Assalto alla borghesia. Furto senza destrezza nei confronti del ceto medio. Questo è, in parole povere, il succo delle manovre economiche adottate negli ultimi tempi da un governo che si autodefinisce di centrodestra ma che opera come un governo di centrosinistra, se non, pure, di sinistra tout-court. L’assalto alla borghesia, la rapina cioè del ceto medio produttivo – ché di rapina, di vera rapina, si tratta – è la conseguenza di una scelta culturale prima che politica. È il risultato di una mentalità socialista e statalista, che ha sempre guardato con sufficienza, se non proprio con occhio malevolo, l’iniziativa privata, soprattutto quella espressa dalla laboriosità e dall’inventiva dei piccoli imprenditori, degli artigiani, di coloro cioè che, ogni giorno, si rimboccano le maniche e, con il sudore della propria fronte, creano ricchezza, non tanto per sé, quanto per il Paese. È, ancora, il frutto di una mentalità che ha prodotto il pansindacalismo e l’assistenzialismo, la burocratizzazione della società, la crescita incontrollabile della spesa pubblica, l’invadenza sistematica dello Stato nell’esistenza dei cittadini. E, come esito finale, una società basata sul privilegio di casta e sulla rendita di posizione. Le pensioni di anzianità – caparbiamente difese dal neofascismo corporativo della Lega – che cos’altro sono se non privilegio allo stato puro, conseguenza della dilatazione senza controllo dello Stato sociale? E che cosa rappresenta la resistenza a oltranza di fronte alla prospettiva di un innalzamento dell’età pensionabile delle donne, al di là di ogni logica e al di là di ogni sostenibile motivazione economica ed etica oltre che al di là di ogni discorso sulla parificazione dei sessi, se non una difesa egoistica di uno status quo privilegiato, cascame, anch’esso, della società assistenziale? Una manovra finanziaria che colpisce, utilizzando la mannaia fiscale, i ceti medi produttivi è una manovra «culturalmente» socialista nella sostanza e antiquata nella struttura. Non tiene conto del fatto che i ceti medi – la borghesia produttiva insomma – sono la struttura portante della società contemporanea, il fattore che determina la ricchezza e la vitalità del Paese. Dovunque, e da sempre, questi ceti medi sono stati il cuore pulsante di una società in evoluzione e avviata lungo le strade dello sviluppo e del progresso. Lo sono stati agli albori dell’età moderna, quando artigiani, commercianti, piccoli e medi proprietari fondiari e via dicendo hanno avviato, grazie alla loro libera iniziativa, il processo di trasformazione da una economia di sussistenza a una economia fondata sullo scambio. Lo sono stati, nella parte più evoluta dell’Europa occidentale, all’epoca del decollo della rivoluzione industriale e dello sviluppo capitalistico. E lo sono stati portando avanti una concezione della vita fondata su valori quali la parsimonia, la laboriosità, il senso della disciplina, il culto del dovere, il gusto per l’innovazione e l’imprenditorialità. Lo sono stati, ancora, quando hanno contribuito a tradurre, in termini politici, nelle istituzioni democratiche e rappresentative dell’età liberale questi principi. Quelle parti dell’Europa dove la formazione della borghesia produttiva è stata ostacolata o si è manifestata con ritmi molto più lenti hanno fatto registrare, nel corso della loro evoluzione storica, un ritardo nello sviluppo non soltanto economico ma anche politico. Perché – non dimentichiamolo mai – la conquista della libertà politica procede di pari passo con la valorizzazione della libertà economica. Tanto è vero che le limitazioni e i condizionamenti della libertà economica e, più in generale, dell’iniziativa privata hanno accompagnato, nel secolo passato, la nascita e l’affermarsi dei regimi autoritari di ogni tipo e di ogni colore. Così come, nel secondo dopoguerra, il mito della «società del benessere» fondata sull’assistenzialismo di Stato ha portato all’elefantiasi burocratica, alla creazione di privilegi, a dimenticare – per usare una bella espressione dell’economista Milton Friedman, che «nessun pasto è gratis». L’assalto alla borghesia, ai ceti produttivi e tartassati del paese, così come è stato effettuato dal governo, attraverso l’arma del ricorso massiccio a un prelievo fiscale destinato a tappare soltanto buchi di bilancio, è destinato ad affrettare la corsa verso la stagnazione perché soffoca e deprime la capacità di iniziativa del ceto medio e non interviene, se non in misura risibile, sulle cause strutturali che, oltre alla congiuntura internazionale, sono all’origine delle difficoltà economiche del nostro paese. Un paese che è ben tratteggiato da una battuta di Antonio Martino: «L’Italia è una madre che ha due figli: Privato, che lavora, produce e risparmia. E Pubblico, che dissipa quanto incassa e si appropria anche dei risparmi di Privato. Un figlio creativo e laborioso che ha fatto del nostro uno dei paesi più prosperi del mondo e un fratello pletorico, inefficiente e dissestato». Gli interventi del governo, contenuti nella manovra di metà agosto, non sono soltanto un tradimento nei confronti delle promesse elettorali di dar vita a una «rivoluzione liberale». Sono, anche e soprattutto, una complice strizzatina d’occhio alla vocazione dissipatoria di Pubblico e un irridente rimprovero alla vocazione operosa e risparmiatrice di Privato. Francesco Perfetti, Il Tempo 20 agosto 2011

.…….Ci spiace doverlo ammettere ma ha ragione Perfetti. Questo governo di centro destra è di fatto un governo contro il ceto medio. Se continua così il ceto medio si trasformerà nella clava che lo butterà giù senza pietà. Berlusconi torni sui suoi passi e modifichi la manovra facendo buon uso della magggioranza in Senato dove è più facile costringere i riottosi della Lega ad accettare interventi che non si pongano sulla linea di distruzione del ceto medio italiano. Prima che sia troppo tardi. g.