Archivi per agosto, 2011

CASO PENATI: RINUNCIATE ALLA PRESCRIZIONE

Pubblicato il 27 agosto, 2011 in Costume, Giustizia, Politica | No Comments »

Il Pd sta perdendo la battaglia di Stalingrado. Se continua così, finirà che gli iscritti dovranno fare una class action contro Filippo Penati. Il danno che la vicenda di Sesto San Giovanni sta infatti arrecando al partito di Bersani è molto serio, e ogni mossa dell’indagato tende ad aggravarlo.
Alla notizia che il gip aveva confermato «l’esistenza di numerosi e gravissimi fatti di corruzione», ma non li aveva considerati «concussione» evitandogli così l’arresto, Penati ha infatti festeggiato con una dichiarazione surreale, come se fosse stato assolto. Poi ieri qualcuno deve averglielo fatto notare, ed è arrivata l’autosospensione dal partito e dal gruppo consiliare alla Regione Lombardia, la procedura standard che si usa nel Pd per evitare l’espulsione. Con essa, la carriera politica dell’uomo che era stato incaricato da Bersani di strappare il Nord a Berlusconi si può considerare praticamente finita.
Stavolta infatti non si può neanche dire «aspettiamo il processo», perché il processo non ci sarà per avvenuta prescrizione. Penati potrebbe certo rinunciare alla decorrenza dei termini, per ottenere un proscioglimento nel merito o la sentenza di assoluzione. Ma ieri, pur dichiarandosi innocente, non ha anticipato niente del genere. È suo diritto, ovviamente, e il garantismo consiste anche nel difendersi dal processo, oltre che nel processo. Però Bersani deve sapere che d’ora in poi l’argomento contro il ricorso alla prescrizione, tante volte rinfacciato a Berlusconi e agli indagati dell’altra parte politica, non potrà mai più essere usato dal Pd. Per un partito che ha obbligato i suoi parlamentari a votare per l’arresto di Tedesco, accusato di fatti meno gravi di quelli contestati a Penati, è un brutto contrappasso.
Ma non è questo l’unico danno che la vicenda arreca al Pd. Il punto cruciale, infatti, è che Penati non può essere trattato come una «mela marcia». Non c’è niente di «marcio» in quest’uomo politico che si è fatto le ossa nella gavetta comunista, prima da sindaco e poi da presidente di Provincia, salendo un po’ alla volta fino a diventare il braccio destro di Bersani, alle cui truppe aveva portato la bandiera dei riformisti lombardi. Penati non commerciava in Rolex falsi e non girava in Ferrari. Se ha preso le mazzette che gli vengono contestate, le ha prese per finanziare la sua ascesa politica e quella dei suoi compagni. Ed è sgradevole che il gip, seguendo una moda ormai invalsa tra i magistrati, infili nella sua sentenza gratuiti commenti da corsivista, scrivendo che si è comportato come un «delinquente matricolato».
Ma è proprio perché Penati non è delinquente matricolato che il Pd è nei guai. Quello emerso a Sesto San Giovanni è infatti un «sistema», anzi un «sistemone» di finanziamento della politica. Non c’è solo Penati. C’è il suo capo di gabinetto, c’è l’assessore della giunta seguente, e per una vicenda minore è indagato anche l’attuale sindaco. Il pm parla di un «direttorio finanziario democratico» in opera da almeno 15 anni, di un vero e proprio «peccato originale». È di quel peccato originale che il vertice del Pd sta ostinatamente evitando di parlare, assumendo un atteggiamento da vergine offesa che le circostanze davvero non giustificano. Se infatti le cose funzionavano così a Sesto San Giovanni, che era un po’ la boutique del governo della sinistra nel Nord, se coinvolgevano le Coop, se proseguivano nell’inquinamento probatorio fino ai giorni nostri, se perfino il successo elettorale a Milano poteva diventare occasione per reiterare il reato tacitando l’imprenditore amico, titolare per altro di una società il cui nome, «Caronte», diceva già tutto; beh, allora vuol dire che si trattava di una pratica radicata, antica ed evidentemente tollerata. Il punto è: quanto è estesa? Troppe fondazioni, troppe correnti, troppi feudi locali nel Pd cercano risorse per vivere, affermarsi e contare a Roma un po’ come ha fatto Penati in questi anni.

Non so se nel Pd ci sono ancora i probiviri come c’erano una volta nel Pci. Ma, se ci sono, Bersani dovrebbe sguinzagliarli in giro per l’Italia, dovrebbe essere lui a promuovere un’inchiesta, a scrutare dentro e dietro i potentati piccoli e grandi che esistono nel suo partito, alcuni dei quali – Penati e le Coop di sicuro – fanno parte integrante della sua constituency personale. Il Pd ha proposto nella «contromanovra» un drastico taglio dei costi della politica. Ma non c’è nessun aspetto della politica italiana che costi più della corruzione. La credibilità di un partito che vuole curare il Paese sta anche nella capacità di curare innanzitutto se stesso. Antonio Polito, Il Correre della Sera, 27 agosto 2011

…….Penati non è l’unico che festeggia una prescrizione come una assoluzione. Fece altrettanto il geom. Giorgio Gaetano detto Nino all’indomani della sentenza della Corte di Cassazione per le lottizzazioni abusive di via Fleming e di via Vinci. Giorgio,  dipinto  dalla Cassazione  come partecipe della “concreta attuazione del disegno criminoso diretto a condizonare la riserva pubblica della programmazione territoriale”, ha beneficiato della prescrizione, proprio come Penati, ma ciò non toglie l’accertata responsabilità per la quale però non deve rispondere,  diversamente da quelli che si erano fidati delle sue rassicurazioni e che ora trepidano, a causa sua e delle macchinazioni poste in essere grazie alla sua carica politica,  per il bene casa per il momento confiscato.  Giorgio si è guasrdato bene  dal  rinunciare alla prescrizione  e con la faccia tosta che è tipica di chi se ne infischia delle regole si atteggia a martire.  Proprio come farà Penati di qui a qualche mese, o anche meno. g.

VIZIATI E STRAPAGATI, I CALCIATORI PROFESSIONISTI MERITANO SOLO UNA PEDATA_: NEL SEDERE!

Pubblicato il 26 agosto, 2011 in Costume, Economia | No Comments »

