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BERLUSCONI SOTTOLINEA UN’ANOMALIA ITALIANA

Pubblicato il 12 aprile, 2011 in Giustizia, Politica | No Comments »

Silvio Berlusconi Tutte le oche starnazzanti del giustizialismo nostrano avranno un buon motivo per agitarsi incomposte, fare chiasso e suscitare polveroni di indignazione di fronte alle ferme e impolitiche dichiarazioni di Silvio Berlusconi all’uscita dal tribunale di Milano dopo l’udienza del processo Mediaset. Il premier, infatti, ha detto, senza mezze parole, di avere trascorso una «mattinata surreale ai limiti dell’inverosimile» ed ha aggiunto che il suo interrogatorio è stato «una perdita di tempo paradossale con un dispendio di risorse che grida vendetta». Il linguaggio è duro, ma l’analisi è esatta.

Come sempre, Berlusconi, piaccia o non piaccia, ha colto nel segno. Ha fatto bene, il Cavaliere, a presentarsi finalmente in tribunale e a sottolineare, al termine dell’udienza, il carattere surreale e paradossale di una situazione che vede il capo del governo costretto a mettere da parte l’agenda degli impegni, nazionali e internazionali, in un momento particolarmente difficile, come l’attuale, per rispondere alle accuse, più o meno fondate, che da un ventennio o giù di lì gli vengono mosse. Ha fatto bene, in tal modo, a sottolineare una anomalia tutta italiana. Altrove infatti – si pensi, per esempio, a quello che è accaduto in Israele o in Francia – le maggiori cariche istituzionali vengono sottoposte a processo per eventuali reati, e se del caso condannate, al termine del loro mandato. È una anomalia, lo ribadisco. È una anomalia che rivela il carattere imperfetto della nostra democrazia, la quale – dopo la bufera giudiziaria di Tangentopoli – è andata degenerando in un sistema oligarchico nel quale non esistono più né equilibrio né separazione dei poteri. E dove la magistratura, grazie all’eclissi della politica, ha finito per assumere, sempre di più, le connotazioni di una «casta» o, se si preferisce, di una «corporazione» incontrollata e incontrollabile, pronta a usare il «ricatto giudiziario» come un’arma nei confronti di chi rischia di metterne in crisi privilegi, poteri, rendite di posizione, attraverso la riforma di un sistema giudiziario unanimemente considerato inefficiente, non garantista, burocratizzato, inaffidabile e lento. Un sistema giudiziario, ancora, costruito sull’assurdo della confusione tra magistratura inquirente e magistratura giudicante e, nella sostanza, vessatorio perché il cittadino ingiustamente processato o condannato non può far valere il principio della responsabilità civile dei giudici. Non basta, c’è di più.

Il carattere di «casta» o di «corporazione» della magistratura non lede soltanto gli interessi legittimi e i diritti dei singoli, ma collide con quello che si può definire «l’interesse nazionale». Ciò che accade in questi mesi e in questi giorni è sotto gli occhi di tutti. Il nostro Paese sta attraversando un periodo di emergenza, in gran parte riflesso di una grave situazione internazionale: minaccia di speculazioni economiche, ondate di immigrazione clandestina che rischiano di mettere in crisi precari o non consolidati equilibri socio-economici, tensioni fra l’Italia e altri paesi dell’Unione Europea – loro davvero sì – preoccupati del proprio egoistico «interesse nazionale», riaffiorare di antichi contrasti fra aree diverse del paese, emergere di pulsioni che esprimono la voglia, giusta o sbagliata che sia, di un ricambio generazionale. In una situazione del genere che cosa accade? Che il premier è costretto a mettere da parte i problemi del paese e a presentarsi davanti ai giudici. È una situazione surreale, come ha detto bene Berlusconi. Frutto, aggiungiamo, di una anomalia tutta italiana, che si concretizza nella subordinazione del potere politico – l’esecutivo e il legislativo – al potere giudiziario. Ma non basta.

L’invasione di campo della magistratura nella politica ha come conseguenza, diretta o indiretta, la «politicizzazione» della magistratura, o di parte di essa. L’obiettivo, tutt’altro che nascosto, sembra essere quello della eliminazione, con ignominia, di Berlusconi dalla scena politica, ottenuta da una magistratura trasformatasi in braccio armato dell’antiberlusconismo. Ma, quand’anche questo obiettivo fosse raggiunto, quale utilità ne verrebbe al Paese? Nessuna, se non quella, al fondo eversiva e rivoluzionaria, di ottenere un cambio di governo e di classe dirigente al di fuori dei meccanismi tipici di una democrazia liberale e rappresentativa, fondata cioè, per usare la classica espressione di Joseph A. Schumpeter, sulla «libera concorrenza per un voto libero».

E quindi contro il sacrosanto e basilare principio, democratico e liberale, per il quale Berlusconi, in quanto capo del governo, dovrebbe essere giudicato per quello che effettivamente abbia fatto o non abbia fatto per il Paese. Una situazione, ribadiamolo ancora una volta, assurda e anomala. Che può e deve essere corretta solo attraverso una riforma organica della giustizia che riequilibri i poteri dello Stato. Francesco Perfetti, 12 aprile 2011

L’EURORETORICA FA SOLO DANNI, l’editoriale di Mario Sechi

Pubblicato il 12 aprile, 2011 in Politica estera | No Comments »

