Barack Obama (Ansa)Barack Obama (Ansa)

Devo fare due premesse. Non sono un economista e non ho, quando osservo la politica americana, un partito preso. Tradotte in chiaro queste due premesse significano anzitutto che non sono in grado di dire, con certezza e convinzione, se il piano approvato a Washington per evitare l’insolvenza corrisponda alle esigenze dell’economia americana e di quella mondiale. E significano, in secondo luogo, che le mie reazioni non sono condizionate da particolari simpatie per l’una o l’altra delle maggiori forze politiche degli Stati Uniti.
Vi sono tuttavia altre domande a cui posso cercare di dare una risposta: concernono Barack Obama, il suo profilo politico e il ruolo dell’America nel mondo. Obama è ancora un liberal, come sembrò essere durante la campagna per le elezioni presidenziali? O non è piuttosto un moderato centrista, desideroso di evitare rotture e pronto a ricercare soluzioni di compromesso? All’inizio della sua presidenza, quando la crisi del credito rischiava di azzerare  grandi banche e grandi industrie, agì con rapidità e con una certa efficacia. Ma negli ultimi mesi è sembrato tentennante e ambiguo. Non ha dato retta ai keynesiani che gli chiedevano di uscire dalla crisi aumentando spregiudicatamente la spesa pubblica. Ha rinunciato a revocare le esenzioni fiscali decise dal suo predecessore. Ha cercato di inserire nel pacchetto finanziario degli scorsi giorni l’aumento delle tasse per i redditi più elevati, ma ha fatto, almeno per ora, un passo indietro. In Libia ha combattuto una guerra a metà, un piede dentro e un piede fuori. Nella questione palestinese ha fissato scadenze che il governo di Benjamin Netanyahu ha ignorato.  In Afghanistan e in Iraq vuole al tempo stesso il ritiro delle truppe americane e la stabilità politica dei due paesi: obiettivi difficilmente conciliabili. Sappiamo che voleva cambiare gli aspetti più discutibili della politica del suo predecessore, diminuire le spese militari, abbassare la soglia dell’interventismo americano negli affari mondiali, ridurre i poteri di Wall Street, aggiungere con la riforma sanitaria un tassello importante all’architettura dello stato assistenziale americano. Ma il quadro resta piuttosto incerto e confuso. Oggi, a quasi tre anni dall’inizio del mandato, Obama non piace né alla sinistra liberal e progressista, né alla tradizionale destra repubblicana.
Ho scritto «tradizionale» perché il confine tra le due maggiori forze politiche del paese è stato spostato dall’esistenza di una nuova destra populista e libertaria (il movimento del Tea party) che si è servita dello scontro sul tetto del debito pubblico per  una battaglia ideologica contro la natura dello stato americano. Il Tea party non vuole soltanto la morte politica di Obama. Vuole soprattutto ridurre drasticamente la presenza dello stato nella società e spera di raggiungere lo scopo imponendogli una severa cura dimagrante. Mentre Obama e la destra tradizionale cercavano di trovare il giusto mezzo tra riduzione della spesa pubblica e livello dell’imposizione fiscale, il Tea party voleva chiudere contemporaneamente il rubinetto della spesa e quello del gettito.
Quali sarebbero gli effetti di una tale politica sul ruolo degli Stati Uniti nel mondo? Non credo che questa domanda preoccupi i dottrinari del Tea party. La nuova destra è l’ultima incarnazione di un’America puritana nel campo dei costumi sessuali, libertaria in economia e soprattutto isolazionista, vale a dire convinta che questo grande paese debba voltare le spalle alle cose del mondo e occuparsi soltanto di se stesso. Se le cose sono in questi termini la crisi provocata dal tetto del debito non è soltanto materia  di lavoro per i ministri dell’Economia dell’Unione Europea. È anche e soprattutto materia per i suoi ministri degli Esteri e capi di governo. Sergio Romano per Panorama