Calcio Il simbolo dell’ipocrisia? I calciatori. Eto’o, sbarcato in Russia per giocare con una squadra ignota ma ricchissima, ha detto: non vengo per denaro, mi interessa il progetto. Cosa c’è di più interessante di 20 milioni di euro l’anno? Così i calciatori sciopereranno nella prima di campionato non per dei princìpi ma per avidità.  La contesa è su un ipotetico contratto collettivo. Eppure non c’è atleta che non abbia un procuratore, un ufficio legale e un contratto preciso in ogni dettaglio. Stipendio, premi, bonus per lo sfruttamento dell’immagine, diritti. Tutto è precisato e pagato. Ben pagato. Come non dar ragione al presidente Beretta quando dice degli scioperanti in mutande: hanno retribuzioni da amministratore delegato e vorrebbero diritti superiori a quelli degli operai della catena di montaggio. Eppure dicono che non sono i soldi il problema. Ma allora perché non vogliono assicurare che pagheranno il contributo di solidarietà? Il problema in fondo è questo. Inutile che dicano il contrario. Loro quel contributo in realtà non vogliono pagarlo o comunque vogliono trattarlo con le società. Ma quale categoria ridiscute il contratto per il fondo di solidarietà? Nessuna. A chi verrebbe in mente di andare dal proprio datore di lavoro e dire: questo lo paghi tu? Sai che pernacchie riceverebbe. I calciatori no. Questa classe eletta, persone che guadagnano in un anno quello che molti professionisti prendono in una vita, non si vergognano nemmeno un poco. Chiedono e minacciano. Così il presidente della Federazione gioco Calcio, Abete, arriva perfino a proporre un fondo di 20 milioni messo a disposizione per eliminare il contenzioso. L’intenzione di Abete nasce dalla preoccupazione di disinnescare la bomba dello sciopero. Mettendo sul piatto quei soldi sperava di convincere le società di calcio a firmare l’intesa con la garanzia che non correrebbero il rischio di dover mettere mano al bilancio. Bene ha fatto la Lega calcio a dire no. È una questione di giustizia, di decoro. Se il mercato porta dei giocatori di calcio a guadagnare tanto non siamo qui a scandalizzarci, ma le tasse, giuste o ingiuste che siano le paghino come gli altri. Si immergano nella realtà. Così il tentativo di Abete e gli appelli di Petrucci sono caduti nel vuoto. Lo scopo era lodevole, quello di garantire la partenza del campionato. Il gioco del calcio non è solo divertimento, non è soltanto l’argomento preferito di discussione per milioni di italiani. È una vera industria che muove grandi risorse, un meccanismo che coinvolge le tv e la pubblicità. Ma dare garanzie che nessuno altro ha sarebbe stato un pessimo segnale per il Paese. Un precedente pericoloso. Così resta il braccio di ferro. Per disennescarlo basterebbe che i calciatori, senza ambiguità, si facessero carico di pagare di tasca propria il contributo. Se lo facessero darebbero un segnale forte di responsabilità. C’è un altro punto, più tecnico che alimenta la discussione: la possibilità o meno dei dirigenti di allontare dal gruppo qualche atleta. Ma parliamoci chiaro, questo non significa toccare le retribuzioni. Per il sindacato calciatori non si può isolare una persona dai compagni e farlo allenare separatamente. Ma quanto sono sensibili questi signorini. Si fanno fare dei contratti ricchi, se poi non rendono per quello che sono pagati, non fanno sconti. I soldi li vogliono tutti anche se la domenica vanno alla stadio, ma in tribuna. E se invece rendono di più ecco arrivare i procuratori per reclamare una revisione del contratto, e spesso le società devono cedere. Non hanno difese, nemmeno quello di mettere «fuori rosa». Diritti a senso unico. Solo per loro. Per i più ricchi dipendenti del mondo. Altro che attaccati alla maglia come ripetono con retorica. Sono attaccati solo allo stipendio, e che stipendio. Che scioperino pure. Se lo facessero i tifosi di calcio, quelli che pagano questo baraccone, altro che veline e Ferrari. I ragazzi viziati dovrebbero lavorare. Gli farebbe bene. Giuseppe Sanzotta, Il Tempo, 26/08/2011

.…..E come non essere d’accordo con questo articolo e anche, nonostante tutto, con Calderoli quando,  alle minacce di sciopero dei calciatori professionisti che protestano per il contributo di solidarietrà che non vorrebbero pagare, minaccia di raddoppiarglielo. Questi viziati e strapagati tiratori di calci al pallone che approfittano degli enormi vantaggi economici di cui fruiscono per vivere senza rispetto e decoro per i tanti tifosi che per andarli a vedere  giocare sacrificano  talvolta  elementari necessità familiari, non riescono nemmeno a capacitarsi che quando la corda la si tira troppo può spezzarsi…anche per loro. E allora addio a ville megagalattiche, agli alberghi di lusso, alle vacanze dorate, ai festini a base di ostriche e champagne, alle splendide veline di cui amano accerchiarsi. Per cui la smettano di fare gli schizzinosi, paghino le tasse, giochino senza riparmiarsi, altrimenti siano i tifosi a scioperare. Contro di loro. g

IN POLITICA I SESSANTENNI SI SENTONO IL “NUOVO”

Pubblicato il 23 agosto, 2011 in Costume | No Comments »

Molte circostanze congiurano per rende­re attuale il problema della successione a Berlusconi. Lo rendono attuale, nel colmo di una crisi economica gigantesca, i suoi set­tantaquattro anni; lo rende attuale lo stato di salute fisica e mentale dell’indispensabi­le alleato Bossi; lo rende attuale l’agitarsi sul­la scena pubblica di probabili o possibili del­fini. Come Roberto Formigoni o come Luca Cordero di Montezemolo. Che oppongono alla vecchiezza del regnante la loro vigorosa maturità. In realtà proprio ragazzi non sono nemmeno loro, entrambi hanno passato la sessantina. Ma amano presentarsi come la fresca linfa dalla quale la disseccata pianta della politica italiana trarrà alimento e rigoglio.

Tra i giovani che tanto non lo sono, ma che sembrano addirittura bambini nella loro predilezione per le favole, va messo secondo me Nichi Vendola. Incalzano infine i giovanissimi – come Angelino Alfano o come qualche signora ministra – al cui confronto Tremonti è un matusa e il neo guardasigilli Nitto Palma un rottame. Viene così riproposto al Paese un interrogativo cui è tutt’altro che facile dare risposta. Qual è, per un politico che aspiri a impugnare le più importanti leve di comando, l’età giusta?

La schiera dei giovanilisti è sempre agguerrita e aggressiva. Per ragioni di principio ma anche per motivi personali – se i vecchi non si fanno da parte come riusciranno i meno vecchi a far carriera- molti predicano il cambio generazionale, ci vuole aria fresca, dicono, nel Palazzo, solo così gli ammuffiti rituali d’una politica senescente saranno spazzati via. Sono argomenti, questi, che fanno colpo anche su uno, come me, che dovrebbe aborrirli. La tentazione del largo ai giovani è forte. Ma poi, con lo scetticismo di chi la giovinezza l’ha perduta di vista da un pezzo, ricordo alcune cose. Ricordo che Giulio Andreotti fu, nei governi di Alcide De Gasperi, una quasi imberbe promessa; ma forse era in buona sostanza più vecchio lui del suo protettore, il trentino cui fu consegnata l’Italia quando già aveva sessantaquattro anni (una speranza in più per Montezemolo).

È opinione di tantissimi, me compreso, che De Gasperi sia stato, da veterano della politica ma non del potere, il miglior presidente del Consiglio che la Repubblica abbia avuto. Assieme a lui colloco grandi vecchi della democrazia, citando un po’ a caso. Winston Churchill, Konrad Adenauer, Ronald Reagan. E assegnando ad altra e meno meritevole categoria i grandi vecchi dell’autoritarismo Francisco Franco, Mao, Tito, che tuttavia alla vecchiaia non erano arrivati quando s’erano imposti. La difesa delle capacità di giudizio e che l’anziano acquista per esperienza di vita (ma che possono diventare calcificazione mentale) si fonda dunque su eccellenti argomenti. Ma sarebbe stupido negare o sminuire il fascino – mentale e d’aspetto-della giovinezza.Non fu necessario il raggiungere la tarda età perché un Napoleone, un Cavour (e diciamo pure anche un Mussolini, dotato d’un innegabile carisma e capace di mettere nel sacco l’esperto Giolitti)irrompessero prepotentemente sulla scena. Anche in tempi recenti si sono visti i decolli di esordienti di talento. Come l’ex premier britannico Tony Blair e come l’attuale David Cameron. E poi le speranze deluse, Luis Zapatero in Spagna e Barack Obama negli Stati Uniti.