Uno degli immigrati naufragati soccorsi nel porto di Lampedusa L’Europa si sta suicidando, ma non tutti i mali vengono per nuocere. Ho sostenuto la necessità di concedere un permesso temporaneo ai profughi del Nord Africa, non per recitare la parte dell’umanitarista progressista, ma per stanare definitivamente le reali posizioni dell’Ue sul tema dell’immigrazione. Missione compiuta: da ieri sappiamo che l’Europa come forum di consultazione, condivisione e soluzione dei problemi sociali e demografici è una finzione. Esistono le politiche nazionali di Francia e Germania, a cui si sono accodati gli altri Paesi nella speranza di poter scaricare sull’Italia un problema titanico come la caduta dei regimi del Nord Africa e la migrazione biblica di uomini, donne e bambini in cerca di un mondo migliore. Siamo davanti al trionfo dell’egoismo e dell’arroganza di Parigi e Berlino. Sarkozy e Merkel perdono consensi, hanno il fiato delle destre nazionaliste sul collo. Sono leader all’ultimo giro di giostra. Al posto del governo italiano non cadrei nel tranello di varare una politica spietata di respingimenti: un minuto dopo la stessa Europa tartufesca e ignobile che erige muri di filo spinato, spiccherebbe una nota di condanna per violazione dei principi umanitari. In questi casi, noi italiani dobbiamo far tesoro della storia, ricordare di essere la patria di Machiavelli e applicarne la lezione: «E Francesi per natura sono più fieri che gagliardi o destri; e in uno primo impeto chi può resistere alla ferocità loro, diventono tanto umili, e pèrdono in modo l’animo che diventono vili come femmine».

È ora di abbandonare la dannosa euroretorica e cominciare a dire no ai parrucconi di Bruxelles. Rimpatriamo questa Europa ’che senza l’Italia non esiste neppure come espressione geografica.  Mario Sechi, Il Tempo, 12 aprile 2011


FINI HA UN PROBLEMA: LA SUA CREDIBILITA’

Pubblicato il 11 aprile, 2011 in Politica | No Comments »

Ieri mattina, a Bari, l’on. Fini ha dato fondo alla sua cattiveria e alla sua irosità, sino a dare del “gregge belante” ai deputati e senatori già futuristi che tra dicembre e l’altro ieri hanno dato l’addio a Fini e alle sue tesi che nulla avevano ed hanno di politica e molto di iraconda rissosità nei confronti di Berlusconi. E menrre il suo progetto politico va in fumo e il suo esercito si dissolve come neve al sole, Fini non perde il suo ascetico collocarsi in cima alla sua presunzione, pretendendo di poter sostituire alla vacuità della sua politica una sua personale credibilità. Ma è proprio questa che gli difetta di più, la credibilità, avendo mostrato in questi mesi, ancor più che nel passato,  quanto inconsistente sia la sua parola e quanto poco valgono i suoi impegni.  E così, come sostiene Franmcesco Damato sul Tempo di oggi, il verio problema di Fini è la sua credibilità. Appunto. g.

Gianfranco Fini Il pozzo di Gianfranco Fini è senza fondo. Pur volendo continuare a essere il presidente della Camera, anche dopo avere rinunciato volontariamente alla imparzialità richiestagli dalla carica, egli ha dato ieri del “gregge belante” alla maggioranza dell’assemblea di Montecitorio.  Che oltre a sorreggere un governo a lui non gradito, e sopravvissuto il 14 dicembre scorso a una mozione di sfiducia paradossalmente predisposta anche nel suo ufficio, ha la grave, imperdonabile colpa di attrarre uno alla volta, e anche di più, i deputati di Futuro e Libertà: il suo sempre più gracile e claudicante movimento. Al presidente della Camera non viene mai il dubbio di avere deluso e allarmato gli amici che lo avevano seguito nella scorsa estate sulla strada della rottura con il Cavaliere. Egli aveva detto loro, facendoli aderire ai suoi nuovi gruppi della Camera e del Senato, che l’obbiettivo era di formare la cosiddetta terza gamba della maggioranza di centro destra, accanto alle due costituite dal Pdl e dalla Lega. Alla faccia della terza gamba della coalizione uscita dalle urne del 2008. Tra un comizio e l’altro, e richieste perentorie di crisi di governo giustamente contrastate in prima persona dal presidente della Repubblica, preoccupato nello scorso autunno che il Paese rimanesse contemporaneamente senza una maggioranza e senza uno straccio di bilancio dello Stato, Fini ha costruito la quinta gamba dell’opposizione nel suo complesso. Quinta, in aggiunta al Pd di Pier Luigi Bersani, all’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, all’Udc di Pier Ferdinando Casini e all’Api di Francesco Rutelli, per non parlare delle altre frattaglie antiberlusconiane. O la terza gamba, sempre all’opposizione, del cosiddetto terzo polo guidato da Casini, in aggiunta alle già citate Udc dello stesso Casini e all’Api rutelliana. Tutto questo vale rimanendo negli attuali confini parlamentari, perché le gambe delle opposizioni diventerebbero ancora di più in uno scenario elettorale, al quale si sono già rumorosamente iscritti Nichi Vendola e altre schegge dell’estremismo di sinistra, per non parlare del comico Beppe Grillo, ed è “tentato” di iscriversi, con il rombo del suo motore, il ferrarista Luca Cordero di Montezemolo. Il meno che potesse capitare in un quadro del genere, così diverso da quello indicato alla nascita dei gruppi parlamentari di Futuro e Libertà, era il disorientamento nelle fila finiane. Che con poca eleganza e molto cinismo politico, e nessun rispetto per gli uomini che hanno onorato la sua amicizia rinunciando a incarichi di governo, il presidente della Camera in un comiziaccio pronunciato ieri a Bari ha liquidato come paura di non essere rieletti al Parlamento o, peggio ancora, come pecorume. Altro termine non riesco a trovare per tradurre in una sola parola quel già ricordato “gregge belante” al quale egli ha iscritto d’ufficio i suoi vecchi amici per essere “tornati” nel Pdl, o perché partecipi della terza vera gamba della maggioranza costituitasi con il gruppo chiamato dei “responsabili”. Che Fini, dopo averli declassati nelle scorse settimane a “disponibili” dettando il linguaggio e la linea alle altre opposizioni, è tornato ieri a dileggiare come aspiranti a un “governo Berlusconi-Scilipoti”, il deputato ex dipietrista peraltro oggetto anche di minacce insieme ad altri. È mancato solo un sollecito esplicito alla Procura della Repubblica di Roma, attivata a suo tempo dal solito Di Pietro con una denuncia, per concretizzare con qualche avviso di garanzia o altra iniziativa le indagini annunciate su un presunto commercio di voti in Parlamento. Eppure il presidente della Camera è chiamato più di tutti a conoscere, rispettare e fare rispettare l’articolo 67 della Costituzione, secondo il quale “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. È bizzarro che proprio lui lo dimentichi, anzi lo irrida. Diciamo pure che è scandaloso, tanto che mi chiedo, o torno a chiedermi, che cos’altro ancora debba sentir dire il povero Napolitano per intervenire e consigliare a Fini le dimissioni allo scopo di non avvelenare ulteriormente i rapporti parlamentari. Che hanno già superato i livelli di guardia nell’aula di Montecitorio, dove non mi era mai accaduto, fra l’altro, di vedere un presidente d’assemblea aprire una votazione, addirittura su un banale processo verbale della seduta precedente, riconoscere a “tutti i presenti in aula” il diritto di votare e chiuderla prima che alcuni ministri, arrivati in tempo ai loro posti, riuscissero a infilare nell’apposita fessura il loro tesserino. Trovo singolare, per non dire di peggio, anche che il presidente Fini lasci le opposizioni attaccare e deridere in aula, senza richiamarle all’ordine, i ministri che partecipano da deputati alle votazioni, come se essi non ne avessero il diritto materiale e morale. È accaduto nei giorni scorsi e tornerà ad accadere nei prossimi sulla legge del cosiddetto processo o prescrizione breve. Ma ai tempi dell’ultimo governo di Romano Prodi, fra il 2006 e il 2008, lor signori oggi all’opposizione si compiacevano di affollare in ogni votazione i banchi del governo al Senato, essendo i margini della maggioranza ancora più risicati di quelli di cui dispone oggi Berlusconi alla Camera. E, poiché i ministri non bastavano, venivano mobilitati anche i più vecchi senatori a vita, compreso quell’Oscar Luigi Scalfaro che, forse esausto per quelle fatiche, ora diserta abitualmente le votazioni. Neppure la delicatezza della situazione internazionale e comunitaria è purtroppo riuscita ieri a trattenere le esondazioni di Fini, peraltro già ministro degli Esteri. Mentre il governo è impegnato a far valere le buone ragioni dell’Italia con gli altri paesi dell’Unione Europea nella gestione dell’ondata straordinaria di immigrazione proveniente dall’Africa, egli ha avuto il pessimo gusto di contestane la “credibilità“. Pensi piuttosto Fini alla sua, di credibilità, per tutte le ragioni politiche e istituzionali che ho esposte prima. Francesco Damato, Il Tempo, 11 aprile 2011

