Al voto, al voto!, dice Pierluigi Bersani nell’aula strapiena di Montecitorio rispondendo picche all’«appello alla coesione» lanciato nei giorni scorsi da Napolitano e appena fatto proprio, almeno a parole, dal presidente del Consiglio. Al voto, al voto!, chiede senza se e senza ma il leader del Pd, ieri insolitamente emozionato, a tratti anche indignato o minaccioso, e leggermente sopra le righe nei panni inusuali del censore severo. Al voto, al voto: prima che la Tangentopoli di Sesto San Giovanni rischi di allargarsi ad altre aree sensibili del Nord, o magari di lambire addirittura Roma. E prima che qualcuno nel Pd cominci a dire a voce alta quello che molti stanno già pensando in silenzio, e che Travaglio ha scritto sul Fatto: Bersani non è più candidabile a Palazzo Chigi, il centrosinistra dopo il caso Penati si scelga un altro condottiero.
Sia chiaro: i democratici hanno ottime ragioni per chiedere le dimissioni del governo e le elezioni anticipate. Le difficoltà in cui si dibattono Berlusconi e l’esecutivo sono evidenti. Nei sondaggi il Pd risulta il primo partito. Con indubbia abilità, ha saputo cavalcare l’onda referendaria senza preoccuparsi di capovolgere le proprie posizioni. E l’alleanza con il Terzo polo, indispensabile per assicurarsi una vittoria certa in entrambe le Camere, è tanto più probabile quanto più vicine sono le elezioni.
Ciò nonostante, il Pd in queste ultime settimane ha sempre evitato di chiedere esplicitamente il voto anticipato: in parte perché c’è chi – come D’Alema e Veltroni, seppur con sfumature e intenzioni diverse – preferisce un governo «tecnico» o «istituzionale» o «di transizione» che affronti l’emergenza economica e finanziaria e riscriva la legge elettorale. In parte perché il principale alleato potenziale del Pd, l’Udc, di elezioni anticipate non vuol proprio sentir parlare (e Casini lo ha ripetuto ieri alla Camera con grande nettezza). E in parte perché il Quirinale, a torto o a ragione, preferirebbe non sciogliere il Parlamento in una situazione di grande instabilità internazionale che rende l’Italia, vaso di coccio, particolarmente vulnerabile.
Ieri Bersani ha rovesciato il ragionamento: «I problemi non si risolvono con un discorso o un monitoraggio con le parti sociali, ma serve un po’ di tempo per una tregua con gli investitori e i mercati, e il tempo si può avere solo con un gesto politico», con una «novità politica» che archivi il governo Berlusconi. Le dimissioni dell’esecutivo e lo scioglimento delle Camere sostituiscono dunque la «coesione nazionale» come gesto risolutore della crisi. Soltanto la «discontinuità», conclude Bersani chiedendo «un passo indietro» al presidente del Consiglio, può salvare l’Italia.
La nettezza di Bersani – comunque se ne giudichino le motivazioni – suona dunque come una novità: «Noi davanti all’emergenza del Paese siamo disposti, a fronte di un passo indietro di chi è responsabile di averci portato fin qui, a fare un passo in avanti». E alle proteste che arrivano dai banchi della maggioranza replica quasi stizzito: «Non intendete avere questa generosità e togliere l’impedimento? Ve ne prendete la responsabilità di fronte al Paese e ai cittadini».
Tanta impazienza induce a pensare che qualcosa sia cambiato nei piani strategici del segretario del Pd, che in questi anni e in questi mesi è stato semmai accusato del contrario, cioè di temporeggiare e di avere idee poco chiare sulla prospettiva da seguire. E se qualcosa è cambiato, dev’esserci un motivo. L’aria che si respira nel Pd, dopo il salvataggio di Tedesco e l’inchiesta su Penati, non è affatto tranquilla. Da un lato cresce l’insofferenza dei «giustizialisti» capitanati da Rosi Bindi e da Franceschini, dall’altro cresce il timore che l’indagine su Penati sia destinata ad ingrossarsi fino ad esplodere.
Perché la questione, in fondo, è molto semplice e attraversa tutte le scuole di pensiero del Pd: che Penati sia colpevole o innocente, che la Procura di Monza lavori in modo impeccabile o sia invece parte di un complotto politico, che lo scandalo resti confinato in Lombardia o lambisca il Pd nazionale – in tutti i casi, resta il fatto che Penati è stato il braccio destro di Bersani. «È come Milanese con Tremonti – sorride amaro un deputato democratico -, mica si può far finta di niente». Al voto, chiede dunque Bersani, al voto: prima che il vulcano esploda.
….Questo commento al discorso per molti versi scialbo  e incolore di Bersani ieri alla Camera è tanto più congruo se si considera che l’autore è quel Fabrizio Rondolino un tempo molto vicino a D’Alema e suo diretto collaboratore ai tempi di D’Alema presidente del Consiglio. Nessuno meglio di Rondolino può fasi interprete dei pensieri che attraversano la mente dei post comunisti che dopo aver visto deragliare la gioisa macchina da guerra di Occhetto, ora sentono che sta per sfumare di nuovo la possibilità di occupare il posto di comando della nave Italia a causa del fattore “T”, T come tangenti. g.