Archivi per agosto, 2011

LE TANGENTI ROSSE: “PENATI CHIESE VENTI MILIARDI PER IL PARTITO”

Pubblicato il 3 agosto, 2011 in Costume, Cronaca, Politica | No Comments »

Milano – A questo punto, dopo ave­re letto le accuse circostanziate e devastanti che gli muove uno dei suoi stessi alleati, quel Diego Cotti della lista «Sesto per Penati» che racconta a Panorama di aver rice­vuto una richiesta di venti miliari di lire per sbloccare l’area Falck, una domanda sorge inevitabile: ma perché diavolo la Procura di Monza non ha chiesto l’arresto di Filippo Penati? Perché, di fronte ad una massa di elementi d’accu­sa ben più pesanti di quelli che qua e là per l’Italia spediscono gli indagati al fresco, l’ex presidente della Provincia di Milano nonchè numero uno del Partito Democra­tico al nord, continua ad essere un semplice indagato a piede libero? L’unica risposta che viene dagli ambienti investigativi è che la par­te­più grave dei reati attribuiti a Pe­nati risale a diversi anni fa, e che una richiesta di arresto si sarebbe pertanto scontrata con un diniego del giudice preliminare. «Ma- ag­giungono fonti vicine alla Procura – non è detta l’ultima parola…». Di certo, le nuove accuse contro Penati e il suo braccio destro Gior­da­no Vimercati cambiano radical­mente il quadro dell’inchiesta: perché stavolta a parlare non è un imprenditore in difficoltà come Piero Di Caterina o un rivale politi­co come Giuseppe Pasini, ma un uomo politicamente assai vicino a Penati: tanto vicino da avere affian­cato e sostenuto con una lista la sua candidatura a sindaco di Se­sto. Si chiama Diego Cotti, dirigen­te dell’Associazione industriali del nord Milano, esponente della Margherita ed ex genero di Pasini. Intervistato da Panorama , Cotti è andato giù pesante: come aveva fatto poco tempo prima nel corso di due interrogatori davanti ai pm monzesi che indagano su questa sorta di Tangentopoli rossa. E il suo racconto chiama in causa, ol­tre alla passione di Penati per il de­naro contante, anche il vero co­protagonista di questo scandalo: le Coop, i colossi dell’edilizia di si­nistra che da sempre sostengono finanziariamente i Ds e poi il Pd, e la cui presenza negli appalti era im­posta senza mezzi termini. «Non ti facciamo perdere tempo, ma tu ci devi dare i soldi»:Questo Cotti rac­conta di essersi sentito dire da Vi­mercati, alla presenza di Penati, in un incontro nell’estate del 2000 per discutere del futuro dell’area Falck. Vimercati, racconta Cotti, gli dis­se: «Pasini compera i terreni, li compera di fatto grazie a noi per­ché noi siamo i mediatori in questi affari. Ci riconosca la mediazione che si pattuisce abitualmente. I sol­di servono non solo a noi, la politi­ca ha dei costi, servono per Milano provincia, servono per scalare il partito, servono per Roma». L’in­contro, racconta Cotti, avviene nel Municipio sestese, in piazza della Resistenza. Vimercati parla, Penati assiste in silenzio. Il contri­buto economico, dice Vimercati a Cotti, «serve per Penati, per avere un ruolo più importante nel parti­to ». Vimercati e Penati, insomma, si rivolgono all’alleato Cotti perché il messaggio arrivi a Pasini. E in un incontro successivo, questa volta con il solo Vimercati, Cotti si sente precisare ulteriormente il messag­gio: «Mi disse: l’area Falck la può comprare solo uno che diciamo noi, perché fa parte di un accordo più vasto. La può comprare Pasini, se vuole, perché noi abbiamo ga­rantito che lui è un imprenditore serio e corretto e noi lo possiamo gestire perché è amico mio. Però se fa questa cosa deve coinvolgere le cooperative». Cotti specifica: «Non si riferiva a quelle locali, che infatti si infuriarono, ma a quelle emiliane, la Ccc, perché risponde­vano ad altri meccanismi». Diego Cotti,nell’intervista a Pa­norama , spiega anche come dove­va avvenire il pagamento: «All’ini­zio si pensò alla costituzione di una società di consulenza che fat­turasse il denaro, ma poi l’idea ven­ne scartata. A questo punto mi fu detto da Giordano Vimercati che di questa cosa non mi dovevo più occupare perché l’avrebbe segui­ta Piero Di Caterina. Di questa estromissione fui ben lieto». Il rac­conto, insomma, coincide perfet­tamente con quelli di Pasini e Di Caterina, gli altri testi chiave del­l’indagine su Penati. E proprio per­ché i tre pezzi del domino vengo­no messi a verbale da persone as­sai distanti l’una dall’altra, l’ipote­si di un complotto a base di calun­nie – cui si sta disperatamente ag­grappando la difesa di Penati- ap­pare sempre più difficile da soste­nere. Ma non è solo la posizione perso­n­ale di Penati ad uscire appesanti­ta da questa svolta dell’indagine. C’è il passaggio dell’intervista di Cotti in cui si dice chiaramente che, secondo Vimercati, una parte dei miliardi non doveva fermarsi né a Sesto né a Milano, ma viaggia­re verso la Capitale, verso le casse nazionali del partito: «Servono per Roma», avrebbe detto il brac­cio destro di Penati. Dove,all’epo­ca, esistevano ancora i Ds, guidati da Walter Veltroni.
…..Si attende la solita bischerata romagnola di Bersani a commento dell’ulteriore sviluppo dell’inchiestra di Sesto San Giovanni che definitivamente distrugge il falso mito della diversità dei comunisti, ex o post che siano. g.

