Si dice in giro che sia cominciata l’agonia della Rai.L’uscita di Miche­le Santoro, spesso vanamente an­nunciata in passato, stavolta è avve­nuta davvero, e vari menagramo colgono in essa i segnali di una catastrofe imminen­te. Che sarà inevitabile – aggiungono – se oltre al capitano di Annozero dovessero tra­slocare (a La7) anche Milena Gabanelli, Giovanni Floris, Fabio Fazio e Serena Dan­dini. Vero o falso? Non sono un aruspice (un indovino) e quindi non mi abbando­no a previsioni. Ma, avendo un certo uso di mondo, mi sia consentito guardare al futu­ro attraverso la lente dell’esperienza.

La Rai- già Eiar- è vecchia come il cucco, però ha ancora una fibra fortissima che le ha permesso di resistere a qualsiasi scosso­ne. Nel corso degli anni ha servito mille pa­droni, ciascuno dei quali l’ha sfruttata a piacimento, eppure ha conservato la pro­pria credibilità, almeno in parte. La Demo­crazia cristiana la saccheggiò per anni, ap­p­rofittando del fatto di essere l’unico parti­to che comandava. Poi cedette quote di po­tere ai socialisti cooptati nella maggioran­za di centrosinistra ( inizio anni Sessanta) e al Pci che, pur essendo all’opposizione, era in grado di farsi sentire dall’alto di un 25-30 per cento di consensi nel Paese. Dal canale unico degli albori, le reti di­vennero tre e si aprì il festival della lottizza­zione: tre poltrone a te, due a me, una a lui.

L’organico dell’ente radiotelevisivo si gon­fiò a dismisura, imbottito di raccomanda­ti, parecchi asini e alcuni (pochi) bravi pro­fessionisti. Se oggi vuoi sapere quanti sia­no i dipendenti del mastodonte «antennu­to » devi affidarti a stime giornalistiche: 10mila? 12mila? 13mila? Sempre troppi ri­spetto alla quantità e alla qualità del servi­zio offerto. In ogni caso al numero impres­sionante delle persone a libro paga biso­gna sommare la pletora di collaboratori esterni e di produttori autonomi, cioè ditte che vendono alla Rai programmi confezio­nati. Ora, è impensabile che – considerate le dimensioni di un’azienda simile-lefortu­ne dell’ex monopolio siano legate alla pre­senza in video di quattro o cinque divi del tipo appunto di Santoro, Gabanelli, Floris, Fazio e Dandini. Sarebbe un assurdo tecni­co. Significherebbe che oltre il 90 per cento del personale è puro contorno e ruba lo sti­pendio. Mi rifiuto di crederlo. Se morto un papa se ne fa un altro, forse si potranno rim­piazzare anche quattro o cinque conduttori per quanto abili sia­no (cosa sulla quale è lecito discu­tere, se non altro perché i gusti so­no gusti). Ma non è questo il pun­to. È già successo che taluni big del piccolo schermo, considerati mo­numenti nazionali, siano spariti dalla circolazione o addirittura dal­la faccia della terra.

Sulle prime si è detto: «E adesso che ne sarà di noi poveri orfani?». E giù lacrime. Vole­te qualche esempio? Corrado, do­po essere stato uno dei padri nobili della radio postbellica, divenne un cardine, un simbolo della televisio­ne garbata, un parente catodico amato e stimato dalle famiglie ita­liane. Ma anche lui, a un dato mo­mento, fu vittima dell’evento più probabile della vita: la morte. Con lui se ne andò via uno stile cui era­vamo abituati e affezionati. La tele­visione soffrì e lo spettatore anche. Finì un’epoca e sivoltò pagina con qualche rimpianto, ma senza di­sperazione. Altri uomini e di diver­sa impostazione esordirono – mi viene in mente Marco Columbro ­e l’audience non precipitò affatto. E che dire dell’immarcescibile Mike Bongiorno? Lo abbiamo am­mirato giova­ne e americaneggian­te presentatore radiofonico e quin­di televisivo. Da Lascia o raddop­pia? a Rischiatutto ( sorvoliamo sul resto andato in onda sulle reti Me­diaset), avevamo maturato la cer­tezza che le nostre serate non aves­sero senso senza un quiz a premi, ovviamente propinato dal fondato­re della tivù d’intrattenimento. Morto anche lui. Ma prima di lui defunse il genere cui era legata la fama di Mike. E veniamo a Pippo Baudo, al­tro campione. È vivo e vegeto, e ce ne rallegriamo. Però abbiamo scoperto che la nostra esistenza, e quella della Rai, procede de­centemente anche se egli ha dira­dato le sue presenze in video si­no a renderle inapprezzabili.

Sic­ché viene il sospetto che il desti­no della tivù prescinda da quello degli uomini che la fanno e che la sparizione o il declino di que­sti coincida con l’esigenza di mu­tare registro, o almeno di rinno­varlo. Santoro si eclissa o cambia cana­le? Fazio di trasferisce ad altra emit­tente o si ritira per godersi i gettoni accumulati? La Dandini va altrove a guadagnarsi i dindini per campa­re? E chissenefrega. Il mondo non si fermerà, e neppure la mangiato­ia di viale Mazzin­i e dintorni roma­ni smetterà di nutrire i professioni­sti capaci di condurre programmi più o meno graditi. Massì, siamo sinceri.

A forza di vedere i soliti vol­ti, i soliti ospiti, le solite liti, e di udi­re le solite sovrapposizioni di voci stridule, le banalità dei soliti satiri­ci, che hanno sostituito gli ideolo­gi, ci siamo stufati. Uffa, che barba, che noia. Dateci qualcosa di diverso e di più eccitante o di più rilassante. Da­teci gente fresca che ci accompagni dal dopocena alle braccia di Mor­feo con qualche gradevole sorpre­sa. Coraggio, regalateci un paio d’ore interessanti e poco stressanti. Nossignori. La fine degli spetta­coli di Santoro e di tutti i santorini non seppellirà la Rai, ma la aiuterà a rinascere. Più bella e più superba che pria. Sperèm. Vittorio Feltri, 11 giugno 2011