Sarà una mia maligna sensazione siamo sempre severi verso i contemporanei- , ma non mi pare che gli enfant prodige pullulino nelle camere e nelle anticamere romane. Lo so, i vecchi sono abbarbicati alle poltrone più che l’edera, ma i nuovi virgulti danno anche loro l’impressione di pensare a quello: a una poltroncina o poltronciona cui siano correlati indennità e privilegi vari. La mia conclusione, per quanto riguarda l’anagrafe, è che non contino tanto gli anni quanto le idee, i progetti e la capacità di realizzarli. Ci sono cretini o lestofanti ventenni che tali rimangono strenuamente fino alla soglia della tomba, e onesti servitori dello Stato immuni da tentazioni venali e da manovrette carrieristiche.

Il dramma d’oggi sta a mio avviso nel discredito da cui sono avvolti gli eletti dal popolo. È possibile, anzi è probabile, che tra loro ci siano intelligenze notevoli e doti di carattere ammirevoli. Ma rimangono poco visibili, sono sommerse da un giudizio sommario che nega la sufficienza all’intera dirigenza politica, senza distinzioni di colore. Il recupero dell’economia è arduo, ma non quanto il recupero del prestigio che una classe politica dovrebbe avere e che ha perduto. Il Giornale, 23 agosto 2011.

.…….Ciò che scrive Cervi, che di anni ne ha ben più di Berlusconi, vale per qualunque categoria e mestiere, non solo per la politica. L’essere giovani o vecchi è solo un dato anagrafico, essere bravi o sciocchi, innovatori o conservatori, onesti o lestofanti, nulla ha a che vedere con l’età, semmai con il carattere di ciascuno, la sua formazione, la sua indole. A proposito di  vecchi e di vecchiaia ci piace ricordare ciò che ne disse Hemynguay in un suo romanzo:”non si è vecchi sino a quando i rimpianti non prendono il posto delle speranze”. Ci sono “giovani” che rimpiangono quel che non è stato prima ancora di nutrire speranze per quel che può essere. E ci sono “vecchi” che pur “vivendo come se dovessero morire subito, pensano come se non dovessero morire mai”. Fra i primi e i secondi preferiamo i secondi. g.

TRIPOLI E’ CADUTA, GHEDDAFI NO

Pubblicato il 23 agosto, 2011 in Politica estera | No Comments »

Muammar Gheddafi Sei mesi di campagna militare da dimenticare ci consegnano (forse) una Libia liberata da Gheddafi, ma non libera dagli errori del colonialismo, gli orrori del colonnello, le stupidaggini di Grandi Nazioni che continuano ad essere piccole.
Gheddafi ha rappresentato per quel Paese – che prima di lui Paese non era – la soluzione dei mille conflitti tribali. Non voglio qui ripercorrere la vita di Muammar, cosa che fa con la sapienza dello storico il nostro Francesco Perfetti, ma la storia della Libia e della caduta del suo uomo-simbolo mi offrono lo spunto per affrontare, ancora una volta, uno dei temi che dovrebbe far parte dell’arsenale di idee dell’Occidente: la democrazia e la sua diffusione nel mondo.
Quando nel febbraio di quest’anno decisi di titolare la prima pagina de Il Tempo «Liberiamo Tripoli» pensavo di aprire un dibattito sul modo in cui i governi democratici si confrontano con i tiranni. Una cosa è la realpolitik, alla quale non mi stanco mai di far riferimento, un’altra è continuare a chiudere gli occhi di fronte agli orrori che si perpetrano in nome del potere personale senza muovere un dito e continuando pure a far finta che l’organizzazione delle Nazioni Unite, l’Onu, sia un club dove tutti sono gentiluomini. Il colonnello libico in quel club non era neppure il peggiore. Pensate solo a quel macellaio di Assad che in Siria ha schierato i carri armati contro i civili. Ha ucciso migliaia di persone negli ultimi anni e sta ancora al potere. Come lui tanti altri. Continua a farmi impressione vedere il presidente iraniano Ahmadinejad prendere la parola nel Palazzo di Vetro e dire chiaramente che Israele deve morire. Non voglio fare l’elenco delle satrapie mediorientali, non voglio sollevare qui il mai risolto problema dell’indipendenza del Tibet e dei diritti umani in Cina. Sono un realista, ma fino a un certo punto. Perché se si smette di pensare che la libertà non possa essere diffusa, allora ha poco senso vivere.
Per questo non ho mai esitato un minuto: Gheddafi doveva cadere e non per consunzione naturale, ma con il suono delle armi. Le rivoluzioni non si fanno con i fiori, quelle sono invenzioni buoniste che vanno bene per spalmare la Nutella non per fare politica estera. E qui veniamo al nocciolo centrale della faccenda: l’Europa, un’opera incompiuta che si sta disfacendo anche perché non ha un sistema comune di difesa (e offesa). La campagna militare in Libia è quanto di più sgangherato si sia visto nei manuali militari. Quando la guida dell’operazione è passata dal triangolo Stati Uniti-Francia-Inghilterra alla Nato il risultato è stato un fiasco. Contro un esercito quasi inesistente, un’aviazione che non volava e un sistema missilistico le cui qualità balistiche sono ricordate dalla pizzeria «Il missile di Lampedusa», bastava un mese di operazioni aeronavali e uno sbarco a terra di un gruppo speciale. Per ipocrisia si è scelta un’altra strada: finanziare gli insorti di Bengasi fornendo loro anche le armi e il supporto aereo per creare una bugia colossale, la rivoluzione libica contro il rivoluzionario per eccellenza, Gheddafi.
Così i cirenaici potranno rivendicare il loro primato sulla Tripolitania, in quanto rivoluzionari, e le tribù, che da sempre decidono i destini della Libia, saranno ancora una volta il fattore chiave di una partita post bellica ancora tutta da scrivere. Dal punto di vista militare la guerretta libica ci insegna che l’Europa non sa fare la guerra e senza gli americani è meglio che si dedichi ad altro. Quanto all’Italia avevamo cominciato malissimo, sostenendo uno zombie, cioè Gheddafi, la cui fine era segnata. Abbiamo poi deciso di usare le basi e far decollare i Tornado con un comico avviso: non sparano. In realtà in questa campagna abbiamo quasi finito le bombe, che poi siano andate a segno è tutto da vedere. Dal punto di vista politico l’Italia resta il Paese che ha più chances di tutti, i francesi e gli inglesi sono odiati ben più degli italiani, la bandiera di Sarkozy può sventolare a Bengasi non a Tripoli. E la nostra collaborazione con Gheddafi è esattamente pari a quella di tutto l’Occidente che con il colonnello faceva affari.

