Se proviamo per un istante ad aprire lo sguardo, sollevandolo dalla minutaglia politica per vol­gerlo all’orizzonte, l’Italia di oggi appare alla vigilia di una grande restaurazione neodemocristia­na. Dalla crisi del progetto berlu­sconiano – che è ben altro dalla crisi di governo, che non  ci sarà neanche questa volta – non uscirà né la destra europea né la sinistra riformista che i politologi e i politicanti vanno da anni invocando invano, bensì una nuova, antichissima marmellata centrista impastata di buone maniere istituzionali e di conservatorismo statalista, di poteri forti e di consociativismo politico, di assistenzialismo e di buon senso politicamente corretto. Silvio Berlusconi, nonostante racconti spesso con una punta di civetteria di essere sceso in campo la prima volta a 11 anni per attaccare i manifesti di De Gasperi, non è mai stato un democristiano: per temperamento e per biografia, prima ancora che per cultura o per scelta, è semmai un uomo del riformismo craxiano. L’idea di modernità che Berlusconi esprime, irrompendo sulle macerie della prima Repubblica, segna una cesura netta non soltanto rispetto al galateo, come non si manca mai di ricordare, ma anche e soprattutto rispetto all’agenda politica, alle priorità e alle modalità dell’azione di governo,alla forma-partito, e insomma alla politica così come l’avevamo conosciuta fino ad allora. Liberale, scapestrata, irriverente (e spesso, ahimé, inefficace), la «destra» berlusconiana sostituisce la Dc come casa comune dei moderati. È una piccola rivoluzione che oggi sembra aver esaurito la sua spinta propulsiva. L’Italia è un paese conservatore: ma lo è come in quel racconto di Flaiano, dove persino l’arrivo di un marziano a via Veneto, dopo un po’, diventa una semplice curiosità che increspa appena lo scorrere lento della vita di sempre.

Sta capitando più o meno la stessa cosa a Berlusconi, il marziano della politica: ma in una forma più subdola, e sfruttando l’estrema fragilità della coalizione. I segnali sono molti. Le cronache dipingono spesso Letta e Tremonti su sponde opposte (l’ultima volta a proposito di Geronzi), ma in realtà entrambi condividono, se non una cultura, certamente una prassi democristiana del potere, cioè sostanzialmente conservatrice e interessata alla redistribuzione ( assistenziale) più che alla modernizzazione ( liberale). Democristiano si può dire un governo che, al netto dei provvedimenti economici varati l’altro giorno e ancora da verificare, rinuncia alle riforme perché tutto concentrato sulla propria sopravvivenza. Democristiani, naturalmente, sono i Responsabili, che persino nell’estetica ricordano i peones che affollavano i convegni dorotei. E un pochino democristiano è diventato anche Bossi, con le sue crisi minacciate e poi rientrate al solo scopo, neppur inconfessato, di guadagnare visibilità, voti e potere. Democristiano, infine, è l’orizzonte. Un’alternativa di centrosinistra, dopo la sciagurata scelta del Pd di legarsi a Vendola e Di Pietro, è assai improbabile. La destra moderna di cui a un certo punto ha parlato Fini è diventata una parodia del dipietrismo. Il solo a godere di buona salute politica, come il guerriero che attende paziente sulla riva che il fiume gli porti il cadavere del nemico, è Pierferdinando Casini. Ha raddoppiato i parlamentari mangiandosi prima Rutelli e poi Fini. Civetta con Bersani ma non si alleerà con lui. Ha molti amici nel Pdl, nella Chiesa, in Confindustria. E soprattutto ha già detto che cosa vuol fare: andare da solo alle elezioni, impedire al centrodestra di conquistare la maggioranza in Senato, accordarsi con Berlusconi in cambio di palazzo Chigi. Più responsabile di così… Non è una questione di uomini (Casini sarebbe un ottimo presidente del Consiglio), ma di cultura politica, di metodo, persino di spirito. La risacca democristiana che si annuncia porterà forse un po’ di calma nei talk show, e ridurrà alla disoccupazione i professionisti dell’antiberlusconismo, ma non per questo salverà l’Italia o ne risolverà un solo problema. Aspettando il Godot riformista, c’è un solo leader oggi in grado di opporsi alla risacca: il liberale Berlusconi. Non si arrabbi con Napolitano, ma, al contrario, lo ringrazi per l’occasione che gli offre e vada in Parlamento. E, presa la fiducia, non la usi come una ciambella per galleggiare un altro paio di mesi, ma come una clava per fare le riforme liberali (tasse, liberalizzazioni, giustizia) per le quali è stato eletto. Senza aver paura della crisi, perché comunque alle elezioni prima o poi ci si andrà. E divincolarsi dalla palude è la premessa per riprovare a vincere. Fabrizio Rondolino, Il Giornale, 8 maggio 2011