La crisi di leadership c’è, il suo indirizzo è la Casa Bianca di Obama. Dopo la decisione storicamente inaudita di Standard & Poor’s, una A in meno e previsioni negative per le finanze americane, i cinesi hanno letteralmente preso a schiaffi gli americani. Gli hanno detto che sono spendaccioni, e che a Pechino vogliono garanzie serie per i titoli in dollari nelle loro mani, ma glielo hanno detto con un sovrappiù di disprezzo senza precedenti, insomma una rampogna aspra e per loro, concorrenti strategici sempre in crescita, goduriosa. Potevano farlo, visto che avevano appena brindato per i tagli al Pentagono, un ridimensionamento netto della capacità di comando degli Stati Uniti nel mondo, il primo di due colpi micidiali a quel possibile ordine mondiale da sempre imperniato sulla forza imperiale americana.
Alla fine del secondo mandato di George W. Bush, il cui consenso domestico si era progressivamente incrinato, America e mondo occidentale subirono gli effetti di una crisi da crescita fatta di follie della finanza privata legata, anzi impiccata, ai debiti collegati ai farlocchi incrementi esponenziali di valore degli immobili: improvvisamente niente liquidità e recessione, logica dei salvataggi di Stato incentivata dal fallimento sinistro della Lehman Brothers, esplosione del debito privato delle famiglie convertito nel tempo in debito pubblico (causa prima del finale colpo d’artiglio di Standard & Poor’s). Era l’autunno del 2008, l’America era cresciuta per anni a ritmi vertiginosi sul fondamento di un ruolo sempre decrescente dello Stato fiscale, Wall Street aveva divorato con la nota voracità sia il ricordo della bolla tecnologica, la «new economy» che ha fatto più morti e feriti di una guerra persa, sia la memoria dolente dei tremila ammazzati delle Twin Towers. Alla base di quella fase di prosperità, che ovviamente incubava nuove possibilità di crisi, c’era una leadership univoca, forte, neoreaganiana, con le sue scelte di ordine mondiale (Afghanistan, Irak, guerra al terrorismo, unilateralismo strategico). Nel pieno della tempesta l’oracolo di Omaha, il grande finanziere Warren Buffet, investì cinque miliardi di dollari nella Goldman Sachs, e nel giro di tre anni Dio solo sa quanto abbia guadagnato. Perché quella dell’autunno del 2008 era una crisi da eccesso di ricchezza alla Schumpeter, distruzione creativa, mentre quella di questi mesi sembra proprio essere la crisi di un capitalismo impoverito, senza energia, senza una bussola, incapace di far funzionare il meccanismo del fallimento e dunque succubo di tutti i fallimenti da salvare.
Obama non ha fatto cose soltanto negative. È un solido liberal della scuola politica di Chicago. Sa come muoversi a Washington. Su Guantanamo e sulla caccia a Bin Laden è stato di molto superiore alla sua retorica della mano tesa verso l’islam. Ma la sua epica del consenso interno, la sua incapacità di decidere presto e bene, assumendosi rischi seri, sono le concause evidenti del nuovo tremore e terrore che attraversa i mercati, con gli speculatori (ma anche gli investitori e i risparmiatori) sul piede di guerra intorno ai fronti della crescita, insufficiente, e dell’indebitamento euro-americano, a livelli mai visti prima. I risultati sono quelli che sono, e non si dà un declassamento così sorprendente, nonostante la disputa sugli errori di calcolo dell’agenzia di rating e le scelte diverse delle altre agenzie, senza una precisa responsabilità del capo dell’esecutivo.
Il problema che ci angustia, che mette in pericolo risparmi e capitali e lavoro, che ha fatto risalire le quotazioni del partito della patrimoniale, la botta secca che ti fa restare come prima e ti evita le riforme serie, è che le forze di mercato trovano molle, sono fronteggiate anche in Europa da decisioni miopi, lente, da coalizioni di interessi che non hanno un raccordo comune e si scontrano tra loro (il fallimento greco sarebbe stato salvifico se non ci fossero andate di mezzo le banche tedesche e inglesi). D’altra parte il principale difetto di Obama è di essere un leader all’europea, uno che i veri applausi se li è guadagnati con il comizio al Tiergarten di Berlino, gli mancano gli stivaletti da cowboy, il passo ispirato dell’americano che ha fiducia in sé e in nessun altro. Non sottovaluto i pregi di un presidente elegante e cosmopolita, ma ho una nostalgia canaglia di Bush, dei tagli fiscali in profondità e della crescita americana al 4 per cento. C’è crisi e crisi, questa è particolarmente avvilente. Giuliano Ferrara, Il Giornale, 8 agosto 2011