Più passa il tempo e più le idee dei neoconservatori americani, quelle del gruppo dei Vulcans, che sostenevano la politica estera di George W. Bush mi sembrano corrette: i massacri dei tiranni a un certo punto devono finire e chi desidera la libertà deve essere aiutato a trovarla. Non so se questo sia esportare la democrazia, ma certamente è sostenere l’idea di una società più giusta dove la libertà non è solo per pochi eletti, e l’Occidente può tutte le mattine svegliarsi e guardarsi allo specchio senza vergogna.  Mario Sechi, Il Tempo, 23/08/2011

……L’editoriale di Sechi è a cavallo della notizia che i figli di Gheddafi, dati per arrestati, sono più liberi che mai e che gli annunci sul loro arresto rappresentano la metafora del titolo dell’editoriale di Sechi: Tripoli è caduta, ma Gheddafi no! La verità è che la sgangherata guerra contro Gheddafi,  lanciata da Francia e Germania per motivi distanti quanto la Luna da quelli umanitari,  è lungi dall’essere conclusa e comunque non è certo che al termine si innalzerà su Tripoli  la bandiera della democrazia, mentre, come ricorda Sechi, in tante altre parti del mondo, sotto gli occhi strabici di un occidente a fasi alternate,  altri regimi autoritari e sanguinari reprimono nel sangue l’anelito alla libertà e alla democrazia dei loro popoli. La Siria e l’Iran ne sono i più squallidi esempi e per i loro capi, responsabili di genocidi accertati e di minacce di genocidio pronunciate nei luoghi consacrati al rispetto dei diritti dei popoli, non c’è nessun Tribunale speciale (dell’Aia) che intervenga, nella consacrata quanto avvilente abitudine di attenderne la caduta per denunciarne gli orrori. E se non cadono mai? g.

GERMANIA INGRATA, MERKEL SENZA MEMORIA

Pubblicato il 22 agosto, 2011 in Economia, Politica | No Comments »

Il canceliere tedesco Merkel Ogni studente di economia sa che la Germania ha tra i fondamenti della costituzione la stabilità monetaria e la lotta all’inflazione. Frutto, anche questo è noto, della svalutazione a sei cifre del marco durante la repubblica di Weimar.  Il più studiato è l’articolo 115, che afferma: «Le entrate provenienti dal credito non possono superare la somma delle spese previste nel bilancio per gli investimenti». Vincolo esteso allo statuto della Bundesbank, la banca federale, e da essa imposto all’Europa prima con i parametri di Maastricht (dove il tetto all’inflazione di ogni paese è fissato al 3 per cento, pena sanzioni economiche), poi alla Bce, che continua a fissare la propria bussola sul contenimento dei prezzi prima ancora che sullo sviluppo. Difatti mentre le altre banche centrali dell’Occidente continuano a tenere i tassi a zero, l’Eurotower di Francoforte li ha già riportati all’1,5 per cento, con minaccia di ulteriori rialzi. E ora Angela Merkel, cui si è accodato Nicolas Sarkozy, chiede a tutta l’Europa di adottare il pareggio costituzionale di bilancio e pesanti manovre di austerity. Non solo. Sul Sole 24 Ore l’economista Luigi Zingales ha ricordato come per convincere i tedeschi ad abbandonare il marco a favore dell’euro il governo di Berlino pretese due condizioni: «1) La Banca centrale europea sarà altrettanto brava della Bundesbank nel tenere l’inflazione sotto controllo; 2) la Germania non dovrà mai intervenire per salvare altri paesi». Ed è appellandosi a queste condizioni giugulatorie che Angela Merkel insiste nei suoi «nein»: no al decollo del piano di salvataggio della Grecia, benché sia passato oltre un anno; no agli eurobond; no a qualsiasi altra cosa possa urtare la sensibilità finanziaria dei contribuenti-elettori di là dal Reno. Giusto? Forse: se la Germania avesse a sua volta la coscienza a posto in fatto di dare e avere. Ma se guardiamo alla storia, da quella tragica della Seconda guerra mondiale, a tutti gli anni Cinquanta e Sessanta, agli anni più recenti della caduta del Muro di Berlino, e fino ai giorni d’oggi, scopriamo che non è proprio così. La Germania ha avuto dal mondo, Occidente in particolare, molto più di ciò che ha dato e di quel che pretende adesso. E di questo non c’è traccia né nella sua Costituzione né tantomeno nella sua «constituency», quel codice magari non scritto che è alla base della condotta e delle tradizioni dei paesi avanzati. Non parliamo dei sei milioni di morti che la follia hitleriana causò nei campi di sterminio: non è il caso di far ricadere su figli e nipoti le colpe dei padri o dei nonni. Si può però far riferimento al costo economico della Seconda guerra mondiale, che certamente ebbe nella Germania la sua causa: di recente il Congressional research service americano lo ha quantificato in 5 trilioni di dollari senza tener conto dell’inflazione. Si tratta cioè di 5 mila miliardi di dollari che aggiornata ai giorni nostri è pari, grosso modo, a metà del Pil mondiale di 74 mila miliardi. Sconfitto il nazismo, gli americani vararono poi il piano Marshall da 22 miliardi di dollari che permise all’Europa sconfitta, tedeschi su tutti, di rimettersi in piedi mentre dall’altra parte si alzava la cortina di ferro. Non tutto filò liscio: la Francia chiese che la Germania fosse esclusa dagli aiuti proprio per la sua responsabilità nella guerra. Alla fine il presidente Usa, Harry Truman, si impuntò, fece digerire il piano all’opinione pubblica americana – non meno insensibile al portafoglio di quella tedesca di oggi – e altrettanto fecero inglesi, canadesi, australiani, svizzeri, norvegesi, svedesi, perfino spagnoli. La Germania ebbe 1,5 miliardi di dollari di aiuti, più dell’Italia, un po’ meno della Francia. Ma a questo sussidio d’emergenza che terminò nel 1951 si aggiunsero i costi per l’Occidente (Usa, Francia e Gran Bretagna) dell’occupazione di Berlino e della tutela della Germania Ovest. Il solo ponte aereo con cui gli americani scongiurarono che i berlinesi morissero di fame e freddo per il blocco imposto nel 1948 da Stalin fu un regalo tanto generoso quanto gigantesco: ogni tonnellata di carbone venduta a Berlino al prezzo politico di 21 dollari, ne costava 150 agli Stati Uniti. Alla fine le tonnellate furono 1,5 milioni, mentre quelle di cibo raggiunsero i 2,4 milioni. La più grande e costosa operazione umanitaria della storia. Non è tutto. L’ombrello militare occidentale e americano permise ai tedeschi di dedicarsi in tutta tranquillità al proprio boom economico. Nessuno ha mai calcolato quanto sarebbe costato alla Germania difendersi da sola contro le mire sovietiche, e del resto l’interesse strategico era anche degli Usa. Si sa però che la spesa militare cumulata è la causa principale dei 14.400 miliardi di dollari di debito pubblico Usa, che ha provocato il downgrading di Standard & Poor’s e innescato buona parte dell’attuale rischio di recessione globale. Ma anche i tedeschi ci hanno messo del loro. La riunificazione del 3 ottobre 1990, dopo un anno dal crollo del Muro, è giustamente considerato un capolavoro strategico e di lungimiranza del governo allora guidato da Helmut Kohl. Il suo costo è stato però stimato dalla Freie Universitat Berlin in 1.500 miliardi di euro dell’epoca, una cifra allora superiore al debito pubblico tedesco che adesso sfiora i 2.100 miliardi. La parità tra marco occidentale e orientale, voluta per motivi politici, si tradusse in un crollo di competitività dell’industria tedesca, che a sua volta provocò una recessione che dalla Germania si estese a tutta Europa, Italia compresa. A tutt’oggi Berlino eroga ai territori della ex Germania Est un trasferimento speciale di 100 miliardi di euro l’anno in conto «ricostruzione»: il doppio dei sacrifici imposti in questi giorni all’Italia. E siamo ai giorni nostri. La Merkel sostiene che il salvataggio dei paesi europei a rischio si risolve con il rigore e non può essere pagato dai contribuenti tedeschi. Tanto che le rigorosissime banche di Francoforte, tipo la Deutsche Bank, hanno venduto a piene mani Btp italiani. Bene: ma qual è l’esposizione di queste banche teutoniche nei paesi maggiormente a rischio e declassati dalle agenzie di rating? Secondo la Bri, la Banca dei regolamenti internazionali, si tratta di 65,4 miliardi di dollari verso la Grecia, 186,4 verso l’Irlanda, 44,3 verso il Portogallo, 216,6 verso la Spagna. Totale, 512,7 miliardi che il sistema finanziario tedesco ha «investito» nei Pigs. Cifra che si confronta con i 410 miliardi delle banche francesi, i 370 di quelle inglesi, i 76 di quelle italiane. Il risultato è che tra le dieci banche europee che fanno più ricorso alla famigerata leva finanziaria (che cioè contabilizzano maggiori crediti e capitale speculativo in rapporto al patrimonio) ben quattro sono tedesche: la Commerzbank, che occupa la prima posizione assoluta con una leva del 76,91 per cento, e poi la Berlin Landesbank, la Deutsche e la Deutsche Postban. Nessuna banca italiana figura in questa top ten. Nessun altro paese vede esposto il proprio sistema creditizio quanto la Germania. A questo punto la domanda è ovvia. Il rigore – giusto, per carità, e tanto più in un paese indebitato come l’Italia – imposto all’Europa dalla Cancelleria e dalla Bundesbank, serve a salvare gli stati o le banche? Soprattutto quelle di Francoforte e dintorni? Curiosità ancora più legittima se andiamo a guardare chi in questi mesi ha fatto più ricorso ai crediti della Bce. Ebbene, tra marzo e giugno 2011 il Tesoro e le banche tedesche hanno bussato alla porta dell’Eurotower per 247 miliardi di dollari, la Francia per 79, l’Italia per 149, la Spagna per 197. Soltanto a luglio l’Italia con altri 80 miliardi, ha portano il nostro conto a quota 229: ancora meno, comunque, della Germania. Insomma: mentre i rappresentanti tedeschi nel board della Banca centrale si opponevano al soccorso ai nostri Btp, salvo pretendere condizioni durissime, Berlino e Francoforte ottenevano crediti in abbondanza. D’accordo, loro hanno la tripla A: ma forse premia più la finanza che la riconoscenza, o la memoria. Marlowe, Il Tempo, 22 agosto 2011

