Al TG delle 13,30 di oggi il grillo parlante del PD, l’ex democristiano Enrico Letta, schiumava rabbia contro Berlusconi. Niente di nuovo si dirà. Letta quando parla, lo fa solo per starnazzare contro Berlusconi. Togligli Berlusconi e Letta andrebbe a pesca per ammazzare il tempo e nel frattempo imparare a parlare con i pesci. Niente di nuovo, infatti. Solo che la ragione dell’ennesima sfuriata di Letta era il colloquio, privato, tra Berlusconi e Obama, ai margini del G8 di Parigi, durante il quale il premier ha raccontato ad Obama le “attenzioni” che subisce da 17 anni dalla procura di Milano. Come sia stato possibile che un colloquio privato sia diventato pubblico e oggetto di scandalo è presto detto. I soliti spioni hanno letto il labiale di Berlusconi mentre parlava con Obama. Alla faccia della privacy e anche della sicurezza, perchè così come sono stati capaci di carpire il labiale avrebbero potuto sparare al capo della Casa Bianca. Quisquiglie, queste, per Letta al quale della privacy di Berlusconi e della sicurezza di Obama, importa un ficco secco. Gli importa scatenare la sua furia moralizzatrice contro il premier che “racconta” i fatti suoi e (secondo Letta) …diffama l’Italia. E’ la tipica doppia morale comunista alla quale è approdato anche Letta che non riesce nemmeno ad accettare che Berlusconi, a torto o a ragione, assediato da 17 anni dalla procura di Milano possa avvertire il bisogno di sfogarsi. Contro i giudici. E che cè di male, visto che altrettanto fece il grande leader D’Alema senza che ciò abbia provocato nè scandalo, nè che i Bersani e i Letta di turno di strappassero le vesti, anzi i vestiti. Lo racconta sul Tempo Francesco Damato nell’articolo che segue: SE LO DICE D’ALEMA E’  (GIUSTAMENTE) OK. g.

oMassimo D'Alema I professionisti dell’indignazione, togati e laici, si sono affrettati a protestare per lo sfogo di Silvio Berlusconi con il presidente degli Stati Uniti, al G8 di ieri a Deauville, sulla «quasi dittatura dei giudici di sinistra» in Italia. Bisogna essere ipocriti per pensare che Obama avesse bisogno di sentire le battute del Cavaliere per farsi un’idea dello specialissimo trattamento giudiziario che viene riservato da anni in Italia al presidente del Consiglio. Il presidente degli Stati Uniti sa bene, al pari dei suoi predecessori e dei segretari di Stato americani succedutisi almeno dal 1992 in poi, che all’ombra dell’autonomia e dell’indipendenza garantite dalla Costituzione a quello che è un “ordine” ma ha voluto trasformarsi in potere giudiziario, vero e proprio, ci sono magistrati che dettano l’agenda politica italiana. Il Dipartimento di Stato nell’estate del 2008 raccolse contro le degenerazioni della magistratura italiana lo sfogo non di Berlusconi, appena tornato a Palazzo Chigi, ma di Massimo D’Alema. Che aveva smesso da poco di fare il ministro degli Esteri dell’ultimo governo di Romano Prodi e, conversando con l’allora ambasciatore degli Stati Uniti a Roma Ronald Spogli, aveva definito la nostra magistratura «la più grande minaccia allo Stato».

Il diplomatico ne rimase così colpito da riferirne ai superiori con un dispaccio destinato poco più di due anni dopo a finire in tutte le redazioni dei giornali del mondo, e non solo italiani, grazie a Wikileaks. Quando l’impietoso giudizio finì sui giornali, alla vigilia di Natale dell’anno scorso, D’Alema cercò di togliersi dall’impaccio dicendo di essere stato «frainteso», pur essendo noto Spogli per la sua buona conoscenza dell’italiano. D’altronde, D’Alema aveva avuto occasioni di scontri diretti con i magistrati dieci anni prima come presidente della commissione bicamerale per le riforme. Non sarà sfuggita nei giorni scorsi all’ambasciata americana a Roma neppure una clamorosa e illuminante intervista di Rosaria Schifani, vedova di uno degli agenti uccisi con Giovanni Falcone nel 1993 a Capaci: un’intervista piena di sdegno per il tempo che certa magistratura ha perso e perde tuttora per inseguire le fandonie di Massimo Ciancimino. E con esse anche il sogno di coinvolgere Berlusconi persino nelle stragi mafiose che precedettero il suo esordio politico. Francesco Damato, Il Tempo, 27/05/2011