Archivi per agosto, 2011

COSI’ SI ARRIVA AL DOPPIO EURO, di Mario Sechi

Pubblicato il 20 agosto, 2011 in Economia, Politica | No Comments »

Il cancelliere tedesco Angela Merkel Noi non li vogliamo. Angela Merkel ha liquidato così l’idea di lanciare gli eurobond, i prestiti garantiti dall’Europa. La cancelliera tedesca chiude la porta e la Francia gira la chiave. Se questa è l’Europa unita, cari lettori, stiamo freschi, e cantiamo il De Profundis per un sogno che si sta trasformando in un incubo. L’Italia, Paese fondatore dell’Europa, dovrebbe cominciare a organizzarsi per una dissoluzione dell’Euro che giorno dopo giorno appare sempre più all’orizzonte non come un’ipotesi scolastica, ma come un’opzione. E quando le cose diventano possibili, è bene pensarci prima. L’ingresso nell’Eurozona all’Italia è costato lacrime e sangue (ricordate le manovre di Prodi e Ciampi?), la permanenza in questo club continua ad essere fonte di sacrifici enormi e frustrazioni economico-sociali. Anche gli spiriti più ingenui oggi hanno realizzato che il nostro rapporto di cambio è svantaggioso e ha determinato una diminuzione del potere d’acquisto delle famiglie che tutti toccano con mano ogni giorno. La moneta unica per evitare distorsioni e funzionare bene aveva bisogno di tre condizioni base: 1. Assenza di shock e virus che contagiano gli altri Stati; 2. Mobilità e flessibilità del lavoro; 3. Armonizzazione fiscale nei Paesi che adottano la moneta unica. Nessuna di queste tre condizioni si è realizzata e la situazione invece di viaggiare verso la «normalità» sta diventando sempre più «subnormale». Il caso della Grecia manda a carte quarantotto la condizione numero uno e dimostra come il contagio del virus da una nazione all’altra oggi sia una realtà che si tramuta in moneta sonante. I tedeschi e i francesi hanno detto sì al salvataggio di Atene per mettere al sicuro i bilanci delle loro banche che detenevano il debito del Peloponneso, ma si oppongono all’estensione di meccanismi di solidarietà continentale e dulcis in fundo all’unico strumento che potrebbe davvero salvare l’Eurozona dalla rottura del patto fondato sulla moneta unica. Il professor Alberto Quadrio Curzio da anni spiega come questa idea può essere realizzata: costituire un Fondo Comunitario Europeo, garantito dalle riserve auree, il quale poi emette obbligazioni pari al 5 per cento del Pil di Eurolandia. Si ricaverebbe una «dotazione» del Fondo pari a circa mille miliardi di euro, ipergarantita dall’oro che oggi viaggia alla cifra record di 1800 dollari l’oncia, ma secondo alcuni analisti in grado di toccare quota 2000 dollari entro la fine dell’anno. Problemino: i tedeschi dicono no. E i francesi si accodano. A questo punto, paradossalmente, proprio per salvare l’Euro e quel che resta dell’Europa, riemergerà il disegno messo nero su bianco nel 2010 da Michael Arghyrou e John Tsoukalas, due studiosi della Cardiff Business School e della Nottingham University, lanciato da Nouriel Roubini, l’economista che aveva previsto il crac del 2008. La base di partenza è questa: i Paesi periferici dell’area Euro invece di adeguare le proprie politiche economiche e fiscali agli standard previsti dall’Unione, fin dal 1999 hanno proseguito la loro marcia in rosso. Anno dopo anno, siamo arrivati ai giorni nostri con debiti sovrani troppo alti per esser onorati senza avviare riforme strutturali, cioè quelle che andavano fatte fin dall’inizio dell’avventura dell’Euro e nessun Paese in crisi (Italia, Spagna, Grecia, Portogallo, ma ormai la stessa Francia) vuol fare per ragioni politiche, di mero consenso elettorale. Non avendo fatto in passato le riforme, non c’è più tempo per passaggi graduali, ma i governi non hanno il coraggio di sottoporre i propri Paesi a cure shock. Si può condurre una vita a debito, ma prima o poi si paga. E nessuno vuol staccare l’assegno, ma continuare a scaricare in avanti il fardello. La conclusione dei teorici del doppio conio è la seguente: la Banca Centrale Europea dovrebbe gestire due monete. Un euro forte e un euro debole. Il primo in circolazione nei Paesi più solidi (Germania, Francia, etc.), il secondo nei Paesi più fragili (Portogallo, Grecia, Spagna, Italia, etc.). Il debito dei Paesi da curare, continua ad essere contabilizzato con l’Euro forte, mentre l’Euro debole al momento del varo, viene svalutato di una percentuale sufficiente a consentire un recupero di competitività dei Paesi con problemi di crescita (sì, ricorda le nostre svalutazioni competitive della Lira). La Bce continuerà ad avere il monopolio della politica monetaria e avrà due tassi di riferimento per le due monete. I Paesi che oggi hanno il problema di gestire il debito sovrano avranno più tempo (quello che ora manca, insieme al coraggio) per gestire il rientro nell’Euro forte, dopo aver fatto le riforme strutturali, mentre gli Stati orientali che oggi non possono entrare nell’Eurozona potranno cominciare la loro marcia di avvicinamento verso l’Euro debole e poi puntare al top dell’Euro forte. É un sistema tutt’altro che sballato, dal punto di vista teorico, ha un suo grande fascino, inutile nasconderlo. Un Euro troppo forte – come quello attuale – è fonte di squilibri enormi, non favorisce Paesi che tradizionalmente esportano (vedi il caso Italia) e la bassa inflazione da sola non compensa la perdita di potere d’acquisto (ancora una volta, il caso Italia). Domanda: si può fare? La risposta dei signori della Bce è una sola, no. Non esistono meccanismi di uscita dalla moneta unica. Entri, chiudi la porta, ma non la riapri. Il problema è che la Storia non aspetta i trattati, si fa, a prescindere da quello che pensano gli uomini. Se gli spread restano a questi livelli, le Borse giocano al toso tutto quello che si muove sopra l’erba e l’economia mondiale entra in una drammatica recessione (Jp Morgan ieri ha tagliato seccamente le stime di crescita del Pil americano per i prossimi due trimestri), la faccenda diventa come alla roulette: i giochi sono fatti e chi ci ha rimesso la puntata non può chiedere indietro il piatto. I tedeschi si credono – e in parte certamente sono – il giocatore vincente. La Merkel non è ancora riuscita a far digerire il pagamento del conto degli allegri prepensionati greci, figurarsi garantire il portafogli della carovana di spendaccioni del Club Med. Il pasticciaccio brutto è tutto qui. Siamo di fronte a un Paese forte con l’opinione pubblica che ha il mal di tasca (la Germania) e a un’altra nazione (la Francia) che sta a Berlino come il vagone alla locomotiva. Mezza Europa di traverso. É un modo ottuso di ragionare e procedere, condurrà al patatrac del Vecchio Continente, ma la cronaca ci consegna tutti i giorni storie di ordinaria follia. Povera Europa. Mario Sechi, Il Tempo 20 agosto 2011