BERLUSCONI IN TRIBUNALE, MA NELL’AULA NON C’E’ SCRITTO:”LA LEGGE E’ UGUALE PER TUTTI”

Pubblicato il 11 aprile, 2011 in Giustizia, Politica | No Comments »

L’aula della Prima corte d’assise di Milano, dove si celebra per ragioni di spazio il processo a Silvio Berlusconi per la faccenda dei «diritti tv», è l’unica – tra le decine di aule del tribunale di Milano – dove non compare la scritta che «la legge è uguale per tutti». Un caso, una curiosità. Ma chissà se per il Cavaliere può essere considerata beneaugurante. Si tratta, d’altronde, della stessa aula dove Berlusconi comparve per l’ultima volta otto anni fa, al processo per la vicenda Sme. E infatti il presidente del Consiglio stamattina sembra muovervisi con dimestichezza: fin dal momento in cui entra da una porta laterale, compie un meticoloso giro di strette di mano all’affollata platea di avvocati, raddrizza il nodo della cravatta al figlio spilungone dell’avvocato Daria Pesce. E poi punta deciso il recinto dei cronisti. Le telecamere non sono ammesse in aula, ma nell’epoca dei telefonini e dei file Mp4, a raccogliere le esternazioni del capo del governo non sono solo taccuini, ma anche microcamere pronte a riversare su Internet le sue parole. Berlusconi lo sa e si concede a lungo, mentre in camera di consiglio il tribunale aspetta che tutto finisca per potersi presentare anch’esso in aula. Il Cavaliere accetta le domande, anche quelle – a dire il vero del tutto garbate – dei giornalisti «nemici». Ma a tenere il timone della conferenza stampa è lui. Ed è lui a mettere in chiaro i punti che nei giorni scorsi ha indicato come cruciali: la inconsistenza delle accuse che gli vengono mosse in questo e negli altri processi, e la battaglia «di civiltà» contro uno strumento investigativo, le intercettazioni telefoniche, che Berlusconi considera barbaro e inaffidabile. «Le voci si possono imitare, e con il computer è possibile fare di tutto». Il riferimento, ovviamente, è al processo per la vicenda Ruby, quello che riprenderà il 31 maggio, e che ha proprio nelle intercettazioni telefoniche il suo punto di forza. «Sta dicendo che le intercettazioni di quell’indagine sono state truccate?», gli chiedono. E Berlusconi: «Niente affatto, sto facendo un ragionamento generale». Però poi va avanti, e c’è un dettaglio che fa capire chiaramente che proprio ad alcune intercettazioni del «Rubygate» si sta riferendo.