…………..La riconoscenza, per gli uomini, si dice che sia l’attesa di nuovi favori. E’ ovvio ( e accade sempre e ovunque…)  che quando l’attesa è improduttiva, cessa la riconoscenza. La Germania non è diversa dagli uomini per cui non aspettandosi nuovi favori dopo  i tanti che ha ricevuto,  non ha ragione di essere riconoscente nè di doverlo ricordare. Però, non si sa mai….

IN ITALIA SI PAGANO TASSE SULLE TASSE

Pubblicato il 21 agosto, 2011 in Economia, Politica | No Comments »

Secondo le stime ufficiali gli italiani pagano 107 imposte. Ma un libro di Giuseppe Bortolussi (Cgia di Mestre) ci svela che sono tantissimi i balzelli che non si conoscono. Grazie ai quali lo Stato incassa più soldi di Berlino. Usandoli peggio

Il tributo che non ti aspetti: traditi dalle tasse sulle tasse
Libero-news.it

T

utti a dire che le tasse sono troppe, ma in troppi ignorano che si paga anche un’incredibile quantità di imposte nascoste: dai fondi pensione al project financing (con cui si finanziano due volte le opere pubbliche, in pratica) e dalle «tasse sulle tasse» (tipo l’Iva sulle accise della benzina) a quelle che cambiano nome ma non la sostanza. Bene, c’è un libro completo e didascalico (“Tassati e mazziati”,  di Giuseppe Bortolussi, Sperling & Kupfer) che smonta i falsi miti sulla fiscalità italiana e spiega le ricadute concrete sulle tasche di cittadini e imprese.

Ma è difficile da riassumere. Si comincia dai fondamentali, che pure, messi in fila, non smettono di impressionare: il 51 per cento del nostro reddito lordo è prelevato dal fisco, e tende notoriamente ad aumentare. In proporzione al reddito, le tasse che paghiamo sono più elevate di quelle dei tedeschi (i nostri tributi sono superiori di almeno 5 punti percentuali) il che significa che lo Stato italiano incassa più soldi di quello tedesco per erogare dei servizi: ma, quando li eroga, sono nettamente inferiori. Questo è possibile perché da noi si pagano tasse anche sconosciute che nascono da incomprensibili meccanismi di rilievo, e che ci lasciano mazziati perché i servizi scadenti che appunto riceviamo dallo Stato ci costringono a rivolgerci ai privati.

FALSI OBIETTIVI
È  d’uopo incolpare l’elevato debito pubblico, ma in realtà, anche considerando gli interessi sul debito, al nostro Paese rimarrebbe in cassa un surplus di risorse più che sufficienti per garantire buoni servizi: ma non è quello che accade. È  d’uopo incolpare anche l’evasione fiscale: se tutti pagassero – si dice – tutto sarebbe diverso. Cifre alla mano, il libro di Bortolussi dimostra che neppure quello è il punto: lo Stato italiano, anche senza i soldi dell’evasione fiscale, ogni anno incassa molti più soldi della Germania. Lo Stato non riesce a spendere bene i suoi soldi: il punto resta questo, lapalissiano ma imprescindibile.

Comprendere tutte le tasse che si pagano è davvero difficile, e questo articolo non riuscirà a riassumere quanto il libro condensa in 174 pagine zeppe di dati e di tabelle. Siamo soliti guardare solo al reddito netto, in Italia, proprio perché inconsapevoli di quanto realmente versiamo. Il cittadino medio ha in mente l’Irpef e, se ben informato, le addizionali Irpef comunali e regionali.  Pochi, tuttavia, considerano anche l’Iva e le accise che si accollano regolarmente con la spesa quotidiana: e quella la pagano tutti – studenti e pensionati – a tutte le ore della giornata. Basta usare un rasoio elettrico, farsi un caffè, usare acqua ed energia e gas, consumare benzina, comprare un whisky.