LA MANOVRA DI VENDOLA, EROE ANTICASTA? ASSUMERE LA NIPOTE DI NAPOLITANO

Pubblicato il 19 agosto, 2011 in Costume, Politica | No Comments »

Roma – Il precariato questa brutta rogna che qualche leader combatte per davvero, non a ciance. Prendete Nichi Vendola. Anche ad agosto, invece di aprire ricci e cozze in riva al mare, si occupa di lavoro. Eccome se ne occupa. Ha persino raddoppiato la task force sull’occupazione in Puglia (5 esperti che diventano 10) e ha creato un ufficio ad hoc per la sua portavoce, Susanna Napolitano. Tra presidenze illustri ci sarà pure del feeling, ma la parentela è solo un caso, una coincidenza che la bravissima nipote del presidente della Repubblica lavori per il presidente della Puglia. Un governatore che prometteva primavere che però tardano a sbocciare. L’allenatore nel pallone Oronzo Canà ormai lo stacca di molte posizioni nella classifica dei pugliesi più amati da quelli che tweettano, cliccano «mi piace» su Facebook e Youtube. Nichi Vendola, il poeta con la «s» sifula, il governatore nel pallone, è ormai «tallonato» – riporta famecount.com – pure da certa Emma, una salentina che cantava ad Amici (ecco forse Vendola farà un salto dalla De Filippi, come fece Fassino, per ingraziarsi le massaie conservatrici pro domo sua?). «Vendola e la rete, il feeling è più soft» riassume morbidamente il Corriere del Mezzogiorno, solitamente tenero col governatore, che gode di molta stampa amica. Nessuno dei giornali pugliesi ha dato spago all’opposizione in Regione che da qualche giorno mitraglia comunicati stampa sulle ultime «duplicazioni» del mago Vendola. Due raddoppi, come si diceva: quello della comunicazione della regione Puglia, e quello della «task force per l’occupazione», cioè gli esperti chiamati ad aiutare chi cerca lavoro, e che nel frattempo hanno risolto il loro. «Poche migliaia di euro – dice l’assessore di Vendola – per affrontare con professionalità crisi aziendali difficili». Ma il Pdl pugliese fa l’ironico: «Il raddoppio della task force contribuisce direttamente alla soluzione della questione che dovrebbe affrontare…».
L’altra polemichetta pugliese riguarda la comunicazione. Il 3 agosto scorso il direttore dell’«Organizzazione» della Regione Puglia ha vergato una «Determinazione» che «configura» «due uffici non dirigenziali, stampa del Presidente e stampa della Giunta regionale, con il sottoelencato contingente per ciascuno di essi: n. 1 caporedattore, n. 2 giornalisti». Da uno, due. Di nuovo l’ironia del Pdl locale: «Vendola istituisce ex novo un Ufficio stampa, previa onerosa scissione di quello già esistente, tutto e solo per il Presidente, al quale pure non si può dire manchi l’attenzione continua ed adorante dei mass media». I due capiredattori per i due uffici sono già belli e pronti. Chi altri mettere alla guida dell’Ufficio stampa del Presidente Vendola, se non la sua attuale portavoce (già inquadrata come caporedattore a 91.701 euro lordi l’anno), Susanna Napolitano? Che ci va per tre mesi, fino a «disegno normativo ad hoc». Per gli altri 4 posti così creati (due giornalisti per ognuno dei due uffici stampa) invece «si provvederà con successiva disposizione alla copertura dei posti vacanti», chiarisce il dirigente.
Non abbastanza per l’opposizione, coadiuvata in altri casi anche da Idv e Udc, come nel terzultimo «raddoppio», la nomina (del 2 agosto, mese fervido per la Regione Puglia) di sette consulenti per il Nucleo di valutazione degli investimenti pubblici regionali. Costo: un milione e mezzo in tre anni. E potevano farlo internamente. Chiedere a Vendola? Sarebbe insensato. Come spiegò in un suo appassionante libro, «non sono la persona deputata alle risposte, posso solo allargare l’ambito delle domande». Il Giornale 19 agosto 2011
…………….L’avevamo appena scritto che bisogna ridurre i costi della casta e della politica ed ecco quà la bella notiza: Vendola, esperto predicatore contro i vizi altrui, ha raddoppiato il personale addetto alla comunicaizone e allo studio dei problemi dell’occupazione e tra i prescelti chi ti sceglie? La nipote di Napolitano! Ogni ulteriore  commento è superfluo. g.