Dice stamattina in aula Berlusconi: «Magari uno dice che bisogna ricostruire i fatti, e nei brogliacci invece trascrivono che vuoi costruire i fatti», nel senso di inventarli a tavolino. E c’è, come si vede, una bella differenza. In questo caso, il premier ha in mente un riferimento preciso: è la telefonata tra una delle sue segretarie e Barbara Faggioli, testimone del caso «Rubygate», intercettata dalla polizia e finita il 6 marzo sul «Corriere». «Noi la volevamo convocare perché è veramente indispensabile la sua presenza per cercare di costruire e verbalizzare le normalità delle serate del presidente», si legge nel testo trascritto dalla polizia. Ma secondo la difesa del premier nel nastro originale si sente chiaramente l’impiegata dire alla Faggioli «ricostruire», e non «costruire». Vedete, intende dire Berlusconi, come si fa in fretta a ribaltare il senso di una frase? L’offensiva del premier contro la «primavera dei processi» ha avuto questa mattina solo il suo capitolo iniziale. Oggi pomeriggio in aula resteranno a battagliare solo i suoi legali, impegnati in un braccio di ferro con la corte e con la Procura che vorrebbero scorciare la lista dei testimoni a difesa. Berlusconi (che già stamattina ha dato a chi gli stava vicino la sensazione di annoiarsi profondamente di fronte alla prolissità del rito) non ci sarà, perché le technicalities le lascia allo staff difensivo. Ma quando ci sarà da affrontare i passaggi cruciali, c’è da scommettere che tornerà a materializzarsi in aula. La strada la sa.

LO SGUARDO MITE DI TOTO’ “VASA VASA”

Pubblicato il 10 aprile, 2011 in Costume | No Comments »

Com’era serafico lo sguardo di Totò Cuffaro intervistato in carcere dopo lungo silenzio. E come erano teneri i suoi rimpianti politici. Fu salutato da un coro di ammirazione quando si conse­gnò docile ai giudici e accettò senza di­scutere la condanna e il carcere, dicen­dosi uomo delle istituzioni. Ma vi siete chiesti perché Cuffaro scelse di non ri­bellarsi ai giudici? Se lo fece perché rico­nobbe giusta la condanna per associa­zione mafiosa, come a dire «ho sbagliato ed è giusto che paghi», allora sì, ha fatto bene, ma la gravità del fatto commesso oscura la mite e rispettosa reazione alla condanna. Ma se non si sente colpevole di reati così pesanti, come ha detto, per­ché offrì i polsi alle manette senza batter ciglio? Forse perché i giudici, avrà pensa­to Totò, è meglio non prenderli di punta o per le corna. Anche per lui la magistra­tura è mossa da impulsi e furori ed è me­glio assecondarli, mostrandosi mansue­ti, remissivi, sottomessi al suo potere… Così magari al prossimo giudizio non in­­fieriscono: avete vinto, ora siate indul­genti. In quel caso, si è fatto agnello e colomba per un calcolo, furbo e com­prensibile, da democristiano di vossìa. Ve lo ricordate in tv con la coppola o quando scriveva sui manifesti: la mafia mi fa schifo? Comunque ho sentito in gi­ro tanti siciliani che lo rimpiangono; i suoi successori hanno i suoi stessi difetti senza averne i pregi e l’umanità. Mi han­no chiesto di dedicargli una copia del mio libro che gli avrebbero portato all’in­domani in carcere; l’ho fatto volentieri anche perché, confesso, una volta Totò baciò pure me.

Di quel suo congedo prima di finire in carcere, a me è restato il lato umano, e anche puerile; la sua faccia disarmata, il tono dimesso della voce e quell’invoca­zione tenera alla Madonna. Le parole for­se furono pronunciate per nascondere il pensiero o perché tornano utili alla cau­sa; ma quei gesti, quel tono, quell’invoca­zione, erano veri, umani, venuti dal cuo­re, anche se magari servono pure a ingra­ziarsi la gente, i giudici e i media. Ma in quel momento sospendi ogni giudizio e ti lasci prendere dalla pietas. Per una volta avrei voluto baciarlo io, a Totò vasa vasa .

Il Giornale, 10 aprile 2011

BERLUSCONI: SE L’UE NON ESISTE, DIDIDIAMOCI.

Pubblicato il 10 aprile, 2011 in Politica estera | No Comments »

Il premier: “Se l’Ue non esiste dividiamoci”

