Muammar Gheddafi Sei mesi di campagna militare da dimenticare ci consegnano (forse) una Libia liberata da Gheddafi, ma non libera dagli errori del colonialismo, gli orrori del colonnello, le stupidaggini di Grandi Nazioni che continuano ad essere piccole.
Gheddafi ha rappresentato per quel Paese – che prima di lui Paese non era – la soluzione dei mille conflitti tribali. Non voglio qui ripercorrere la vita di Muammar, cosa che fa con la sapienza dello storico il nostro Francesco Perfetti, ma la storia della Libia e della caduta del suo uomo-simbolo mi offrono lo spunto per affrontare, ancora una volta, uno dei temi che dovrebbe far parte dell’arsenale di idee dell’Occidente: la democrazia e la sua diffusione nel mondo.
Quando nel febbraio di quest’anno decisi di titolare la prima pagina de Il Tempo «Liberiamo Tripoli» pensavo di aprire un dibattito sul modo in cui i governi democratici si confrontano con i tiranni. Una cosa è la realpolitik, alla quale non mi stanco mai di far riferimento, un’altra è continuare a chiudere gli occhi di fronte agli orrori che si perpetrano in nome del potere personale senza muovere un dito e continuando pure a far finta che l’organizzazione delle Nazioni Unite, l’Onu, sia un club dove tutti sono gentiluomini. Il colonnello libico in quel club non era neppure il peggiore. Pensate solo a quel macellaio di Assad che in Siria ha schierato i carri armati contro i civili. Ha ucciso migliaia di persone negli ultimi anni e sta ancora al potere. Come lui tanti altri. Continua a farmi impressione vedere il presidente iraniano Ahmadinejad prendere la parola nel Palazzo di Vetro e dire chiaramente che Israele deve morire. Non voglio fare l’elenco delle satrapie mediorientali, non voglio sollevare qui il mai risolto problema dell’indipendenza del Tibet e dei diritti umani in Cina. Sono un realista, ma fino a un certo punto. Perché se si smette di pensare che la libertà non possa essere diffusa, allora ha poco senso vivere.
Per questo non ho mai esitato un minuto: Gheddafi doveva cadere e non per consunzione naturale, ma con il suono delle armi. Le rivoluzioni non si fanno con i fiori, quelle sono invenzioni buoniste che vanno bene per spalmare la Nutella non per fare politica estera. E qui veniamo al nocciolo centrale della faccenda: l’Europa, un’opera incompiuta che si sta disfacendo anche perché non ha un sistema comune di difesa (e offesa). La campagna militare in Libia è quanto di più sgangherato si sia visto nei manuali militari. Quando la guida dell’operazione è passata dal triangolo Stati Uniti-Francia-Inghilterra alla Nato il risultato è stato un fiasco. Contro un esercito quasi inesistente, un’aviazione che non volava e un sistema missilistico le cui qualità balistiche sono ricordate dalla pizzeria «Il missile di Lampedusa», bastava un mese di operazioni aeronavali e uno sbarco a terra di un gruppo speciale. Per ipocrisia si è scelta un’altra strada: finanziare gli insorti di Bengasi fornendo loro anche le armi e il supporto aereo per creare una bugia colossale, la rivoluzione libica contro il rivoluzionario per eccellenza, Gheddafi.
Così i cirenaici potranno rivendicare il loro primato sulla Tripolitania, in quanto rivoluzionari, e le tribù, che da sempre decidono i destini della Libia, saranno ancora una volta il fattore chiave di una partita post bellica ancora tutta da scrivere. Dal punto di vista militare la guerretta libica ci insegna che l’Europa non sa fare la guerra e senza gli americani è meglio che si dedichi ad altro. Quanto all’Italia avevamo cominciato malissimo, sostenendo uno zombie, cioè Gheddafi, la cui fine era segnata. Abbiamo poi deciso di usare le basi e far decollare i Tornado con un comico avviso: non sparano. In realtà in questa campagna abbiamo quasi finito le bombe, che poi siano andate a segno è tutto da vedere. Dal punto di vista politico l’Italia resta il Paese che ha più chances di tutti, i francesi e gli inglesi sono odiati ben più degli italiani, la bandiera di Sarkozy può sventolare a Bengasi non a Tripoli. E la nostra collaborazione con Gheddafi è esattamente pari a quella di tutto l’Occidente che con il colonnello faceva affari.

Più passa il tempo e più le idee dei neoconservatori americani, quelle del gruppo dei Vulcans, che sostenevano la politica estera di George W. Bush mi sembrano corrette: i massacri dei tiranni a un certo punto devono finire e chi desidera la libertà deve essere aiutato a trovarla. Non so se questo sia esportare la democrazia, ma certamente è sostenere l’idea di una società più giusta dove la libertà non è solo per pochi eletti, e l’Occidente può tutte le mattine svegliarsi e guardarsi allo specchio senza vergogna.  Mario Sechi, Il Tempo, 23/08/2011

……L’editoriale di Sechi è a cavallo della notizia che i figli di Gheddafi, dati per arrestati, sono più liberi che mai e che gli annunci sul loro arresto rappresentano la metafora del titolo dell’editoriale di Sechi: Tripoli è caduta, ma Gheddafi no! La verità è che la sgangherata guerra contro Gheddafi,  lanciata da Francia e Germania per motivi distanti quanto la Luna da quelli umanitari,  è lungi dall’essere conclusa e comunque non è certo che al termine si innalzerà su Tripoli  la bandiera della democrazia, mentre, come ricorda Sechi, in tante altre parti del mondo, sotto gli occhi strabici di un occidente a fasi alternate,  altri regimi autoritari e sanguinari reprimono nel sangue l’anelito alla libertà e alla democrazia dei loro popoli. La Siria e l’Iran ne sono i più squallidi esempi e per i loro capi, responsabili di genocidi accertati e di minacce di genocidio pronunciate nei luoghi consacrati al rispetto dei diritti dei popoli, non c’è nessun Tribunale speciale (dell’Aia) che intervenga, nella consacrata quanto avvilente abitudine di attenderne la caduta per denunciarne gli orrori. E se non cadono mai? g.