E’ IL MOMENTO DI FARE ALTRO, l’editoriale di Mario Sechi

Pubblicato il 19 agosto, 2011 in Economia, Politica | No Comments »

Borse europee, operatori al lavoro a Francoforte O la borsa o la vita. Questa è la scelta che abbiamo di fronte. E un’altra non esiste. Chi cerca la terza via è un povero illuso. Stiamo navigando in un mare in tempesta, e allora siamo obbligati a fare un rapido punto nave per capire dove stiamo andando. I grandi trend sono essenzialmente tre: l’America è in declino, l’Europa affonda e l’Asia si prepara a dominare.
Sono direttrici della Storia che la classe politica e una fetta enorme del ceto intellettuale occidentale stentano a comprendere, addirittura le considera inaccettabili. Ma la realtà delle cose non lascia scampo. Ieri il mercato ha dato l’ennesima prova di essere dominato da «animal spirits» che se ne infischiano di quello che pensano, dicono e fanno i politici. Stati Uniti ed Europa sono due grandi malati. Il presidente Obama è ridotto a fare i comizi in campagna, con alle spalle un trattore che sembra uscito dall’Ottocento, per inseguire i voti di un’America rurale devastata dalla globalizzazione dei mercati. La cancelliera Merkel e il presidente Sarkozy hanno preso un caffè a Parigi e senza prendere alcuna decisione operativa hanno già fatto suonare la campana a morto per l’euro.
È una situazione grave per il Vecchio continente, tanto che il settimanale Time ha titolato così la copertina dell’ultimo numero: «Declino e caduta dell’Europa». Il mondo è dominato da forze sempre più indipendenti dai governi e dunque dalla volontà popolare. Andiamo scrivendo da almeno un anno su questo giornale che senza un radicale cambiamento della politica economica globale e un ricambio della leadership finiremo tutti contro gli scogli. Ieri sul Financial Times Jeffrey Sachs, professore della Columbia University, ha scritto un bellissimo articolo sul «grande fallimento della globalizzazione». Improvvisamente stanno venendo al dunque tutti i problemi rinviati: la politica macroeconomica ha fallito nel creare posti di lavoro e non risponde più ad alcun valore sociale positivo, favorendo solo la classe dei super ricchi, come testimoniato dall’intervento di Warren Buffett l’altroieri. Di fronte a uno scenario così grave, l’Europa spera ancora che gli Stati Uniti trovino una via d’uscita ai loro problemi e salvino così anche il Vecchio Continente.
È un’illusione. L’America non è più l’America, e rischia addirittura una doppia recessione. L’Europa in queste condizioni rischia lo sfascio. Ci vorrebbero leader che hanno lo stomaco e il coraggio per salvare l’euro, ma per ora all’orizzonte non s’è visto nessuno. Per la prima volta negli ultimi sei mesi una grande banca europea ha cominciato ad acquistare dollari al posto dell’euro: 500 milioni al tasso fisso dell’1,1 per cento. È un segnale. Significa che la fiducia in quella che era l’unica forza dell’Europa, cioè la sua moneta, sta scricchiolando, e il bigliettone verde è destinato a tornare – nonostante gli americani facciano di tutto per tenerlo basso – l’incontrastata moneta di riferimento dei mercati. Le borse ieri hanno guardato a uno scenario economico più che politico, gli operatori sono nervosi, la parola d’ordine è panico, improvvisamente il mercato dei prestiti interbancari ha cominciato a raffreddarsi e la parola tanto temuta da tutti è “freezing”, “congelamento”, cioè il momento in cui nessuno compra e vende denaro, il blocco totale del sistema del credito. Era già successo con la crisi dei mutui subprime, la crisi di liquidità fece schiantare in pochi giorni i colossi del credito che non avevano più soldi per ricoprire le loro posizioni esposte nel mercato della finanza creativa.
A differenza della recessione del 2008 siamo in una prospettiva persino peggiore: non c’è nessuna bolla da far scoppiare. Morgan Stanley ieri ha sfornato un report in cui vede la crescita globale al 3,9 e non al 4,2. I mercati hanno registrato la cifra e hanno cominciato a vendere i titoli della Old economy: chi produce cemento, acciaio, materie prime legate al mondo delle infrastrutture e dell’edilizia ha visto deprezzare le sue azioni. Stiamo assistendo a una partita a poker in cui tutti mentono e i governi non riescono a uscire dalla spirale del debito, degli stimoli fiscali a tempo, delle agenzie di rating che ne condizionano le politiche fiscali ed economiche, tutte concentrate sui bilanci e completamente assenti sul fronte della creazione di ricchezza e lavoro. Se questo è lo scenario – e potete star tranquilli che è così – il governo italiano si sta letteralmente impiccando da solo. Né la maggioranza né l’opposizione hanno compreso che è arrivato il momento di fare altro.
È inutile mettersi col calcolatore a varare manovre che non risolvono il problema del debito, ma al limite solo del deficit. Al posto di Berlusconi io avrei bussato alle porte dell’Europa e avrei detto: toc toc, è permesso? Cari Sarkozy e Merkel, ma non vi siete accorti che stiamo affondando? E tu, cara Angela, com’è possibile che dici “no” a una politica europea comune di salvataggio, chiudi la porta agli eurobond, e ti sia dimenticata della storia della Germania? Non ricordi come siete usciti dalla seconda guerra mondiale? Ti dice niente la parola Piano Marshall? E non ricordi chi ti ha pagato la riunificazione dopo la caduta del muro di Berlino?