«Un problema europeo». Silvio Berlusconi torna a Lampedusa e punta ancora una volta il dito contro l’Ue. La questione immigrazione, spiega infatti il Cavaliere, deve essere affrontata in sede comunitaria e con la partecipazione di tutti gli Stati membri. Un affondo, quello del premier, senza prese di posizione polemiche nonostante le frizioni delle ultime settimane non solo con Bruxelles ma anche con Parigi e Berlino. Ma comunque piuttosto netto, soprattutto perché arriva alla vigilia del Consiglio Gai – quello che riunisce i ministri dell’Interno dell’Ue – che si terrà domani a Bruxelles. Occasione in cui l’Italia proverà a ribadire – probabilmente senza successo vista la freddezza delle altre delegazioni – la necessità di risorse finanziarie aggiuntive per i Paesi più esposti. Secondo Berlusconi, infatti, il problema non è tanto «per gli immigrati clandestini che sono arrivati» ma «soprattutto per quelli che arriveranno» visto che la guerra in Libia va avanti. Insomma, «bisogna fare i conti con la realtà e con il fatto che l’Europa o è qualcosa di vero e di concreto oppure non è». «E allora – aggiunge il capo del governo – meglio ritornare a dividerci e ciascuno a inseguire le proprie paure e i propri egoismi».
Il premier parla anche dei rapporti con Francia e Germania. Quanto a Nicolas Sarkozy, dice, «buon senso vorrebbe che si raggiungesse presto un accordo» perché Parigi «deve rendersi conto che l’80 per cento di questi migranti dichiarano di voler raggiungere parenti e amici in Francia». Il Cavaliere, invece, è ottimista per quel che riguarda le perplessità tedesche sui permessi. E si dice sicuro che «la cancelliera Merkel non potrà che convenire sulla necessità di una politica di compartecipazione europea» nell’affrontare quello che è uno «tsunami umano». Secondo il premier, infatti, alcune prese di posizione sono motivate «da ragioni interne» legate al consenso dei propri elettori «ma poi alla fine si deve fare il confronto con la realtà».
Accolto tra gli applausi durante la sua visita a Lampedusa – prima è andato al molo che per giorni è stato occupato dai tunisini, poi al caffè storico dell’isola e infine alla spiaggia dei Conigli – Berlusconi rassicura i lampedusani («da lunedì cominceranno due voli regolari al giorno per il rientro in Tunisia») e non fa mistero del fatto che il piano del governo punta soprattutto sul «fattore psicologico» per fermare gli arrivi dal Nordafrica. «Immagino che quando in Tunisia si sarà venuti a conoscenza dei rimpatri da Lampedusa – spiega il premier – tutti coloro che hanno intenzione di venire qui si domanderanno se ne valga la pena. Credo non ne valga la pena». Il Cavaliere si dice poi convinto che il piano dell’esecutivo «ha trovato attuazione». «L’isola – spiega – si è svuotata da migranti cosiddetti residenti. Ad oggi ci sono quasi 600 persone, 250 somali ed eritrei, 350 tunisini. I tunisini accolti nel centro di prima accoglienza, da lunedì cominceranno i voli regolari, due al giorno, per il rientro in Tunisia». Anche gli ultimi arrivati – ieri sono infatti ripresi gli sbarchi a Lampedusa – saranno dunque rimpatriati.Berlusconi assicura poi che andrà avanti il «piano di promozione straordinaria» per l’isola con «un decreto per la moratoria fiscale». E «nel prossimo Consiglio dei ministri chiederemo la candidatura per Lampedusa per il Nobel della pace». C’è spazio anche per la querelle sulla villa acquistata sull’isola dal Cavaliere. «Ecco il contratto, la casa l’ho già acquistata», dice Berlusconi mostrando alle telecamere i documenti del l’acquisto – ancora non perfezionato – di Villa delle Palme. «Lo ha sottoscritto l’amministratore della mia società e la parte venditrice. Al momento del rogito – spiega – i proprietari non hanno potuto esibire l’atto di provenienza perché l’immobile sorge su terreno demaniale. La cosa, però, non è un problema perché potranno chiedere l’affrancamento pagando il dovuto». L’atto notarile, dunque, sarebbe rimandato solo di qualche settimana. «Mi ero impegnato ad essere lampedusano e tra poco lo sarò».

IL PARTITO DI FINI TRA BLUFF E MENZOGNE: IL CRAC IN TUTTA ITALIA

Pubblicato il 10 aprile, 2011 in Politica | No Comments »

Roma - Il Fli ha fatto flop. Eppure c’è una data malaugurante che avrebbe dovuto mettere tutti sul chi va là: Fini ha aderito ufficialmente al gruppo parlamentare di Futuro e libertà per l’Italia l’8 settembre 2010. Infatti poi fu disfatta. Ma in principio fu grande illusione, grande inganno recitato nel catino di Mirabello. Fu il primo spumeggiante comizio dopo il clamoroso strappo del «Che fai, mi cacci?», urlato in faccia al premier in aprile. Fu bagno di folla fiero e superbo ma anche un po’ falso. Non era vero che Fini aveva creato il Fli perché cacciato dal Pdl: lo aveva freddamente progettato da prima. Non era vero che i futuristi parlavano a una voce sola: falchi e colombe volavano già in direzioni opposte.
I guai del Pdl e la prospettiva di fare la terza gamba della maggioranza attraevano peones e non. A ogni ingresso, però, un mugugno; a ogni defezione, naturalmente, un brontolio: tanto per far capire che i futuristi erano e sono poco più che un’armata Brancaleone. Entrò Catone e Granata storse il naso, uscì la Sbai e i falchi la azzannarono. Entrarono il piemontese Rosso e l’abruzzese Toto e al piemontese Menardi e all’abruzzese Catone venne il mal di pancia. Poi ci furono riunioni fiume sul «che fare?» nelle sale della fondazione ursiana di Farefuturo. Volavano gli stracci occultati dal «Fini farà la sintesi». Anche in questo caso un grande bluff. In realtà Gianfranco non faceva la sintesi tra falchi e colombe perché il più falco di tutti è sempre stato lui. E il suo antiberlusconismo feroce e personale sgorgò in quel di Bastia Umbra, 7 novembre 2010.
Quello fu il giorno della grande fuga in avanti, dell’ultimatum a Silvio: «Dimettiti o saranno guai»; del preludio al cecchinaggio all’esecutivo; delle sirene del terzo polo. Uscì anche Angeli e tra i futuristi fu tutta un’alzata di spalle: tanto non conta nulla. Ma il vero crac arrivò il 14 dicembre, col calcolo errato sulla mozione di sfiducia che avrebbe dovuto spazzare via Berlusconi e il berlusconismo. Da tempo molti finiani avevano messo in guardia Gianfranco: non ti seguiamo nell’omicidio a freddo del Cavaliere. Ma lui tirò dritto e perse. Perse la partita e perse Moffa, Polidori, Siliquini, Catone. Ogni addio fu un’emorragia anche a livello territoriale. Moffa ha svuotato il Lazio, la Siliquini il Piemonte, Catone l’Abruzzo, Polidori l’Umbria. Fini e i fedelissimi giurarono che basta, quello che dovevano perdere lo avevano perso. Il riscatto sarebbe arrivato a Milano, in febbraio, col congresso fondativo. Invece fu disastro. Il motivo fu un altro imbroglio, smascherato nelle ore successive all’assise meneghina. Lì tutti a ripetere: siamo la destra, la vera destra, la nuova destra. Non siamo anti ma post berlusconiani. Non andremo mai con la sinistra. Siamo moderati. Non ci credette nessuno. Il partito venne consegnato a Bocchino e scoppiò l’insurrezione dei moderati. Oltre al commiato degli intellettuali di riferimento Campi e Ventura, arrivarono altri addii: sbatterono la porta Rosso, Barbareschi, Belotti. E con loro altre defezioni in periferia specie in Veneto e in Piemonte. Poi fu lo choc del gruppo al Senato, sciolto come neve al sole, con gli abbandoni di Menardi, Saia, Viespoli, Pontone. Tutti a puntare il dito contro il capo e il suo facente funzioni Bocchino. Ultimo sbrego con l’eurodeputato nonché coordinatore regionale della Campania, Enzo Rivellini. Un duello nell’unica Regione dove il Fli era riuscito a strutturarsi come si deve. Risultato: bye bye anche di Rivellini che s’è portato via quasi tutto l’organigramma regionale con i coordinatori cittadini di Napoli, Caserta, Avellino, Salerno. Ma non è finita qua. Nelle ultime ore si sono dimessi dagli incarichi di partito l’europarlamentare Potito Salatto (coordinatore provinciale di Rieti) e il senatore Candido De Angelis (coordinatore della Provincia di Roma). Tutti al grido di «No agli inciuci con la sinistra». Bocchino aveva provato a rassicurare i compagni: «Il Fli non sarà mai alleato con la sinistra». Ma le menzogne hanno le gambe corte e lo ricorda Francesco Storace: «A Olbia, in Sardegna, il Fli s’è unito non solo al Pd ma anche ai vendoliani di Sel e all’Idv di Di Pietro». Con buona pace di Urso, Ronchi e gli altri moderati che stanno ancora a cuccia nel Fli. Fino a quando?
……………..E oggi la Gazzetta del  Mezzogiorno dà notizia che il FLI sosterrà alle elezioni comunali di Noicattaro, provincia di Bari, il candidato di SEL, il partito di Vendola, Sozio,  che non è uno qualsiasi, è il capogruppo di SEL alla provincia di Bari. Complimenti ai finiani, di Noicattaro e di ogni dove: hanno lasciato il centro destra per aruolarsi sotto le bandiere del veterocomunismo vendoliano. Ma andando dietro ad un veterotraditore come Fini può loro capitare anche di peggio. g.