Giulio Tremonti, nel suo libro bianco del 1994, scrisse che le tasse erano almeno 100, e, di queste, 14 erano tributi sulla casa e 9 sull’auto. Ma secondo l’Istat (dati pubblicati nel giugno 2010, periodo 1980-2009) le forme di prelievo sono almeno 107, e non sono comprese, attenzione, quelle che riguardano servizi specifici come la tassa sui rifiuti. Sono però comprese le tasse che riguardano singoli eventi, tipo la maledetta Irap (Importa Regionale sulle Attività Produttive) o le tasse sul registro, l’ipotecaria, la catastale, quelle insomma più – si fa per dire – eccezionali. Nei fatti, le imposte sono corrisposte a 657 miliardi (nel 2009) a fronte di un reddito lordo nazionale di 1.521 miliardi, dato ingannevole ma che corrisponde comunque a un 43 per cento di pressione fiscale.

Perché ingannevole? Perché ci sono (prendete respiro) anche i contributi previdenziali, il contributo al Servizio sanitario, il premio Inail alle casalinghe, le citate addizionali Irpef comunali e regionali, l’Iva, la  Tia-Tarsu sui rifiuti, il bollo auto, le accise varie, l’imposta sulle assicurazioni, il canone Rai, l’addizionale comunale sull’energia elettrica, quella regionale sul gas, e ancora le ritenute d’imposta sugli interessi attivi.

DETTAGLI DIABOLICI
Il diavolo è nei dettagli, troppi dettagli. Solo i balzelli che gravano sulla casa producono un bottino che si aggira attorno ai 43 miliardi (ripartiti tra Stato, comuni, province e regioni) ma poi ci sono tasse varie su acqua, gas, energia elettrica e metratura della casa stessa: roba che può costare 300 euro annui a un single e oltre 500 a una famiglia.

E l’auto? Lo Stato finge di adirarsi per gli aumenti delle assicurazioni, ma gli incrementi dei premi convengono anche al fisco: che si becca oltre il 18 per cento del premio versato, anche se il bottino vero, com’è noto, è nei carburanti.
E qui arriviamo alle famigerate tasse sulle tasse, un rompicapo. Qualche esempio. Bollette del gas o dell’elettricità: l’Iva è calcolata sulle accise. Tassa sui rifiuti: in alcuni comuni si paga la tassa «ex Eca» sulla Tarsu, che è un’altra tassa; in altri comuni si paga l’Iva sulla Tia, che è una tariffa. Poi c’è l’Iva sul prezzo dei carburanti, che è calcolata sul valore delle accise. Ragione per cui l’aumento del prezzo della benzina, allo Stato, conviene e basta. E sarà un caso che la benzina, da noi, costa più che altrove. Tutto chiaro? No, ovviamente.

Le famigerate accise, comunque, vengono calcolate sulle quantità consumate (litro, chilo) e lo Stato le ha sempre utilizzate per fare cassa in momenti di emergenza: passata l’emergenza, però, l’accisa restava. Così abbiamo, a rendere occulta la tassazione della benzina, 1,90 lire per la guerra di Abissinia del 1935, 14 lire per la crisi di Suez del 1956, 10 lire per il disastro del Vajont del 1963, 10 lire per l’alluvione di Firenze del 1966, 10 per il Belice, 99 per il Friuli, 75 per l’Irpinia, 205 per la missione in Libano del 1983, 22 per quella in Bosnia, 39 lire per il contratto dei ferrovieri: fanno 0,25 euro a cui vanno aggiunti i ritocchi recentissimi per finanziare il Fondo unico per lo spettacolo (Fus) e per cancellare la contestata tassa di 1 euro sul biglietto del cinema, più un altro ritocco applicato dalle compagnie petrolifere per «fronteggiare lo stato di emergenza umanitaria determinato dall’eccezionale afflusso di cittadini appartenenti a Paesi del Nord Africa». Una cosa umanitaria.

LIBERAZIONE FISCALE
Questo, e altro, determina che in Italia il «giorno di liberazione fiscale» sia i primi di maggio per un operaio e a fine giugno per un impiegato. Per quanto riguarda le imposte e i contributi e le tasse di cui sono debitori i lavoratori autonomi, invece, il libro di Bortolussi ne elenca 26, e non abbiamo voglia di ricopiarle. Se già è difficile conoscerle tutte, figurarsi il comprendere se si paghi il giusto. Ci sono tasse che si pagano perché lo stipendio aumenta: ma nel caso non siamo più ricchi, perché con più soldi, causa inflazione, spesso riusciamo a comprare le stesse cose di prima. Ci sono tasse che siamo costretti a pagare – come in questo periodo – per calmierare un deficit di cui magari non abbiamo colpa. E ci sono tasse per finanziare servizi di cui non fruiamo perché, complice l’inefficienza, preferiamo o siamo costretti a rivolgersi al privato: dai trasporti alla sanità (dentisti compresi) e dalle poste alla sicurezza, dagli asili alle scuole: senza contare i soldi che diamo al Vaticano e alle strutture cattoliche. Neppure il sistema giudiziario funziona, si sa: le aziende perciò si rivolgono sempre più spesso ad arbitrati privati o a camere di conciliazione.

A proposito di servizi pagati due volte: il libro si sofferma in particolare sul trucco del project financing, ossia il coinvolgimento di partner privati nella realizzazione di un’opera pubblica; si parla di autostrade, gallerie, ospedali, teatri, ponti di Messina, tutta roba che ovviamente prevedono la possibilità che gli stessi privati recuperino l’investimento e facciano quindi pagare (spesso strapagare) servizi e pedaggi. Il project financing però si concentra soprattutto nelle regioni dove già si pagano le tasse più salate, sicché i costi aggiuntivi – che ripagheranno la parte privata – alla fine gravano sulle nostre tasche come sempre. Ecco perché il costo medio per chilometro nelle tratte per esempio del passante di Mestre (finanziato da privati) è praticamente doppio rispetto ad altre tratte autostradali paragonabili.

Anche il moloch dell’evasione fiscale, secondo Bertolussi, è un problema, ma non è il vero problema. Secondo l’Istat la ricchezza che sfugge alle tasse è racchiusa tra il 16 e il 17 per cento del Pil: anche per questo la pressione fiscale, sugli onesti, arriva al 51 per cento. Ma sono loro, appunto, le vere vittime: se lo Stato restituisse loro tutti i soldi evasi, ogni anno, gli onesti avrebbero indietro almeno 2000 euro. Da immaginarsi se lo Stato utilizzasse i soldi recuperati per altra spesa pubblica: saremmo alla follia definitiva. Morale: l’evasione fiscale è un male orrendo, ma altri e più gravi mali dell’Italia sono i medesimi che la rendono poco attrattiva per gli investimenti esteri: i costi burocratici, i tempi della giustizia, le carenze infrastrutturali, tutto ciò che il denaro incamerato dallo Stato, cioè, non ha trasformato in un Paese moderno. Filippo Facci.

L’ESTREMA UNZIONE A ZAPATERO

Pubblicato il 21 agosto, 2011 in Cronaca | No Comments »

Papa Ratzinger ha dato l’estrema unzione al governo di Luis Zapa­tero forse alla sua ultima comparsa pubblica. La Spagna di Zap ha perso la vitalità dei decenni precedenti e ha saputo solo rompere con la sua storia e la sua indole, i suoi legami civili, reli­giosi, nazionali e popolari. La Spagna olandesina di oggi cede il passo alla Spagna di ieri e di domani. La parabo­la di Zapatero è il succo concentrato della sinistra europea e atlantica. Co­me Obama, Zap ha goduto di consen­si e appoggi mediatici e internaziona­li enormi, ma ha tradito pure le spe­ranze della sinistra.

