I SOLDI NON CI SONO? ALLORA NON SPENDETE!
Pubblicato il 15 agosto, 2011 in Economia, Politica | Nessun commento »
di Credo che nessun pasto sia gratis e che si debba pagare di tasca propria. Mi secca perciò essere chiamato a fronteggiare sprechi di Stato che non avrei mai voluto e che detesto. La crisi economica come dice il Cav è mondiale, ma il debito pubblico che ci azzoppa è italiano.
Governo e opposizione, hanno le loro ricette sui sacrifici da fare. Nessuno dice però se lo sforzo sia un lenitivo o una vera soluzione. Il Cav anziché ripetere che gli sanguina il cuore per la mazzata che ci dà, dica se vale la pena darcela. Se restituisce un futuro al Paese, ci sottomettiamo. Se è un furtarello i cui effetti si esauriranno in pochi mesi, la politica è in coma. Ciò che impressiona nell’ansimante dibattito, in cui la paura spadroneggia e la razionalità è abbandonata, è che non si pensi ad accompagnare la pretesa di sacrifici con ferme garanzie che il caos non si ripeterà.
Prima di essere spremuto, avrei voluto sentirmi dire dal centrodestra quanto segue. Caro Perna ti stiamo impoverendo per un debito non tuo, contratto da noi politici dimentichi delle regole del buon governo. Non accadrà più. Inseriremo l’obbligo del pareggio del bilancio nell’articolo 81 della Costituzione. Ciò significa che lo Stato spenderà annualmente solo il denaro delle tasse. Non una lira di più. Rinunceremo ai prestiti – cioè Bot e compagnia – buoni solo a espandere l’ingerenza pubblica. Sono 30 anni che il debito è incontrollato. Come sai ha raggiunto la cifra di 1.843 miliardi equivalente al 120 per cento del Pil e ci costa 70 miliardi di interessi l’anno (quasi il doppio dell’attuale dura manovra che, per di più, è diluita in due anni). Senza contare che il 40 per cento è in mano estera e così siamo in balia di altri.
Con l’obbligo del pareggio, i nostri unici introiti saranno le tasse. Ovviamente, stabiliremo nello stesso articolo 81 il limite massimo delle imposte da pagare, così da evitare che per megalomania spendereccia i futuri governi le portino alle stelle. Già adesso siamo largamente sopra il limite, poiché sottraiamo ai cittadini circa il 50 per cento del loro reddito, come dire che lo Stato succhia ogni anno metà del Pil: 750 miliardi sui 1500 di fatturato nazionale. Un’idrovora che soffoca la libertà economica degli individui e delle imprese. Con la conseguenza che il denaro che i privati farebbero fruttare con nuove iniziative, è utilizzato dallo Stato per la spesa corrente, ossia sterile.
Che questa modifica costituzionale dell’articolo 81 sia assolutamente necessaria, è provato non solo dalle regole dell’economia classica liberale – vai a rivedere Perna quanto scriveva Luigi Einaudi, che oggi ci osserverebbe inorridito -, ma anche dalla contrarietà di Bersani, Bindi, Prodi & Co, di inserire l’obbligo del pareggio nella Costituzione. Sono il partito della spesa pubblica, quello dei keynesiani, che vuole dare mano libera allo Stato paventando situazioni eccezionali – una grave recessione, per esempio – in cui il governo potrebbe avere bisogno di indebitarsi per tenere botta. È quello che sostengono anche otto Nobel americani che in una lettera a Obama – evidenziata pour cause dall’Unità – lo sconsigliano di introdurre il pareggio di bilancio nella Carta Usa. Naturalmente, in queste perplessità c’è del vero. Ma noi abbiamo un altro imperativo: stroncare il vizio italiano del debito sistematico. Quindi ben venga il divieto costituzionale. Se poi sarà necessario un indebitamento antirecessivo – una volta ogni trent’anni – la politica farà un’eccezione, come è avvenuto nei giorni scorsi in Usa.
Dimenticavamo, ma è sottinteso: nella spesa statale – quella che ha il suo tetto nelle entrate fiscali – sono inclusi i 70 miliardi annui di interessi del debito pubblico in atto. Perché è vero che, con la regola del pareggio, non andremo più in deficit, ma l’indebitamento precedente resta. E finché non sarà estinto, costa. Dunque – problema ulteriore – bisognerà cominciare a ridurre i 1.800 miliardi di prestiti fino all’azzeramento. Se ogni anno paghiamo, senza rinnovarli, il 3 per cento di titoli pubblici, in 33 anni saldiamo. L’operazione ci costerà ulteriori 48 miliardi annui.
Queste sono le cifre. Un quadro tremendo, ma tiene conto degli italiani che verranno. Non c’è spazio per sprechi, né per furti e resta meno della metà di quanto spendiamo oggi per le solite cose, vitali ma improduttive: stipendi pubblici, previdenza, sanità, ecc. L’unico modo di uscirne è quello finora inutilmente caro al premier: produrre di più. Moltiplicare il Pil, lavorare molto, esportare come tedeschi. Più redditi, più entrate fiscali, più ricco il bilancio pubblico. Dimenticate una cosa, dico io. Togliete ai parlamentari il potere di presentare leggi di spesa (per ingraziarsi il collegio), lasciandone il monopolio al governo. Compito delle Camere è controllarne la correttezza. Se invece maneggiano anche loro, chi controllerà il controllore? Hai ragione Perna, sarà fatto. Questo avrei voluto sentirmi dire. Inserita in questo quadro d’insieme, considererei la mazzata dolorosa ma utile. In mancanza, la vivrò come quella cialtronata del governo Amato che, vent’anni fa, ci lasciò più poveri ed egualmente vulnerabili. Il Giornale, 15 agosto 2011
Governo e opposizione, hanno le loro ricette sui sacrifici da fare. Nessuno dice però se lo sforzo sia un lenitivo o una vera soluzione. Il Cav anziché ripetere che gli sanguina il cuore per la mazzata che ci dà, dica se vale la pena darcela. Se restituisce un futuro al Paese, ci sottomettiamo. Se è un furtarello i cui effetti si esauriranno in pochi mesi, la politica è in coma. Ciò che impressiona nell’ansimante dibattito, in cui la paura spadroneggia e la razionalità è abbandonata, è che non si pensi ad accompagnare la pretesa di sacrifici con ferme garanzie che il caos non si ripeterà.