Tu puoi, insieme a Nicolas, decidere di non decidere, lasciare che l’euro si sfasci, introdurre due monete nel Vecchio Continente; ma allora cari amici di Parigi e Berlino, io vi dico che preferiamo cavarcela facendo le nostre scelte, consultandoci con gli amici del Club Med, la Grecia, la Spagna il Portogallo e gli altri che pensano stiate sbagliando e proviamo un’altra via. Quale? Quella del rigore, certo, ma anche quella che prevede la crescita, lo sviluppo, la creazione di lavoro per i nostri giovani e per le famiglie. Falliremo? Non lo sappiamo, ma almeno saremo liberi di fare crac un po’ più tardi invece che subito per effetto della politica della vostra Banca centrale e delle vostre piccole idee. Tra la borsa e la vita, scusateci, scegliamo la vita.  Mario Sechi, Il Tempo, 19 agosto 2011

.………..L’editoriale di Sechi è stato scritto prima ancora che riaprissero le Borse e di nuovo queste  affondassero, dall’Ovest all’Est, investite come  da uno tsunami inarrestabile. E mentre le Borse affondano il duo Merkel e Sarkozy continuano imperterriti a conclamarsi padroni delle scelte di tutti. Ieri sera un “uomo della strada”, non un esperto di economia e finanza,  diceva le stesse cose che oggi scrive Sechi sul Tempo. Bisogna impedire al duo Merkel e Sarkozy di  affondare l’Europa e con essa i Paesi che talvolta senza crederci hanno imboccato la strada dell’euro. Bisogna che ai due venga tolta la leadsership europa che si sono presa senza che nessuno gliela abbia mai affidata, e occorre farlo prima che sia troppo tardi. E prima che sia troppo tardi occorre che ciascuno faccia la sua parte. Anche l’Italia, il suo governo, la sua opposizione. Mentre tutto crolla intorno a noi, non si può continuare a giocare a tamburello, rilanciandosi a vicenda accuse e contraccuse, senza tentare di trovare intese reciproche che rinviino a tempi successivi la disputa politica ed elettorale. Il Parlamento riesamini la manovra, la ritocchi lì dove appare zoppicante e inadeguata. L’altro ieri Montezemolo ha proposto di vendere la Rai, privatizzandola: è una buon idea. In nessun Paese al mondo, ad incominciare dalla democraticissima America,  esiste una TV di Stato con tre canali che si fanno concorrenza tra loro, sperperando quattrini ed energie. Si impedisca che l’egoismo “padano” intralci riforme strutturali come la eliminazione delle pensioni di anzianità che tanto male hanno fatto alle casse dello Stato e come la eliminazione di tutte le Provincie, come sostiene oggi sul Giornale il deputato PDL Santo Versace, sia perchè fonte di sprechi, sia perchè  la loro eliminzione era prevista dalla riforma regionale del 1970: dopo 40 anni è tempo di rispettare la legge. Lo stesso  Versace sostiene anche che utile e opportuno sarebbe l’accorpamento dei Comuni sino a 25 mila abitanti come accade  in altri paesi europei. Non è una cattiva idea sia sul piano economico, sia sul piano della riduzione di sprechi e disperdimento di risorse.   E poi i costi della politica e della casta. I timidi provvedimenti assunti,  e qualcuno solo annunciato,   sono poca cosa. Basta leggere le inchieste giornalistiche . assolutamente bipartisan – per rendersi conto che ci troviamo di fronte a pozzi senza fondo nel quale si nascondono  privilegi e benefici tenuti sinora accuratamente nascosti e difesi da tutti, senza eccezioni, perchè tutta la “casta” vi trova il proprio tornaconto. Non occorrono leggi speciali o riforme costituzionali per eliminare privilegi e benefici che oggi più che mai appaiono insulti alla gente comune che ogni giorno deve rimboccarsi le maniche per far quadrare i bisogni della propria famiglia. Bastano la volontà e una legislazione “normale”  g.

BONO, IL “BENEFATTORE” INVESTE SU FACEBOOK E GUADAGNA – PER SE’ – 850 MILIONI DI DOLLARI

Pubblicato il 18 agosto, 2011 in Costume | No Comments »

V
Benefattore sì, ma di sé stesso. Questa volta Bono Vox ha fatto solo i suoi di interessi. E li ha fatti anche bene. Il leader degli U2 nel 2009 ha investito tramite la sua società, l’Elevation partners, 210 milioni di dollari su Facebook. Una mossa azzeccatissima: oggi il social network vale 23 miliardi di dollari e il “cantante benefattore” ha in mano azioni per 875 milioni di dollari, a occhio e croce il quadruplo di quello che ha messo in mano a Mark Zuckerberg appena due anni fa. Un dieci con lode al Bono imprenditore, ma che fine ha fatto il Bono terzomondista? Quello sempre pronto a salmodiare di pelose beneficenze, quello che si fa accogliere come un capo di stato in tutti i paesi del mondo per promuovere l’azzeramento del debito? Lavora a giorni alterni. Il Bono “buono” è operativo i giorni pari, quello “cattivo” (per modo di dire, ovviamente) i dispari. L’11 agosto, infatti, il cantante irlandese inviava al mondo intero un messaggio congiunto con il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki Moon: datevi da fare, servono piu’ fondi per aiutare le popolazioni affamate dalla carestia che ha colpito il Corno d’Africa, finora è stata raccolta solo la meta dei 1.600 milioni di dollari chiesti dall’Onu. Pochi giorni dopo la solerte Hillary Clinton apriva il borsellino della Casa Bianca per sganciare altri 17 milioni. Quisquiglie per le casse degli States e pure per quelle del leader degli U2. Specialmente ora. Ottocentosettantacinque milioni di dollari sono un patrimonio ingente, praticamente un anno di Pil di un paese africano come il Gibuti. Un plauso alle doti impreditoriali della Voce di Dublino: ha messo i suoi soldi dove meglio gli pareva (come è legittimo) e ha saputo farli fruttare. Ma, almeno per un po’, ci risparmi le prediche.
.………..Non è una novità che Bono – e come lui tanti altri predicatori coi soldi degli altri – predichi bene e razzoli male. Non è una novità che i telepredicatori – come Bono -  pensino prima a se stessi e poi – sempre con i soldi pubblici – ai derelitti del mondo. Ecco perchè oltre che far voti perchè ci risparmi le solite prediche sui debiti del mondo, è il caso di augurarsi che Bono – con lui tutti quelli come lui – la smettano di far soldi a palate sulle disgrazie altrui delle quali a loro impipa meno di tanto. g.

