I VOLTAGABBANA DI TRIPOLI? DA BRUTO A FANFANI STORIA -ED ELOGIO! – DEI TRASFORMISTI
Pubblicato il 28 agosto, 2011 in Costume, Politica, Storia | Nessun commento »
di Mario Cervi
Un po’ sfacciatella,nel suo cambio di casacca, la giornalista televisiva libica Hala Misrati lo è indubbiamente stata. Presentatasi in video con pistola in pugno ed espressione eroica, una settimana fa si dichiarò pronta a essere martire della causa di Gheddafi. Adesso, dopo l’arresto, gli si è rivoltata contro e parla di «regime del tiranno». Una bella faccia tosta da affiancare ad altre facce non meno toste. Come quelle del primo ministro del governo transitorio Mahmoud Jibril, o di Mustafa Jalil presidente del Cnt, un tempo entrambi ferventi seguaci del Colonnello. I ripensamenti libici non sono che gli ultimi esempi d’una cultura del voltagabbanismo che percorre tutta la storia millenaria delle relazioni tra potentati e tra potenti. Tanto da sollecitare un interrogativo che i moralisti della politica potranno anche ritenere improponibile, ma che a me sembra invece molto sensato. I voltagabbana sono stati e sono, negli eventi dei popoli, una vergogna, o una risorsa, o tutte e due le cose insieme? Prendiamo proprio il caso libico. A chi è meglio affidarsi, per assicurare una transizione morbida, senza ammazzamenti rappresaglie e vendette dalla dittatura di Gheddafi al regime prossimo venturo? Non certo ai fanatici del fondamentalismoislamicoche, incorrotti e incorruttibili, aspirano a instaurare in Libia, e possibilmente dovunque, clericocrazie autoritarie, munite di temibili polizie per la salvaguardia dei costumi e del corano. E nemmeno a intellettuali elitari che sognano per il terzo mondo istituzioni ricalcate sul modello delle più solide e antiche democrazie. I traghettatori lì si sono dovuti cercare-nella speranza d’averli trovati- altrove: proprio tra gli ex pretoriani e cortigiani del raìs sconfitto. Infatti è di là che viene il nerbo della nuova- si fa per dire- dirigenza libica. Tutti ostentano buoni motivi per i loro pentimenti, ci sono i trombati con il dente avvelenato, ci sono i furbi che hanno subodorato il fatale declino d’un despota in sella da 42 anni, ci sono gli acrobati del salto all’ultima ora,appena in tempo per accodarsi alla turba inneggiante ai vincitori e imprecante contro lo sconfitto. Saranno loro, forse,cherisparmierannoall’Occidente il pericolo di trovarsi di fronte, sulla sponda africana, un blocco politico-religioso intollerante e aggressivo. I voltagabbana come lubrificante della storia. Può essere sconfortante ammetterlo ma è così. Si può tradire per mille diversi motivi, per i più nobili ideali come Bruto: o per venalità come i condottieri rinascimentali che si mettevano al servizio di questo o quel signore dietro lauto pagamento: o per alti e anche lodevoli disegni politici. Si diceva d’un principe di casa Savoia che non finisse mai una guerra dalla stessa parte in cui l’aveva cominciata, e se questo accadeva era perché aveva cambiato campo due volte. In determinate epoche, prima cioè che la politica e i conflitti venissero rivestiti a torto a ragione di panni ideali, queste trasmigrazioni erano normali. Appartenevano alla lotta per il dominio e per il potere. Machiavelli ha dato sistematicità e dignità a questo brutale procedere degli avvenimenti che coinvolgono i regnanti, a Cesare Borgia detto il Valentino nessuno avrebbe mai chiesto d’essere coerente, gli si chiedeva d’essere – e non lo fu – vincente. La figura del voltagabbana- o se vogliamo del mercenario militare, pronto