Lo dice senza remore, lo testimoniano i dati in suo possesso: «sono migliaia i posti di lavoro persi dall’inizio della guerra», ammette Alfredo Cestari, presidente della camera di Commercio ItalAfrica Centrale. La diapositiva scattata dall’associazione (registrata al ministero per il Commercio Estero) non induce all’ottimismo. Soprattutto per le piccole e medie imprese, che «fino al 2010 erano stabilmente impegnate in Libia» e per le quali «l’acquisizione di commesse permetteva loro di mantenersi in vita in Italia», dice Cestari.

Solo «il 30% del personale si è salvato attraverso la sua riconversione e il riutilizzo in altri ambiti aziendale», si legge nella nota diffusa dall’associazione. Un’ecatombe soprattutto per quegli imprenditori che avevano spostato in Libia il loro core business, convinti che il trattato di amicizia italo-libico firmato quasi tre anni fa potesse essere il garante dei loro commerci. Il raìs sembrava essersi ammansito dopo la crisi dell’86 (con attacco missilistico a Lampedusa) e i Piccoli sono andati a rimorchio delle grandi aziende di casa nostra, costruendo un principio d’indotto anche sull’altra sponda del mediterraneo.

Lavoravano nella subfornitura edilizia, dietro le commesse vinte da Impregilo e Astaldi, nel settore dei trasporti per Iveco e Grimaldi e avevano sfruttato l’onda lunga che i contratti di fornitura di petrolio e gas vinti da Eni (e la sua controllata Saipem), Edison e Tecnimont, potevano garantire per un buon approvvigionamento energetico. Ecco perché si erano spinti anche in mercati inesplorati, come quello dei mangimi (come la romagnola Martini Silos), nel settore delle telecomunicazioni (dietro il colosso Telecom, anche la Sirti, che produce appunto impiantistica per le reti di telecomunicazioni) e nella meccanica industriale, come la bolognese Technofrigo (impianti di refrigerazione) e la cremonese Ocrim (molini).

Spiega Cestari: «il bombardamento dei siti di estrazione di petrolio da parte di Gheddafi significa che sarà quasi impossibile per l’Eni riprendere la fornitura a guerra finita (rispettando così i contratti già firmati, ndr.)». E teorizza un conto a dieci cifre – già da ora – per tutto il sistema-Italia: «il volume d’affari che si è interrotto ha abbondantemente sfondato il tetto di 100 miliardi di euro». E se il colosso di San Donato Milanese ha potuto reggere l’onda d’urto, per le imprese dell’indotto i «licenziamenti e le procedure di cassa integrazione» sono state inevitabili. Il Corriere della Sera, Fabio Savelli, 14 maggio 2011

.………..Senza essere economisti o esperti in poltica economica, non abbiamo nascosto i nostri dubbi e le nostre perplessità per la partecipazione ad una guerra voluta da francesi e inglesi con il supporto del più grande bluff della politica di tutti i tempi, Obama. A Inglesi e francesi non gliene frega un fico secco dei diritti umani dei libici, la cui stragrande maggioranza, tra l’altro, non apprezza il loro intervento sul suolo di una Nazione sovrana e per di più membro dell’Onu, a loro importavano solo le ricchezze della Libia il cui principale interlocutore economico, sino alla guerra, era l’Italia. All’Italia, dunque, dal punto di vista economico, e se si vuole, anche cinico, la guerra era l’ultima cosa che poteva volere. Era chiaro a tutti, sinache a noi, ma non lo era (o lo era?) alle opposizioni, dal PD all’Udc, passando per il FLI, che hanno sbraitato  (fsolo per far male al governo e finendo per fare male all’economia italiana) sino a quando il governo, cedendo alle pressioni politiche, ha ceduto e fatto guerra alla Libia e quindi al ruolo italiano in quella parte del nordafrica e al ruolo delle imprese italiane che ora sono costrette a licenziare migliaia di lavoratori, aggravando la crisi  del nostro Paese. Con chi dobbiamo congratularci? g.