In quasi tutta Eu­ropa la­sinistra al governo non ha pro­mosso giustizia sociale, tutela dei più deboli, vera accoglienza, primato del­l­a politica sull’economia e della socie­tà sulle oligarchie, ma è stata anzi la guardia del corpo di quel sistema, in versione politically correct . In com­penso ha contribuito a spezzare i le­gami che tengono unita una società: la famiglia, le nascite, il senso religio­so, nazionale e naturale, le tradizio­ni, i limiti e i sacrifici.

Da decenni op­pone figli a padri, donne a maschi, gay a etero, ambiente a gente, islami­ci a cristiani, immigrati a compatrio­ti, vite e morti artificiali a vite e morti naturali. Dell’emancipazione ha col­­to il lato conflittuale, figlia com’è del­la lotta di classe. Una pseudo-destra sbracata l’ha seguita a ruota, crescen­do sulle sue devastazioni. Ora che urge un rinato legame so­ciale per fronteggiare la crisi non sa dove andarlo a prendere. O va a costi­tuirsi col rosario al meeting di Cl con il benemerito Napolitano. Marcello Veneziani

…………….Si concluderà questo pomeriggio il viaggio in Spagna di Benedetto XVI in occasione della terza Giornata Mondiale della Gioventù. Questa notte, nonostante il nubifragio che ha investito Madrid, 2 milioni di giovani (secondo stime dei mass media spagnoli), provenienti da ogni parte del mondo, hanno partecipato alla veglia insieme al Pontefice che è rimasto sul palco in attesa che il nubifragio terminasse e la veglia riprendesse in una atmosfera da stadio e di straordinario fervore dei giovani verso il Papa che ha commosso tutti per il sorriso che ha conquistato tutti. Oggi pomeriggio, dopo la Santa Messa che sarà celebrata nei pressi dell’aerfporto di Madrid, il Papa, salutato dai reali iberici, farà ritorno a Roma dove si prevede che gfiunga intorno alle 21.

MANOVRA: NELLA MAGGIORANZA SI VA VERSO L’AUMENTO DELL’IVA E SI TRATTA SULLE PENSIONI

Pubblicato il 21 agosto, 2011 in Economia, Politica | No Comments »

Verso un aumento dell’Iva di un punto, sempre che si superino le perplessità del ministro dell’Economia, contributo di solidarietà inevitabile anche se maldigerito da tutti; pensioni appese alle trattative, che andranno avanti fino all’ultimo minuto utile. A due giorni dall’inizio dell’esame del decreto al Senato e nonostante il fine settimana agostano, il borsino degli emendamenti alla manovra è in piena attività. Tanto che di certezze sulle modifiche al provvedimento che porterà il bilancio in pareggio nel 2013, ancora non ce ne sono.

Non sono mancati contatti e pressioni tra gli schieramenti all’interno della maggioranza, tanto che il ministro Roberto Calderoli, ha cercato di mettere uno stop, accusando parte del Pd e anche della Lega, di fare il gioco dei «poteri forti».

A pesare, per il vertice del Carroccio, è ancora il capitolo pensioni, sul quale i liberali del Pdl non intendono mollare. Ieri anche il capogruppo alla Camera Fabrizio Cicchitto, ha segnalato «l’assenza di riforme strutturali» sulla previdenza, come uno dei punti migliorabili del decreto. Su questo fronte restano per interventi radicali l’udc Pier Ferdinando Casini e soprattutto Confindustria. La presidente Emma Marcegaglia è tornata a chiedere misure forti sulla previdenza e la cancellazione del contributo di solidarietà, cioè l’imposta aggiuntiva per i redditi sopra i 90 mila euro.
Ma sulle pensioni la partita è politica ed esclusivamente di vertice, in mano, insomma, al premier Silvio Berlusconi e al leader della Lega Nord Umberto Bossi.

Le ipotesi di intervento sono varie, dalle più morbide (l’anticipo di un anno di «quota 97» requisito che somma età anagrafica e contributiva, che a normativa vigente scatterà nel 2013) a una graduale cancellazione delle anzianità. E poi l’accelerazione dell’aumento dell’età della pensione di vecchiaia per le donne del privato. Se il premier e il leader del Carroccio troveranno un compromesso, sarà comunque su una formula meno drastica rispetto a quelle circolate in questi giorni. Delle forzature, soprattutto sulle donne, vedrebbero l’opposizione dei sindacati, che in occasione di questa manovra si sono di nuovo divisi sull’atteggiamento da tenere verso il governo.
La Cgil farà lo sciopero generale mentre Cisl e Uil considerano l’astensione dal lavoro dannosa per il Paese e i lavoratori. Ieri la segreteria guidata da Susanna Camusso ha cercato di ricucire con le altre due confederazione attraverso una lettera aperta nella quale conferma la «ferma volontà di un’azione comune», nonostante lo sciopero generale.

Il segretario della Cisl Raffaele Bonanni propone come alternativa una protesta da tenere la sera o il sabato, in modo da non incidere sulle buste paga. Non boccia il decreto in toto, ma fa proposte, come l’aumento di un punto percentuale dell’Iva.
Tra tutte le proposte, quella di un aumento dell’imposta indiretta, è proprio quella che ha più possibilità di passare. Ieri l’hanno chiesta, sul fronte della politica, anche il pdl Claudio Scajola e il governatore della Campania Stefano Caldoro.
Ma restano le perplessità di Giulio Tremonti. Il ministro dell’Economia teme che il ritocco all’imposta scateni speculazioni e aumenti di prezzo ingiustificati come quelli che si verificarono con l’entrata in vigore dell’euro.
Stabili, nel borsino degli emendamenti, le quotazioni del contributo di solidarietà, sia pure con delle correzioni come quella pro famiglia proposta dal sottosegretario Carlo Giovanardi. Tutta da giocare, quella che riguarda i tagli ai trasferimenti agli enti locali, che sarà l’oggetto del vertice della Lega Nord in programma per domani. Partita che è ancora legata ad uno scambio con la riforma della previdenza, anche se la Lega cercherà di alleggerire gli enti locali, anche grazie all’aumento dell’Iva.
Resta in lista la vendita degli immobili pubblici e un’accelerazione sulle privatizzazioni, anche se le dismissioni danno entrate una tantum, che non possono essere utilizzate per rimpiazzare misure strutturali, come il contributo di solidarietà. Il Giornale, 21 agosto 2011

20 AGOSTO 1968: I CARRI ARMATI SOVIETICI SPENSERO NEL SANGUE LA “PRIMAVERA” DI PRAGA.

Pubblicato il 20 agosto, 2011 in Il territorio, Storia | No Comments »

