Quando uno le prende alle elezioni, poi ha in genere due vie di fronte a sé. La prima è questa. Ricucire la ferita facendo appello all’unità burocratica degli apparati, esercitare il potere per dissuadere eventuali congiurati dal passare all’azione, chiudersi con i fedelissimi e cooptare nuovi elementi fidati nel vecchio palazzo, scaricare il barile su altri e cercare una rivincita a suon di chiacchiere (per esempio promettere un ennesimo rilancio dell’azione di governo, fare discorsi complicati e inutili sul radicamento nel territorio del partito, dire senza ironia che è colpa della tv). Mi pare una strada sbagliata. Una pecetta va forse bene per una sconfitta laterale, sostanzialmente ininfluente, in un quadro di vitalità e baldanza del tuo schieramento. Ma è questa la situazione in cui si trova Berlusconi?
L’altra via, la via reale, è rimettersi in discussione senza trucchi, cedere una quota di potere in cambio di una nuova autorità. In una parola: rilegittimarsi con un’opera di riconquista democratica del diritto di decidere. Berlusconi ha perso altre volte, non è affatto nuovo alla sconfitta elettorale. Ma tutte e due le volte che ha perso con Prodi il suo carisma era fuori discussione. Era la vittima di un ribaltone, uno che non aveva avuto il diritto di svolgere un mandato, oppure un sovrano boicottato e insidiato da boiardi sui quali non era difficile scaricare ogni colpa. È ancora materia resistente, in un certo senso inattaccabile, il ruolo personale del Cav come deus ex machina di ogni possibile soluzione. Il mito della fondazione, della politica che non è mestiere, della lingua sciolta contro la lingua di legno, è ancora vivo. Berlusconi è ancora senza alternative, sia per il suo movimento popolare sia per il governo del Paese. Non è un turno elettorale amministrativo che liquida una delega politica esercitata avventurosamente per tanti anni con una forte, fortissima caratterizzazione personale. I «liberatori» delle città d’Italia cantano a squarciagola, ma dovranno portare una croce pesante per trasformare tra due anni vittorie per loro molto ambivalenti in una Reconquista. Però Berlusconi è significativamente indebolito, sta prendendo tratti di immobilismo impressionanti, è come risucchiato da una logica conservatrice che lo isola e lo induce a un monologo ripetitivo e sempre difensivo, subisce un assedio esterno e interno senza che si vedano in azione risorse di fantasia e di buonumore, fondate sulla disponibilità coraggiosa al rischio, che un tempo erano una sua prerogativa, amata dagli amici e invidiata dai suoi nemici.
Non sono state sfortunate elezioni di medio termine. Il risultato non è dipeso dalla crisi congiunturale della finanza pubblica e privata in Europa e nel mondo. È caduta Milano, il bastione della patria berlusconiana e nordista, e non c’è bisogno di aggiungere altro. A Napoli, che Berlusconi aveva cercato di reinventare come una specie di nuova capitale del Sud da curare come una figlia molto amata, un plebeista forcaiolo ha preso due terzi dei voti. Inoltre, alle elezioni partito e coalizione di Berlusconi sono arrivati male, divisi, alla fine impotenti e quasi obbligati a infilare un errore marchiano dietro l’altro. E il capo deve assumersi le sue responsabilità. Il vecchio mago poteva infischiarsene, rilanciare sempre, fare sì che il passato non fosse mai stato (prerogativa negata da San Tommaso perfino a Dio). Ma non è più quel tempo. Il Re deve darsi una costituzione, il suo carisma assoluto è out. Le primarie per eleggere il presidente del Pdl e i coordinatori regionali (il «segretario» invece deve essere designato, è il braccio esecutivo) sono uno strumento, non devono trasformarsi in una chiacchiera politicante. Strumento per cambiare decisamente. Per ottenere una delega nuova di zecca, e per ottenerla con una campagna impegnativa in cui una guida politica si misura con il consenso e con il dissenso in forma competitiva. La competizione va sollecitata, il ricambio anche generazionale va messo alla prova, i notabili devono anche loro sottomettersi al giudizio dell’elettorato. Il fatto che Berlusconi con ogni probabilità vincerebbe la competizione non la rende inutile. Si innesca un processo. Si creano bilanciamenti. Si seleziona una classe dirigente con il gusto della discussione e del contraddittorio, fuori dalle secche della infinita e circolare cooptazione. Si stanano le ambizioni sbagliate e si vanifica lo spirito di congiura che aleggia disperso nei labirinti della famosa «successione». Si rianima ciò che è disanimato.
Se qualcuno ha una proposta diversa, altrettanto radicale e persuasiva, si faccia avanti, e la formuli. Ma piccoli rimedi per estremi mali sono quanto di più pericoloso possa capitare a chi deve esercitare una vera autorità, e conquistarsela in modo nuovo e in circostanze nuove. Il fascino di Berlusconi nella storia italiana in fondo è solo in questo: la capacità di mettersi in questione, di rischiare, di comunicare, di reinventarsi.

…..Francamente non condividiamo la vediamo all’orizzonte del PDL alcun congiurato pronto a pugnalare il leader che sebbene acciaccato non ha perduto alcuno dei suoi poteri e alcunchè del suo carisma all’interno di un partiuto che è la sua creatura che senza di lui non avrebbe più aria per respirare. Certo ci sono molti scontenti e sopratutto ingrati i quali dimenticano di dovere a Berlusconi tutto ciò che hanno, forse non tuti madi certo quelli che politicamente sono nati con Forza Italia. Ferrara forse adombra l’ombra della congiura più per il piacere di scrivere sapendo benissimo che è l’ultima cosa che possa preoccupare Berlusconi. E’ condivisibile però il suo appello all primarie. Utili quelle  per la elezione del presidente che servirebbero a rinsaldare il vincolo che esiste tra Berlusconi e il suo “popolo”, necessarie quelle per la elezione dei coordinatori del partito, almeno queli regionali, per garantire una vera democrazia interna nel PDL. g.