RICORDO DI FRANCESCO COSSIGA AD UN ANNO DALLA MORTE

Pubblicato il 18 agosto, 2011 in Costume, Politica | No Comments »

Paolo Savona per “Il Messaggero

IL 17 agosto di un anno fa è venuto a mancare Francesco Cossiga. Uomo di grande ingegno e di profonda cultura, era una vera macchina per pensare. La sua scomparsa pesa in questi giorni tormentati. Politico fine, ha percorso l’intera carriera nella corrente liberal-democratica della Dc, da galoppino elettorale a presidente del Consiglio, del Senato e della Repubblica. È sempre stato uomo delle istituzioni, più che di partito, per la sua raffinata cultura costituzionale: egli era libero docente d’antan di questa fondamentale branca del diritto. Ha attraversato l’intera storia della Repubblica italiana; la triste appendice che viviamo gli è stata risparmiata dalla sorte.

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Ha tentato e qualche volta gli è riuscito di affrontare il problema più difficile del Paese, la riforma della pubblica amministrazione, che sta avvelenando la convivenza sociale e strozzando l’economia. Lo Stato si prende metà del Pil, il Prodotto nazionale lordo, e non è ancora soddisfatto. C’è sempre un motivo per cui si deve incrementare il prelievo fiscale, ma pochi per ridurre le spese. È l’unico soggetto che può violare impunemente un contratto: è il peggiore pagatore, ma il più intransigente creditore, anche se si tratta di pochi euro.

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Per la pubblica amministrazione il cittadino è restato sempre un suddito e questo status era mal sopportato da Cossiga, che aveva nel Dna le tracce delle dominazioni subite dalla sua terra, la Sardegna, di cui andava molto orgoglioso. Seguace di Aldo Moro, si è trovato a dover combattere il più subdolo attacco alla democrazia italiana, quello mosso dalle Brigate rosse, ed è restato coinvolto politicamente nel percorso drammatico del suo maestro, dimettendosi da ministro degli Interni dopo l’assassinio dello statista, con un gesto di dignità oggi inconsueta.

L’impegno che ha posto nel comprendere le ragioni dei giovani brigatisti culturalmente sbandati e i suoi legami con i movimenti rivoluzionari europei forniscono un primo spaccato interpretativo della sua cultura politica, che respingeva il conservatorismo e puntava all’elevazione delle classi svantaggiate nelle forme proposte dal riformismo moderato. Si considerava erede di Alcide De Gasperi, per la concezione laica dello Stato e la vocazione europeista, ma sapeva valutare i difetti degli accordi stipulati tra tanti compromessi, lontani dalla razionalità e quindi destinati a impantanarsi come sta accadendo di fronte ai grandi problemi geopolitici.

Da presidente del Consiglio fu l’unico che riuscì a congelare il rapporto debito pubblico/Pil. Si documentava attentamente sui contenuti delle decisioni da prendere e prendeva nota dei pro e dei contro, indicando i motivi per cui sceglieva una soluzione piuttosto che un’altra; questo modo di procedere meriterebbe un attenta considerazione da parte di chi si dedica agli studi politici e storici. Il suo archivio è certamente un tesoro culturale da fare oggetto di prospezione. Si potrebbe partire studiando il messaggio alle Camere che inviò prima delle sue dimissioni anticipate dal massimo incarico della Repubblica.

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Il carattere di Francesco Cossiga, con la sua forte impronta sassarese, ha indotto taluni a considerarlo un politico non del tutto equilibrato, invece di un censore cosciente e responsabile. In un habitat dei media in cui non fa notizia se un cane morde la gamba di un uomo, ma solo se un uomo morde quella di un cane e i media italiani eccellono in questo comportamento egli riteneva che, per essere preso in considerazione, occorresse «fare notizia».

A lui riusciva particolarmente bene, talvolta tra lo sconcerto dei suoi stessi amici: castigat ridendo mores, si può considerare il suo motto. Gli eventi succedutisi nella parte più importante della sua esperienza dalla caduta del Muro di Berlino al ciclone di «mani pulite» lo portarono a connotarsi come un «picconatore» della prima Repubblica, ma le sue esternazioni avevano sempre alla base conoscenze precise che gli derivavano dalla sua ampia rete di relazioni che intratteneva quotidianamente e dall’attenta considerazione del parere di esperti delle materie di volta in volta affrontate, che sottoponeva a domande incalzanti.

L’eredità che ci ha lasciato va ancora correttamente collocata nella storia d’Italia. Non spetta certo agli amici e ai contemporanei pronunciare giudizi su un personaggio così complesso. Questa piccola eccezione è giustificata dal compimento del primo anniversario della sua scomparsa, ma anche dal dovere di sollecitare riflessioni sulla sua opera perché, se è vero che la storia non si ripete, essa è comunque maestra di vita. La vita e l’opera di Francesco Cossiga sarebbero per tutti una fonte preziosa di insegnamento. Tanto più oggi che l’Italia ha perso coscienza della direzione di movimento.

AL SENATO PRESENTI 11 SENATORI SU 326. E GLI ALTRI?

Pubblicato il 18 agosto, 2011 in Costume, Politica | No Comments »

Commento di Mattia Feltri per la Stampa

Mattia Feltri per La Stampa

Una grande domanda: avevano ragione gli undici senatori presenti in aula o i trecentodieci rimasti in spiaggia? Ha dimostrato più senso civico il manipolo di indefessi o più senso pratico l’esercito dei contumaci? Alla fulminea seduta (quattro minuti e trenta secondi arrotondati per eccesso) era giusto partecipare per fare sfoggio di una classe dirigente responsabile e inappetente agli ozi, oppure era giusto stare in panciolle vista l’occasionale e manifesta inutilità di un’aula chiamata a doveri formali e preistorici?

