.