a mettere la sua spada al servizio del migliore offerente – si è incupita e avvilita quando l’ideologia ha rivestito di fini salvifici o patriottici le guerre, le conquiste, le vittorie, le sconfitte, i patteggiamenti. Fu esaltata la resistenza della Francia rivoluzionaria all’assedio dell’ancièn régime. Ma toccò proprio a Napoleone I,l’erede della Rivoluzione che ne portò in tutta Europa il verbo – seppure corredato di ori imperiali – di patire i più brucianti abbandoni. Quello del maresciallo Ney che passò ai realisti, nei cento giorni dopo la fuga dall’-Elba tornò agli ordini di Napoleone e, dopo Waterloo, fu infine dai realisti fucilato per tradimento. Ci vuole, per sopravvivere come voltagabbana, un talento che a Ney mancava. O quello-l’abbandono-di Charles Maurice Talleyrand, volta a volta vescovo, rivoluzionario, ministro bonapartista, orditore di complotti contro Napoleone, rappresentante della Francia al congresso viennese della restaurazione. Il «Girella emerito» del Giusti che, per àncora d’ogni burrasca teneva – cito a memoria- «da dieci a dodici coccarde in tasca».Servì più padroni, ma servì alla Francia o la danneggiò? Camillo Benso conte di Cavour fu un voltagabbana? Di sicuro lo fu. Gli avversari gli rimproverarono la spregiudicatezza con cui nel 1852, per avere la nomina a primo ministro, si alleò alla sinistra di Urbano Rattazzi. Avevaungrandedisegno, e nessuna esitazione nell’essere,all’occorrenza, ambiguo o bugiardo tout court. Nell’«italietta» post risorgimentale Agostino Depretis diede un’etichetta quasi ufficiale alle giravolte della sua esperienza di governo, alla sua arte di navigare senza fulgori ma anche senza gli gIà, SIAMerrori di cui si rese poi colpevole Crispi tra opposte sponde e scogli affioranti. La si chiamò,quell’esperienza, trasformismo. Se la qualifica di voltagabbana si addice anche agli Stati, la merita senza dubbio l’Italia del 1914-1915 passata, dopo lo scoppio della Grande Guerra, dall’alleanza con l’Austria alla neutralità e infine all’intervento a fianco dei francesi e degli inglesi.
Ci saremmo esibiti in analoghi e peggiori voltafaccia anche nella seconda guerra mondiale, quanto ci schierammo con la Germania trionfante e l’abbandonammo allorché fu in difficoltà. Con zelo servile dichiarammo infine guerra ai nostri ex alleati Germania e Giappone. Alla caduta del fascismo la vocazione italiana per il voltagabbanismo- ma non è un’esclusiva,basta pensare alla Francia tra Pétain e De Gaulle- emerse prepotentemente. Il maresciallo Badoglio, protagonista negativo di Caporetto, conquistatore dell’Etiopia, vecchio arnese del regime fascista, si scoprì democratico, Vittorio Emanuele III, che aveva apprezzato Giolitti e subìto mugugnando ma obbedendo Mussolini, riluttò all’abdicazione, riteneva d’essere adatto per tutte le stagioni. Un popolo che era stato compattamente in camicia nera dichiarò da un giorno all’altro d’averla sempre aborrita, e Amintore Fanfani che aveva tessuto in un suo libro le lodi del corporativismo fascista si ritrovò tra gli uomini più promettenti della Dc. Possiamo anche aggrottare il sopracciglio per certe deambulazioni sfrontate, ma non senza riconoscernel’utilità.Nel tramonto- non foss’altro che per motivi anagrafici- della stagione berlusconiana, si profilano altri travestimenti e mascheramenti. Prepariamoci a tutto. Mario Cervi, Il Giornale, 29 agosto 2011
.…………….L’avvertimento di Cervi è superfluo, come del resto questo breve excursus nella storia del trasformismo, anzi, chiamiamolo per nome, del tradimento, sta a dimostrare.