Prima di essere spremuto, avrei voluto sentirmi dire dal centrodestra quanto segue. Caro Perna ti stiamo impoverendo per un debito non tuo, contratto da noi politici dimentichi delle regole del buon governo. Non accadrà più. Inseriremo l’obbligo del pareggio del bilancio nell’articolo 81 della Costituzione. Ciò significa che lo Stato spenderà annualmente solo il denaro delle tasse. Non una lira di più. Rinunceremo ai prestiti – cioè Bot e compagnia – buoni solo a espandere l’ingerenza pubblica. Sono 30 anni che il debito è incontrollato. Come sai ha raggiunto la cifra di 1.843 miliardi equivalente al 120 per cento del Pil e ci costa 70 miliardi di interessi l’anno (quasi il doppio dell’attuale dura manovra che, per di più, è diluita in due anni). Senza contare che il 40 per cento è in mano estera e così siamo in balia di altri.
Con l’obbligo del pareggio, i nostri unici introiti saranno le tasse. Ovviamente, stabiliremo nello stesso articolo 81 il limite massimo delle imposte da pagare, così da evitare che per megalomania spendereccia i futuri governi le portino alle stelle. Già adesso siamo largamente sopra il limite, poiché sottraiamo ai cittadini circa il 50 per cento del loro reddito, come dire che lo Stato succhia ogni anno metà del Pil: 750 miliardi sui 1500 di fatturato nazionale. Un’idrovora che soffoca la libertà economica degli individui e delle imprese. Con la conseguenza che il denaro che i privati farebbero fruttare con nuove iniziative, è utilizzato dallo Stato per la spesa corrente, ossia sterile.
Che questa modifica costituzionale dell’articolo 81 sia assolutamente necessaria, è provato non solo dalle regole dell’economia classica liberale – vai a rivedere Perna quanto scriveva Luigi Einaudi, che oggi ci osserverebbe inorridito -, ma anche dalla contrarietà di Bersani, Bindi, Prodi & Co, di inserire l’obbligo del pareggio nella Costituzione. Sono il partito della spesa pubblica, quello dei keynesiani, che vuole dare mano libera allo Stato paventando situazioni eccezionali – una grave recessione, per esempio – in cui il governo potrebbe avere bisogno di indebitarsi per tenere botta. È quello che sostengono anche otto Nobel americani che in una lettera a Obama – evidenziata pour cause dall’Unità – lo sconsigliano di introdurre il pareggio di bilancio nella Carta Usa. Naturalmente, in queste perplessità c’è del vero. Ma noi abbiamo un altro imperativo: stroncare il vizio italiano del debito sistematico. Quindi ben venga il divieto costituzionale. Se poi sarà necessario un indebitamento antirecessivo – una volta ogni trent’anni – la politica farà un’eccezione, come è avvenuto nei giorni scorsi in Usa.
Dimenticavamo, ma è sottinteso: nella spesa statale – quella che ha il suo tetto nelle entrate fiscali – sono inclusi i 70 miliardi annui di interessi del debito pubblico in atto. Perché è vero che, con la regola del pareggio, non andremo più in deficit, ma l’indebitamento precedente resta. E finché non sarà estinto, costa. Dunque – problema ulteriore – bisognerà cominciare a ridurre i 1.800 miliardi di prestiti fino all’azzeramento. Se ogni anno paghiamo, senza rinnovarli, il 3 per cento di titoli pubblici, in 33 anni saldiamo. L’operazione ci costerà ulteriori 48 miliardi annui.
Queste sono le cifre. Un quadro tremendo, ma tiene conto degli italiani che verranno. Non c’è spazio per sprechi, né per furti e resta meno della metà di quanto spendiamo oggi per le solite cose, vitali ma improduttive: stipendi pubblici, previdenza, sanità, ecc. L’unico modo di uscirne è quello finora inutilmente caro al premier: produrre di più. Moltiplicare il Pil, lavorare molto, esportare come tedeschi. Più redditi, più entrate fiscali, più ricco il bilancio pubblico. Dimenticate una cosa, dico io. Togliete ai parlamentari il potere di presentare leggi di spesa (per ingraziarsi il collegio), lasciandone il monopolio al governo. Compito delle Camere è controllarne la correttezza. Se invece maneggiano anche loro, chi controllerà il controllore? Hai ragione Perna, sarà fatto. Questo avrei voluto sentirmi dire. Inserita in questo quadro d’insieme, considererei la mazzata dolorosa ma utile. In mancanza, la vivrò come quella cialtronata del governo Amato che, vent’anni fa, ci lasciò più poveri ed egualmente vulnerabili. Il Giornale, 15 agosto 2011