Nella speranza di dare un colpo al centrodestra, la si­nistra ha dissot­terrato l’ascia arruggini­t­a del referendum abroga­tivo. Il pretesto per usarla è cancellare alcune leggi ora sgradite dopo essere state graditissime un po’ a tutti. Nelle ultime setti­mane Il Giornale ha spie­gato come stanno le cose, e non ci sarebbe bisogno di ulteriori chiarimenti se non fosse che la propa­ganda dei referendari si è fatta martellante. Si an­drà alle urne – chi lo vor­rà, perché non è obbliga­torio – principalmente per mandare una secon­d­a volta in pensione il nu­cleare, che in Italia non ha mai potuto funziona­re.

Negli anni Ottanta co­struimmo (a costi abnor­mi) alcune centrali. Al momento di attivarle e go­derne i benefici, esplose un rottame sovietico a Cernobyl per colpa di tre elettrotecnici, uno dei quali ubriaco, che aveva­no scambiato il reattore per una semplice calda­ia. Sembrava la fine del mondo. Viceversa i Paesi civili, non soltanto occi­dentali, non fecero una piega e perfezionarono i loro impianti, altro che di­smetterli. Tutti tranne l’Italia. Che, presa dal pa­nico, corse a votare per bloccare ogni iniziativa atomica. E la bloccò per vent’anni durante i quali, però, consumò regolar­mente energia nucleare prodotta all’estero da centrali sorte a pochi chi­lometri dalle nostre fron­tiere. Doppia spesa e sol­di buttati, giacché in caso di incidenti il pericolo di contaminazione sarebbe stato comunque grave, per noi come per le confi­nanti nazioni esportatri­ci di energia. Vabbè. Sor­voliamo.

rriva Berlusconi e ci ri­prova. Parte la procedura necessaria a rivitalizzare l’ambaradan atomico e si attende l’inizio dei lavori, dopo aver identificato (fra mille grane con le Re­gioni) i luoghi dove realiz­zare gli impianti. E riecco­ci nel dramma. Nuovo in­cidente. Dal Giappone giungono notizie scon­volgenti e gonfiate dagli ambientalisti. I quali ne approfittano per lanciare un allarme apocalittico e così il secondo referen­dum sul nucleare decol­la: ovvio, la gente non dispone di informazioni scientifiche esatte e si abbandona alla paura. Il governo se ne rende conto e rinuncia al progetto con una legge denominata moratoria, anziché sospensiva, dato che il linguaggio incomprensibile è più chic.

In sintesi. Domenica si va a votare per abrogare una legge già abrogata. Un’insensatezza? Mica tanto. Perché se vinceranno i referendari, la sinistra dirà che ha perso ancora Berlusconi. Se si tratta di destabilizzare, tutto è buono, anche una consultazione superata dai fatti. Questa è la logica delle opposizioni che, avendo conseguito un risultato positivo nella partita amministrativa, sono persuase di essersi già aggiudicate lo scudetto.

C’è dell’altro. Domenica è in ballo anche il referendum sull’acqua. Si sente puzza di imbroglio. Hanno detto e ripetuto che l’acqua è stata privatizzata nonostante sia un bene pubblico, cioè di tutti. Falso. È stata privatizzata, in minima parte, solamente la rete idrica (le tubazioni, per essere chiari) in quanto glienti pubblici l’hanno gestita talmente male che il 40 per cento dell’acqua non arriva al rubinetto, disperso in mille rivoli per mancanza di adeguata manutenzione.

Niente da fare. Ormai è passato il concetto (campato per aria) che l’acqua se la sono fregata i padroni. Una bischerata. Cui se ne aggiunge una terza, pure oggetto di plebiscito: il legittimo impedimento per ministri e premier, già stravolto se non azzerato dalla Consulta. Consiste nel permettere ai signori del governo, qualora abbiano un impegno istituzionale relativo al loro mandato, di rinviare un’eventuale udienza in tribunale. Dov’è lo scandalo? Inesistente. Eppure anche questa norma, secondo Di Pietro, va depennata. Mah!

Mi fermo qui augurandomi di non avervi tediato. Solo una considerazione. La nostra è una democrazia rappresentativa: eleggiamo al Parlamento i rappresentanti del popolo – potere legislativo – affinché facciano le leggi. Segno che ci fidiamo di loro, altrimenti non li eleggeremmo. Bene. Allora che senso ha il referendum abrogativo il cui effetto può essere – lo dice la parola stessa – quello di vanificare l’attività di coloro che abbiamo delegato a svolgerla? Mistero.

Capirei se introducessimo il referendum propositivo: servirebbe a integrare il lavoro dei deputati e dei senatori. Una consultazione di questo genere sarebbe una ricchezza per la democrazia e non una diminuzione. Poiché, invece, nella presente circostanza il ricorso alle urne è una gagliarda presa in giro dei cittadini, una faccenda di bassa bottega politica, personalmente non ci sto: non andrò a votare. E credo di interpretare il pensiero di parecchi lettori, oltre che la linea del Giornale. Vittorio FELTRI, Il Giornale, 10 giugno 2011