Intanto la notizia: ieri a Palazzo Madama la presidenza (rappresentata da Vannino Chiti del Pd, perché Renato Schifani si ritempra a Porto Cervo) ha informato l’assemblea che il governo ha varato un decreto (la manovra correttiva) il cui testo è stato indirizzato al Senato per la conversione in legge, e di conseguenza sarà affidato alle competenti commissioni (che già da oggi cominciano a spulciare). Fine.

Affari di questo genere, solitamente, si sbrigano in chiusura di sedute più cicciose, come titoli di coda. A memoria, non si ricorda una convocazione di scopo. Comunque stavolta s’è fatto e hanno risposto in undici. Di Chiti si è detto. Poi altri tre del Partito democratico, Mariangela Bastico (di Modena, in viaggio verso la Calabria, ha colto l’occasione e s’è fermata a metà strada e preferiva che tutti i colleghi accorressero), Lionello Cosentino (di Napoli, lì per lì scambiato per Nicola, quello del Pdl, per l’orrore della senatrice Bastico) e Carlo Pegorer (della provincia di Pordenone, da dove è arrivato con mitteleuropeo senso del dovere).

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Poi ce n’erano quattro del Popolo della Libertà, Giacomo Santini (di Trento, già compagno di classe della brigatista Margherita Cagol ma molti lo ricorderanno perché dalla moto del Giro d’Italia si palleggiava la linea con Adriano De Zan, erano gli anni di Francesco Moser, Beppe Saronni e Bernard Hinault), Paolo Barelli (l’unico di Roma insieme col dipietrista Stefano Pedica, e pertanto accolto da travolgenti applausi), Cinzia Bonfrisco (di Riva del Garda, sponda trentina del lago) e Raffaele Fantetti (eletto all’estero, avvocato londinese dal cui ricorso è partita l’indagine che condusse in galera Nicola Di Girolamo).

Due erano dell’Italia dei Valori, Luigi Li Gotti (celebre avvocato di Tommaso Buscetta e Giovanni Brusca) e Pedica (il quale martedì ha girato un indignato video in un Senato deserto, sebbene non si capisca chi dovesse esserci visto che il Senato è chiuso). L’undicesima è Maria Ida Germontani (lecchese e finiana) e corre l’obbligo di segnalare il dodicesimo, che però senatore non è: da sottosegretario all’Economia rappresentava il governo Alberto Giorgetti.

Dunque, ha parlato per due minuti la Bonfrisco, per due e mezzo Chiti, i senatori hanno ascoltato in ossequioso silenzio e stop, per i giornalisti neanche il tempo di affilare le penna (il drappello era invece nutrito: tutti sguinzagliati dietro il medesimo osso, la casta nullafacente). Non farà onore ai parlamentari ma un qualsiasi martedì e un qualsiasi venerdì non raccolgono più presenze di quelle raccolte ieri.

Eppure i presenti non hanno lesinato gli assist fratricidi: Pedica era indignato col latitante Schifani e Santini diceva che la circostanza magari era poco concreta ma il momento meritava solennità (Santini alla buvette ha poi sguainato le competenze: Silvio Berlusconi ha l’intuizione e l’incostanza di Pantani mentre Romano Prodi ha il senso di squadra e la metodicità di Moser).

E alla fine, sbrigata la pratica, è rimasto il tempo per un suggestivo ribaltamento del pregiudizio, destinataria sempre la casta che, dovrebbe averlo capito, di questi tempi come si muove sbaglia: questa bazzecola quanto ci sarà costata di luce? E di aria condizionata? E di mobilitazione commessi? Per non dire degli aerei, andata e ritorno, tutto a carico del contribuente eccetera.

E forse la chiave della giornata era tutta lì: la macchina legislativa a quali norme ottocentesche è vincolata se, per informare col pennacchio un’aula già ipertroficamente informata dell’esistenza di un decreto, il quale decreto dev’essere convertito eccetera, ecco, se per la minuzia bisogna mettere in moto un elefantiaco ramo del Parlamento, non è forse il caso di affacciarsi sul Terzo Millennio e spedirsi un’ufficialissima mail?La Stampa, 18 agosto 2011

NIENTE GIUDICI, BASTANO LE TASSE

Pubblicato il 18 agosto, 2011 in Politica | No Comments »

DI FRANCESCO DAMATO

Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi Va bene che i tribunali sono chiusi per ferie, ma è assordante il silenzio sceso improvvisamente sui processi di Silvio Berlusconi. A nessuno degli avversari del presidente del Consiglio viene più la voglia di rimproverargli la vicenda Mills o quella di Ruby. D’un tratto gli antiberlusconiani hanno scoperto la possibilità di sconfiggere il Cavaliere con le armi proprie della politica, e non più con quelle improprie e odiose della giustizia di parte. Certa sinistra assapora già il gusto di vedere l’avversario – se si ricandida – bocciato dagli elettori sul tema spinosissimo delle tasse al prossimo appuntamento con le urne.
Berlusconi, per quanto danneggiato oggettivamente anche da vicende estranee alla sua volontà e responsabilità, dal terremoto in Abruzzo all’esplosione di una crisi economica di dimensioni planetarie, si è infilato in una serie di errori politici che rischiano di costargli carissimo. Prima è caduto nelle provocazioni di Gianfranco Fini perdendo un pezzo di maggioranza e di partito. Poi si è disinteressato della gestione del suo movimento politico ricorrendo forse troppo tardi alla scelta di un segretario politico. Infine si è lasciato imporre non tanto dall’Unione Europea quanto da Giulio Tremonti e da Umberto Bossi due manovre fiscali in un mese che lo hanno fatto entrare clamorosamente in collisione con il ceto medio e, più in generale, con i suoi elettori: quel “Popolo della Libertà” che poi è anche il nome del suo partito. Il Tempo, 18 agosto 2011