IL PD VUOLE PIU’ SOLDI PUBBLICI DA DARE AI PARTITI

Pubblicato il 10 aprile, 2011 in Politica | No Comments »

Fini ha fallito, la Boccassini rischia di fare altrettanto. Meglio affidarsi ai cari vecchi metodi comunisti,altrimenti c’è ilrischio che Berlusconi,l’incubo peggiore della si­nistra, continui a governare chissà per quanti anni ancora.

L’ultima idea del partito di Bersani è la tassa contro Berlusconi: italiani, regalate­ci altri soldi, altrimenti il Cavaliere vince ancora per vent’anni. Lui è ricco, noi no. Quindi lo Stato deve aiutarci. Non ci sono soldi? Il debito pubblico già angoscia le notti di Tremonti? I precari scendono in piazza? Pazienza, in qualche modo si fa­rà. Si taglia qualcosa o si chiedono nuovi sacrifici. Per contrastare Silvio ogni scusa è sempre buona. La realtà è che la sinistra perde non perché sia povera, infatti non lo è, ma perché non ha un leader e le sue idee sono vecchie e vuote. Il succo è che i contabili di partito sono stanchi di vacche magre e vogliono rimpinguare i loro portafogli.

Questa stramba richiesta, un po’ piagnucolosa, arriva da Ugo Sposetti, deputato del Pd e storico tesoriere dei Ds, che in apparenza è ormai la versione vecchia del partito di Bersani, ma che in realtà rappresenta ancora la cassaforte dei post comunisti. Cosa vuole Sposetti? Semplice. Batte cassa. Ha presentato una legge nella commissione Affari costituzionali che riapre il finanziamento pubblico ai partiti. È un provvedimento che dopo 63 anni dovrebbe attuare l’articolo 49 della Costituzione, quello che prevede la libera associazione in partito. Di fatto è solo un modo per aprire i rubinetti e portare altri soldi ai partiti.

Il ritornello è sempre lo stesso: Berlusconi è ricco, gli altri sono poveri. Il Pd riscopre pauperismo e populismo, fa diventare il finanziamento ai partiti una battaglia anti Cav. Il guaio è che questa operazione non ha nulla a che fare con il premier, ma puzza parecchio di interesse di casta. I politici sono educati alla cultura dello spreco, considerano diritti inalienabili di ruolo e potere quelli che per gli altri sono privilegi. Sanno che la crisi sta ridimensionando lo stile di vita di molte caste. Ma loro sperano di essere immuni dalle forbici e dai sacrifici. Non si lamentano come artisti, scaligeri, musicanti e attori. Non salgono sui tetti come i ricercatori universitari. Molti di loro si sentono precari, ma fanno in fretta ad accumulare pensioni. I politici non hanno bisogno di lamentarsi dei tagli. Sono l’unica categoria su cui la crisi è passata come una carezza. Eppure temono che il loro mondo possa crollare. È per questo che Sposetti non ha avuto difficoltà a trovare colleghi pronti a firmare la sua colletta.

La questione su come finanziare la politica è antica. È stata centrale nel dibattito su Tangentopoli. La politica costa. La politica è una scommessa sulla propria elezione. È una preoccupazione che avevano già i candidati dell’antica Roma. Chi deve pagare? Lo Stato? Gli italiani? Le lobby? Il rischio è che il politico finisca con il finanziarsi con le tangenti. Il problema quindi c’è. Ma tirare in ballo Berlusconi è l’ennesimo passo falso della sinistra. È il sintomo dell’ossessione di Bersani e soci. Questa volta poi ha il sapore di una furbata. Non a caso quando Enrico Letta propone di abolire il vitalizio dei parlamentari, un vecchio notabile del Pd post democristiano come Gerardo Bianco alza le barricate. I nostri soldi non si toccano. Tutto questo fa tristezza. E una cosa ormai è chiara: perfino l’antiberlusconismo serve solo a nascondere gli interessi della casta. Il Cavaliere è la coperta di Linus di tutti i problemi irrisolti dei mestieranti della politica.