Era il 20 agosto del 1968, 43 anni fa,  quando le truppe sovietiche e dei paesi del patto Varsavia (ad eccezione della Romania)invadevano Praga. La Cecoslovacchia dal gennaio dello stesso anno aveva inaugurato, nell’ambito del Partito Comunista, un “Socialismo dal volto umano”. Alexander Dubček era stato il maggiore fautore del rinnovamento, che consisteva in una nuova politica non sganciata da Mosca ma con maggiori libertà, quali la creazione di partiti di opposizione e introduzione della libertà di stampa.
I dirigenti sovietici intravidero nella primavera di Praga una minaccia per il regime comunista e per il patto di Varsavia, temettero un “contagio” in campo socialista. Dubcek tentò di rassicurare i sovietici, evidentemente non ci riuscì, se la notte tra il 20 e il 21 agosto del 1968 le truppe del Patto di Varsavia invasero la Cecoslovacchia.
Dubček era in una riunione del Partito Comunista Cecoslovacco, quando il premier Cernik fu avvisato dell’invasione. Era un “tipico giorno estivo, – scrive Dubček nella sua autobiografia – caldo, con un sole velato. Praga era piena di turisti, intere famiglie passeggiavano o sedevano nei parchi. La città, anzi l’intero paese era tranquillo…era impossibile pensare che nel giro di poche ore i carri armati sovietici ci avrebbero assalito”.
Per protestare contro l’invasione sovietica alcuni studenti universitari decisero di immolarsi appiccandosi il fuoco dopo essersi cosparsi di benzina. Si sacrificarono estraendo a sorte l’ordine secondo cui avrebbero dovuto immolare le loro vite. Il primo ad appiccarsi il fuoco fu Jan Palach, studente di Filosofia di 21 anni. Era il 25 gennaio 1969. Per non dimenticare. g.

QUESTO GOVERNO E’ CONTRO IL CETO MEDIO

Pubblicato il 20 agosto, 2011 in Economia, Politica | No Comments »

Assalto alla borghesia. Furto senza destrezza nei confronti del ceto medio. Questo è, in parole povere, il succo delle manovre economiche adottate negli ultimi tempi da un governo che si autodefinisce di centrodestra ma che opera come un governo di centrosinistra, se non, pure, di sinistra tout-court. L’assalto alla borghesia, la rapina cioè del ceto medio produttivo – ché di rapina, di vera rapina, si tratta – è la conseguenza di una scelta culturale prima che politica. È il risultato di una mentalità socialista e statalista, che ha sempre guardato con sufficienza, se non proprio con occhio malevolo, l’iniziativa privata, soprattutto quella espressa dalla laboriosità e dall’inventiva dei piccoli imprenditori, degli artigiani, di coloro cioè che, ogni giorno, si rimboccano le maniche e, con il sudore della propria fronte, creano ricchezza, non tanto per sé, quanto per il Paese. È, ancora, il frutto di una mentalità che ha prodotto il pansindacalismo e l’assistenzialismo, la burocratizzazione della società, la crescita incontrollabile della spesa pubblica, l’invadenza sistematica dello Stato nell’esistenza dei cittadini. E, come esito finale, una società basata sul privilegio di casta e sulla rendita di posizione. Le pensioni di anzianità – caparbiamente difese dal neofascismo corporativo della Lega – che cos’altro sono se non privilegio allo stato puro, conseguenza della dilatazione senza controllo dello Stato sociale? E che cosa rappresenta la resistenza a oltranza di fronte alla prospettiva di un innalzamento dell’età pensionabile delle donne, al di là di ogni logica e al di là di ogni sostenibile motivazione economica ed etica oltre che al di là di ogni discorso sulla parificazione dei sessi, se non una difesa egoistica di uno status quo privilegiato, cascame, anch’esso, della società assistenziale? Una manovra finanziaria che colpisce, utilizzando la mannaia fiscale, i ceti medi produttivi è una manovra «culturalmente» socialista nella sostanza e antiquata nella struttura. Non tiene conto del fatto che i ceti medi – la borghesia produttiva insomma – sono la struttura portante della società contemporanea, il fattore che determina la ricchezza e la vitalità del Paese. Dovunque, e da sempre, questi ceti medi sono stati il cuore pulsante di una società in evoluzione e avviata lungo le strade dello sviluppo e del progresso. Lo sono stati agli albori dell’età moderna, quando artigiani, commercianti, piccoli e medi proprietari fondiari e via dicendo hanno avviato, grazie alla loro libera iniziativa, il processo di trasformazione da una economia di sussistenza a una economia fondata sullo scambio. Lo sono stati, nella parte più evoluta dell’Europa occidentale, all’epoca del decollo della rivoluzione industriale e dello sviluppo capitalistico. E lo sono stati portando avanti una concezione della vita fondata su valori quali la parsimonia, la laboriosità, il senso della disciplina, il culto del dovere, il gusto per l’innovazione e l’imprenditorialità. Lo sono stati, ancora, quando hanno contribuito a tradurre, in termini politici, nelle istituzioni democratiche e rappresentative dell’età liberale questi principi. Quelle parti dell’Europa dove la formazione della borghesia produttiva è stata ostacolata o si è manifestata con ritmi molto più lenti hanno fatto registrare, nel corso della loro evoluzione storica, un ritardo nello sviluppo non soltanto economico ma anche politico. Perché – non dimentichiamolo mai – la conquista della libertà politica procede di pari passo con la valorizzazione della libertà economica. Tanto è vero che le limitazioni e i condizionamenti della libertà economica e, più in generale, dell’iniziativa privata hanno accompagnato, nel secolo passato, la nascita e l’affermarsi dei regimi autoritari di ogni tipo e di ogni colore. Così come, nel secondo dopoguerra, il mito della «società del benessere» fondata sull’assistenzialismo di Stato ha portato all’elefantiasi burocratica, alla creazione di privilegi, a dimenticare – per usare una bella espressione dell’economista Milton Friedman, che «nessun pasto è gratis». L’assalto alla borghesia, ai ceti produttivi e tartassati del paese, così come è stato effettuato dal governo, attraverso l’arma del ricorso massiccio a un prelievo fiscale destinato a tappare soltanto buchi di bilancio, è destinato ad affrettare la corsa verso la stagnazione perché soffoca e deprime la capacità di iniziativa del ceto medio e non interviene, se non in misura risibile, sulle cause strutturali che, oltre alla congiuntura internazionale, sono all’origine delle difficoltà economiche del nostro paese. Un paese che è ben tratteggiato da una battuta di Antonio Martino: «L’Italia è una madre che ha due figli: Privato, che lavora, produce e risparmia. E Pubblico, che dissipa quanto incassa e si appropria anche dei risparmi di Privato. Un figlio creativo e laborioso che ha fatto del nostro uno dei paesi più prosperi del mondo e un fratello pletorico, inefficiente e dissestato». Gli interventi del governo, contenuti nella manovra di metà agosto, non sono soltanto un tradimento nei confronti delle promesse elettorali di dar vita a una «rivoluzione liberale». Sono, anche e soprattutto, una complice strizzatina d’occhio alla vocazione dissipatoria di Pubblico e un irridente rimprovero alla vocazione operosa e risparmiatrice di Privato. Francesco Perfetti, Il Tempo 20 agosto 2011

.…….Ci spiace doverlo ammettere ma ha ragione Perfetti. Questo governo di centro destra è di fatto un governo contro il ceto medio. Se continua così il ceto medio si trasformerà nella clava che lo butterà giù senza pietà. Berlusconi torni sui suoi passi e modifichi la manovra facendo buon uso della magggioranza in Senato dove è più facile costringere i riottosi della Lega ad accettare interventi che non si pongano sulla linea di distruzione del ceto medio italiano. Prima che sia troppo tardi. g.