L’INCREDIBILE FOLLIA DELLA SPAGNA LAICISTA

Pubblicato il 18 agosto, 2011 in Costume, Politica estera | No Comments »

Papa Benedetto XVI Mentre tutto il mondo cattolico, ma anche ateo, è concentrato su Madrid e la giornata mondiale della gioventù, gli spagnoli cosa fanno? Meglio: la stampa, la radio, la televisione spagnoli, come introducono e commentano l’evento dell’estate 2011, l’evento positivo, l’evento buono, non quello angosciante della distruzione di ricchezza finanziaria e di perdita di certezze professionali, economiche e sociali? Come preparano, dicevo, quel fatto mondiale che mostra la speranza di tanti giovani, giovani che seguono un Papa anziano nella convinzione di ascoltare, attraverso di lui, una parola di amore che viene direttamente da Dio? I media spagnoli hanno preparato la GMG centrati su una preoccupazione. Su una concreta e apparentemente giusta attenzione alle pubbliche finanze: quanto costerà ai contribuenti questa invasione di cavallette cattoliche provenienti da ogni parte del pianeta?
Gli organizzatori hanno garantito che non ci saranno costi perché l’evento è interamente coperto dalle tasse dei pellegrini, dall’intervento di privati e dagli sponsor. Nossignori, si risponde. Perché la Generalità (il comune) di Madrid ha deciso una riduzione dell’80% del prezzo dei trasporti e, di conseguenza, tutti gli spagnoli ci rimetteranno. Perché, piuttosto, invece di dare privilegi ai pellegrini, non si facilita la vita ai disoccupati?
Che dire? La Spagna ha più del 20% di disoccupazione, una crisi morale e sociale devastante, una gioventù allo sbando e, invece di ringraziare la Santa Sede perché, ancora una volta dopo Santiago e Barcellona, sceglie la Spagna a meta di un pellegrinaggio petrino e, quindi, mondiale, invece di benedire Dio perché tutto il mondo guarda alla Spagna con ovvie ricadute a livello di immagine e di promozione, invece di benedire, maledice. Fa parte, diciamolo pure, della follia degli apostati cattolici. Di quelli che, in questi giorni, acquistano credibilità gridando ad alta voce che si vogliono sbattezzare pubblicamente. Quanti sono? Abbastanza per fare notizia. Abbastanza per avere mezzi di comunicazione dalla loro parte. Abbastanza perché i sindacati, rigorosamente di sinistra, dichiarino proprio nei giorni in cui il papa è a Madrid uno sciopero dei trasporti.
Cambiamo pagina e veniamo a Benedetto XVI e alla schiera di pellegrini che riempie Madrid. Strade, piazze, bar, alberghi, parchi: tutto pieno di ragazzi che non si drogano, non si ubriacano, non fanno pubblica esibizione della loro vita sessuale. In una parola, una cosa inaudita. Un mondo di marziani. In tanti hanno risposto alla chiamata del Papa. Con sacrifici, con fatica, con allegria. E la Spagna cosa fa? La Spagna che fu cattolica, granitamente cattolica, assiste in diretta a quel modo di credere, di vivere e di pensare che l’ha resa grande per più di un millennio e che, da quando Napoleone ha riempito le sue città di logge massoniche anticattoliche, ha rigettato. La Spagna evangelizzatrice, come ha gridato ad una folla sterminata Giovanni Paolo II durante la sua ultima visita a Madrid, la Spagna che ha plasmato alla speranza cristiana un intero continente, è oggi costretta, volente o nolente, ad assistere a questa pubblica manifestazione di fede. Di una fede mite, inerme e gioiosa. Chissà che un’eco del passato non raggiunga il cuore di qualcuno e non riapra una finestrella, uno spiraglio, per tornare a guardare a Dio. Per svegliarsi dall’incubo della violenza anticristiana (antispagnola) degli ultimi due secoli, culminato nell’orrore della guerra civile del 1936-39 e rimesso in circolo dalla prassi anticattolica del laicista Zapatero.

Radicalità per radicalità, in Spagna è nato agli inizi degli anni sessanta nelle baracche di Madrid un Cammino di fede per riscoprire la bellezza e la forza del battesimo: il Cammino Neocatecumenale iniziato da Kiko Argüello e Carmen Hernandez. Questo Cammino ha portato in questi giorni centocinquantamila giovani da tutti i continenti a percorrere, prima di arrivare a Madrid, gli itinerari della nostra Europa pagana, sazia, impaurita e disperata. Abitata da soli, vecchi e bambini. Bambini soli con famiglie allargate e vecchi soli senza figli o abbandonati dai figli. Una carovana di evangelizzazione fatta da ragazzi accompagnati dai loro catechisti. Gente che sembra venire dal mondo delle favole o dalla luna. Gente che con la sua sola presenza, con la forza della propria esperienza e della propria fede, testimonia che è possibile vivere in pace un’esistenza piena di senso. Ma di questo parleremo la prossima volta. Angela Pellicciari, Il Tempo, 18 agosto 2011

…………..Sono le conseguenze del governo libertario di Zapatero che si fanno sentire e che sono destinate, purtroppo, a durare a lungo, molto più del breve regno di Zapatero.

A SETTEMBRE SVOLTARE O DIRSI ADDIO

Pubblicato il 17 agosto, 2011 in Costume, Politica | No Comments »

Non ho mai creduto alle promesse del tipo meno tasse per tutti e da tempo non aspetto la rivoluzione italia­na. Coltivavo però una convinzione mi­nimalista: i governi di centrodestra, per­lomeno, non vessano e non stressano i cittadini e non li tartassano. Non ridu­cono le tasse ma almeno non danno mazzate. Oggi mi devo ricredere: certo, la crisi è globale e non è colpa di questo governo. Però se devo subire da Tremonti e dal go­verno le stesse angherie di un governo Prodi o Amato, Visco o Bersani, beh, allo­ra passo alla neutralità assoluta. Cresce il disgusto paritario.