UN AVVISO AI NAVIGANTI: BERLUSCONI PUO’ MOLLARE, di Giuliano Ferrara

Pubblicato il 10 aprile, 2011 in Politica | No Comments »

Questa mattina, ma anche ieri e l’altro ieri e ieri l’altro ancora, la stampa italiana, sia “nemica” che “amica”  di Berlusconi, annuncia sconquassi e rese di conti all’interno del PDL, con il rischio di crisi di govenro e  di possibi governissimi che mettano da parte lo stesso Berlusconi. Questa mattina è Il Corriere della Sera, pubblicando una intervista al ministro Galan, a insinuare questa ipotesi, mentre Il Giornale dà notizia che i finiani avrebbero proposto per bocca di Briguglio (pensate un pò….) che nel caso Berlusconi si metta da parte, il FLI voterebbe un lodo costituzionale che accantoni i processi al premier sino alla fine della legislatura. Basterebbe questa quasi barzelletta a dare la misura della follia delle tesi sfasciste della stampa. Se Berlusconi si mettesse da parte non ci sarebbe alcun bisogno di  un lodo costituzionale perchè non ricoprendo più una delle quattro cariche istituzionali non avrfebbe diritto ad alcuna “protezione” : come si vede quella di Brigulgio, se davvero c’è stata, è una non proposta. Quanto alla ipotesi di un governissimo che si potebbe concretizzare se in Parlamento il governo Berlusconi cadesse è frutto di alchimie fantasiose. Per quanto nel PDL convivano anime diverse e talvolta tra di loro la verve poemica supera il livello di guardia, riteniamo che nessuna delle anime, singole o associate, siano tanto pazze da far karakiri facendo cadere il governo e aprendo la strada a inimmaginabili scenari sui quali le prime a rimetterci le penne sarebbero molte delle anime in pena che si aggirano all’interno del PDL, orfane di potere (Pisanu o Scaiola, per esempio) alle quali basterebbe richiamare alla memoria il triste percorso di Fini che ormai si è trasfromato nel classico cane che grida alla luna per indurle a più miti e sani pensieri. Al riguardo ci pare appropriato il fondo di questa mattina sul Giornale di Giuliano Ferrara che offriamo alla lettura e alla riflesisone dei nostri lettori. g.

Ognuno ha i sogni che si merita. Io ho sognato Ber­lusconi. Aveva riunito i suoi, che litigano come fa­cevano le lavandaie d’inizio seco­lo. Litigano a gran voce, in parla­mento, alla televisione, nei corri­doi del palazzo, concedendo in­terviste a raffica a giornali amici e nemici, gridando qualunque co­sa venga loro in mente, basta che sia insidiosa, distruttiva, basta che metta in luce la nevrosi collet­tiva del Popolo della libertà e una inaudita licenziosità politica.

«Cari amici – diceva Il Cav. nel mio sogno dell’altra notte – consentitemi una fraterna messa in guardia: se continua così, con la stessa rapidità con cui sono sceso in campo me ne torno in tribuna a godermi lo spettacolo. Ho buoni avvocati, e fuori dalla politica, do­ve sono stato un elemento di di­sturbo insopportabile per tanti anni, e ancora adesso, diventerei una preda meno ambita dai rapa­ci delle procur­e combattenti e del­le opposizioni al loro laccio. Me la cavo, state certi. E se proprio fosse necessario, un patteggiamento per levarsi di torno la malagiusti­zia alla fine non si nega a nessu­no, come un sigaro o un’onorifi­cenza di cavaliere al merito. Le mie paure per le scorciatoie giudi­ziarie sono solo indirettamente personali, in primo piano sta la li­bertà politica e civile, che viene negata in radice da questa specie di Stato di polizia in cui i magistra­ti fanno comizi in piazza, le loro avanguardie si sono massiccia­mente presentate in politica fa­cendosi eleggere in parlamento e fondando partiti dopo avere di­strutto quel che c’era prima, con il suo male e con il suo bene. Un ap­parato di giustizia che lavora su pretesti di reato, invece che su fat­tispecie concrete, e dispone spio­naggio, pedinamento, intercetta­z­ioni allo scopo di sputtanare l’Ar­cinemico dando in pasto all’opi­nione pubblica il suo privato, per di più deformato in maniera grot­tesca nel circo mediatico-giudi­ziario, tra gli applausi ipocriti de­gli acrobati del neopuritanesimo, non poteva che indebolirmi, al­meno un po’. Ma non vi illudete: la mia relativa debolezza, il fatto che io sia costretto a difendermi mentre avanzano crisi a ripetizio­ne nello scenario mediterraneo, mentre premono mille cose da fa­re per il rilancio dell’economia e per le riforme, non è un fattore di forza per le vostre ambizioni, per­sonali e di gruppo. Lo champa­gne che qualcuno di voi stappe­rebbe dopo il 25 luglio avrebbe un retrogusto amaro, e in breve tempo vi ritrovereste assetati e af­famati, con i vostri progetti e la vo­stra dignità politica a disposizio­ne della Repubblica delle procu­re e dei suoi speaker politici.

«Non ho fondato una caserma. Mi piace perfino il caos creativo, il peso irriducibile della personali­tà in politica, sopporto cristiana­mente e allegramente le idiosin­crasie, esercito l’ironia e l’autoiro­nia per debel­lare il linguaggio po­litico pesante e protocollare che è il vero inganno ai danni dei citta­dini, e nessuno mi può insegnare l’arte del comando e anche il suo risvolto, una tolleranza ai limiti dell’anarchia liberale, della stes­sa licenza. Siamo un non-partito, un popolo, e questo di noi piace agli italiani. Quindi capisco tutto il bailamme che caratterizza la no­stra creatura politica, e anche l’energia frammentaria e vario­pinta che connota la maggioran­z­a parlamentare e lo stesso gover­no. Ma ogni limite ha la sua pa­zienza, come diceva Totò.

«Di tanto in tanto dovreste ricor­darvi il sale di questa nostra av­ventura: iniettare dosi massicce di libertà in un paese che era bloc­cato, che non conosceva l’alter­nanza di forze diverse al governo dello Stato, un paese in cui piano piano alla dittatura morbida del­le ideologie nazional-popolari in declino si andava sostituendo quella, ancora più tignosa e illibe­rale, delle burocrazie giudiziarie d’assalto e di poteri economici senza inventiva e senza capitali ma con molte immodeste ambi­zioni di dominio. Un progetto no­bile e pericoloso, per il quale si è chiamati a pagare dei prezzi, non solo a riscuotere gli onori della carriera politica. Tra essere liberi e farsi del male per stupidità, tra la libertà responsabile e un’indisci­p­lina irresponsabile e autolesioni­sta, c’è tutta la differenza tra una politica e un Pdl ricchi di autenti­ci e sani conflitti e un sistema- par­tito che si disintegra a forza di chiacchiere».

Così parlò il Berlusconi-Zara­thustra nel mio sogno notturno. Nel quale, fluttuando amabil­mente tra le insidie dell’incon­scio, si era insinuato un elemento di sano realismo.

Il Giornale, 10 aprile 2011

FINI DIMENTICA IL SUO PAESE

Pubblicato il 9 aprile, 2011 in Politica | No Comments »

Gianfranco Fini Puntuali e sinistri come gli sciacalli, o gli avvoltoi, le opposizioni non si lasciano scappare neppure il doppio dramma della nuova immigrazione prodotta dalla guerra in Libia, e dalle crisi dei Paesi limitrofi, per sfruttarlo cinicamente contro il governo. Che potrà avere fatto tutti gli errori che volete, ammesso e non concesso che abbia commesso davvero tutti quelli che gli vengono contestati dagli avversari, ma ha pur sempre il diritto di poter contare sul senso generale di solidarietà e di responsabilità nazionale nei momenti di emergenza. È evidente che tale è la situazione nella quale si trova oggi non il governo ma il Paese, tutto intero, di fronte a ciò che proviene dall’Africa. E purtroppo anche dalle frontiere del nord, vista la disinvoltura con la quale la Francia, tra la complicità e l’indifferenza degli altri Stati dell’Unione Europea, è tornata ad innalzare le sue come muri inviolabili. Mancano solo il cemento e i cavalli di Frisia del muro di Berlino. Intanto spieghiamo perché il dramma della nuova ondata d’immigrazione è doppio. Lo è per i disperati in fuga dalle loro terre, spesso inghiottiti dal mare prima ancora che possano raggiungere le nostre coste sui barconi carichi della loro miseria e della spregiudicatezza criminale di chi li sfrutta. Lo è per il nostro Paese perché, contrariamente alla demagogica rappresentazione che ne fanno le opposizioni, esso non è economicamente e socialmente in grado di contenere da solo tutta l’immigrazione che gli si rovescia addosso. Non c’è dibattito parlamentare o televisivo in cui non si sentano gridare le opposizioni, a gole gonfie di indignazione, contro il ministro dell’Interno e, più in generale, contro il governo per l’incapacità di prevedere e quindi prevenire i fatti. In quest’azione forsennata di protesta, fra le opposizioni c’è solo la gara a chi le spara più grosse. E spesso a vincerla è persino la parte che vorrebbe essere considerata la più moderata, come l’Udc di Pier Ferdinando Casini. Dove evidentemente i nervi hanno ceduto alla paura di vedersi arrivare elettoralmente tra i piedi, a insidiare la leadership del fantomatico terzo polo, il ferrarista Luca Cordero di Montezemolo.

Ma, Dio buono, tutti quelli che gridano sono gli stessi che solo poche settimane fa avevano dato del matto e del provocatore proprio al ministro dell’Interno. Che aveva osato parlare di immigrazione «biblica» in arrivo dalle coste africane. Persino il buon Giorgio Napolitano si era lasciato convincere dalle opposizioni che Maroni desse i numeri. E gli aveva metaforicamente tirato le orecchie parlando anche lui di inutili, anzi pericolosi «allarmismi». In una simile condizione, deriso come un mitomane o quasi, nessun ministro dell’Interno, e relativo governo, poteva allestire un piano sufficiente di prevenzione. Il cui presupposto principale è la coesione nazionale. Sono tristemente indimenticabili le smorfie di sufficienza, se non di disgusto, degli avversari del governo quando Maroni ed altri esponenti del governo e dei gruppi parlamentari della maggioranza proposero alle opposizioni una «regia comune» per fronteggiare la situazione. Lor signori del no erano più presi allora, come ancora oggi, da tutt’altre faccende, prime fra tutte le vicende processuali, vecchie e nuove, del presidente del Consiglio. È solo di qualche sera fa l’ultima esibizione televisiva di quel vessillo dell’opposizione che sembra purtroppo diventato il presidente della Camera Gianfranco Fini, tutto impegnato, in collegamento registrato con il salotto di Ballarò, ad anticipare come sarebbe finita con la Francia la partita che stava per aprirsi, e si è poi aperta, dei nostri permessi temporanei per motivi umanitari ai profughi tunisini francofoni che, approdati in Italia, vorrebbero tentare di ricongiungersi con familiari ed amici oltr’Alpe. C’era in quella previsione del no francese una certa aria di sufficienza critica verso il governo, il suo governo, il governo cioè del suo Paese, che non gli faceva francamente onore, come oppositore e tanto meno come terza carica dello Stato, per ripetere la qualifica della quale si riempiono la bocca i suoi amici per respingere, con lui, la sola ipotesi che possa rinunciarvi.Francesco Damato, Il Tempo, 9 aprile 2011