Non ca­pisco il criterio dei sacrifici a chiazze, e non a gradi, feroci e non spalmati: alcu­ne Province soppresse altre no, alcune categorie spremute, altre- pur abbien­ti – no; alcuni rami minori della Casta tagliati, altri no. Allora sposto su altri piani la domanda: se un governo fa scempio delle mie tasche, vorrei che perlomeno mi gratificasse sui temi po­litici e sociali, etici e ideali. Se non tute­la gli interessi, che almeno tuteli i valo­ri.

L’amor patrio e la tradizione, il sen­so vivo della comunità, la difesa dei de­boli, della vita e della cultura, e poi grandi imprese, grandi esempi, gran fervore di idee. Macché, solo l’ombra. E allora se in questo indecente teatri­no su come è meglio affondare, gigan­teggia il modesto Casini e un democri­stiano che giocava nei juniores sem­bra uno statista, beh, allora vuol dire che abbiamo superato la frutta, siamo all’ammazzacaffè. A settembre o cambiate voi o cam­biano gli italiani. Svoltare o dirsi ad­dio. Marcello Veneziani, Il Giornale 17 agosto 2011

.…..Alle domande -riflessioni di Marcello Veneziani ne potremmo aggiungere tante altre ma il finale sarebbe lo stesso: il centro-destra si dia una mossa e sopratutto tenti di parlare una sola lingua altrimenti il popolo che ci ha creduto e forse ci crede ancora finirà collo stancarsi e se non sarà a settembre di certo lo sarà al momento del voto: dirà addio a questo centro destra che riesce a far rimpiangere quello che si identificava con la vecchia DC. Con buona pace di tutti, compreso Bossi del cui acume politico  ormai rimangono solo le ingiurie con cui ricopre avversari e alleati. Questi ultimi peggio degli avversari.  g.

LA PARABOLA DI MR. OBAMA CHE E’ RIUSCITO A SCONTENTARE TUTTI

Pubblicato il 16 agosto, 2011 in Politica estera | No Comments »

Barack Obama (Ansa)Barack Obama (Ansa)

Devo fare due premesse. Non sono un economista e non ho, quando osservo la politica americana, un partito preso. Tradotte in chiaro queste due premesse significano anzitutto che non sono in grado di dire, con certezza e convinzione, se il piano approvato a Washington per evitare l’insolvenza corrisponda alle esigenze dell’economia americana e di quella mondiale. E significano, in secondo luogo, che le mie reazioni non sono condizionate da particolari simpatie per l’una o l’altra delle maggiori forze politiche degli Stati Uniti.
Vi sono tuttavia altre domande a cui posso cercare di dare una risposta: concernono Barack Obama, il suo profilo politico e il ruolo dell’America nel mondo. Obama è ancora un liberal, come sembrò essere durante la campagna per le elezioni presidenziali? O non è piuttosto un moderato centrista, desideroso di evitare rotture e pronto a ricercare soluzioni di compromesso? All’inizio della sua presidenza, quando la crisi del credito rischiava di azzerare  grandi banche e grandi industrie, agì con rapidità e con una certa efficacia. Ma negli ultimi mesi è sembrato tentennante e ambiguo. Non ha dato retta ai keynesiani che gli chiedevano di uscire dalla crisi aumentando spregiudicatamente la spesa pubblica. Ha rinunciato a revocare le esenzioni fiscali decise dal suo predecessore. Ha cercato di inserire nel pacchetto finanziario degli scorsi giorni l’aumento delle tasse per i redditi più elevati, ma ha fatto, almeno per ora, un passo indietro. In Libia ha combattuto una guerra a metà, un piede dentro e un piede fuori. Nella questione palestinese ha fissato scadenze che il governo di Benjamin Netanyahu ha ignorato.  In Afghanistan e in Iraq vuole al tempo stesso il ritiro delle truppe americane e la stabilità politica dei due paesi: obiettivi difficilmente conciliabili. Sappiamo che voleva cambiare gli aspetti più discutibili della politica del suo predecessore, diminuire le spese militari, abbassare la soglia dell’interventismo americano negli affari mondiali, ridurre i poteri di Wall Street, aggiungere con la riforma sanitaria un tassello importante all’architettura dello stato assistenziale americano. Ma il quadro resta piuttosto incerto e confuso. Oggi, a quasi tre anni dall’inizio del mandato, Obama non piace né alla sinistra liberal e progressista, né alla tradizionale destra repubblicana.
Ho scritto «tradizionale» perché il confine tra le due maggiori forze politiche del paese è stato spostato dall’esistenza di una nuova destra populista e libertaria (il movimento del Tea party) che si è servita dello scontro sul tetto del debito pubblico per  una battaglia ideologica contro la natura dello stato americano. Il Tea party non vuole soltanto la morte politica di Obama. Vuole soprattutto ridurre drasticamente la presenza dello stato nella società e spera di raggiungere lo scopo imponendogli una severa cura dimagrante. Mentre Obama e la destra tradizionale cercavano di trovare il giusto mezzo tra riduzione della spesa pubblica e livello dell’imposizione fiscale, il Tea party voleva chiudere contemporaneamente il rubinetto della spesa e quello del gettito.
Quali sarebbero gli effetti di una tale politica sul ruolo degli Stati Uniti nel mondo? Non credo che questa domanda preoccupi i dottrinari del Tea party. La nuova destra è l’ultima incarnazione di un’America puritana nel campo dei costumi sessuali, libertaria in economia e soprattutto isolazionista, vale a dire convinta che questo grande paese debba voltare le spalle alle cose del mondo e occuparsi soltanto di se stesso. Se le cose sono in questi termini la crisi provocata dal tetto del debito non è soltanto materia  di lavoro per i ministri dell’Economia dell’Unione Europea. È anche e soprattutto materia per i suoi ministri degli Esteri e capi di governo. Sergio Romano per Panorama