IL PALADINO DELLA CASTA E’ FINI CHE HA SALVATO I VITALIZI DEGLI EX PARLAMENTARI

Pubblicato il 3 agosto, 2011 in Costume, Politica | No Comments »

La difesa della casta è qualco­sa di politicamente molto scorretto, adesso. E chissà, Gianfranco Fini non ha calcolato forse il rischio di esporsi «a gamba tesa», come accu­sa l’Italia dei Valori, a tutela dei privi­legi. All’ordine del giorno dell’Idv, che chiedeva di abolire per sempre il vitalizio dei deputati, il presidente della Camera ha risposto con uno stop: «inammissibile». Non è possi­bile, ha detto,perché è«incostituzio­nale ». Non ha calcolato Fini in che guaio è andato a infilarsi con questo «no» scandito in ufficio di presiden­za. l’Italia dei Valori ha subito annun­ciato di non votare il bilancio inter­no della Camera, ma soprattutto questo rifiuto all’abolizione del vita­lizio, privilegium privilegiorum , ri­suona davvero come una mossa da rappresentante integralista della ca­sta, e non certo come un comporta­mento da buon riformatore dei vizi di palazzo. E poi non è bastato che Fini abbia correttosuccessivamente: volevadi­re, cioè,che l’idea dei dipietristi è otti­ma, ma che non può valere per la legi­slatura in corso, quanto «per il futu­ro ». Tanto più che l’Italia dei Valori l’ha rosolato a puntino tirando fuori un ordine del giorno identico sulla cancellazione dei vitalizi, presenta­to dallo stesso deputato (Antonio Borghesi) un anno fa, e che non ave­va avuto nessun rifiuto pre- aula, ma era stato discusso nell’emiciclo,sal­vo essere affondato, come immagi­nabile, da più di quattrocento «no». E dunque, perché Fini ha tirato fuori ora la storia dell’incostituzionalità ora e non nel 2010? Insomma, è facile parlare di tagli alle saponette dei bagni e alle auto blu, ma se si va a pizzicare i vitalizi do­rati, nemmeno il fondatore di Futu­ro e Libertà riesce a combattere il ri­chiamo della casta. Va detto che in uf­ficio di presidenza, composto anche da quattro vicepresidenti, tre questo­ri e otto deputati segretari, nessuno l’ha contestato,tutti i rappresentan­ti dei gruppi presenti hanno lasciato correre, ma «la scelta gravissima», per l’Idv,è soprattutto quella di Fini. Nell’ordine del giorno si chiede «la soppressione immediata di ogni forma di assegno» denominato ap­punto vitalizio, di cui un deputato può godere con soli cinque anni di mandato, al compimento dei 65 an­ni di età (60 in relazione alla durata del mandato), e di «destinare la me­desima quota dell’indennità parla­mentare alla gestione separata pres­so l’Inps». Si propone in sostanza di equiparare, almeno da questo pun­to di vista, un deputato a un cittadi­no normale. Secondo i promotori, questo intervento garantirebbe un risparmio per la Camera di circa 100 milioni di euro l’anno. Ogni parlamentare versa mille e sei euro al mese per il vitalizio. La pensione-premio va da un minimo di 2.486 a un massimo di 7460 euro al mese, circa il triplo di quella percepi­ta dai colleghi europei. La precisazio­ne succes­siva di Fini è stata una retro­marcia che ha solo complicato le co­se: la scelta sull’ordine del giorno del­l’I­talia dei Valori è stata fatta conside­rando il metodo, «ovviamente pre­scindendo da qualsiasi giudizio di merito che potrà, (e a mio avviso do­vrà) esserevalutatodalleforzepoliti­che attraverso conseguenti iniziati­ve legislative». Il metodo sarebbe appunto l’inter­vento anche sugli assegni in corso, coneffettoretroattivo, perché, haob­biettato Fini, «in contrasto con i prin­cipi generali posti dalla giurispru­denza della Corte Costituzionale». Ma a Fini si potrebbe obbiettare che l’ultima manovra economica, per esempio, è intervenuta sulle pensio­ni in essere, nel caso dei tagli a quelle superiori ai 90mila euro, e quindi non sarebbe uno scandalo attuare fin da subito il taglio all’assegno per­petuo, tantopiù che l’ultima relazio­ne annuale dell’Inps dice che la me­tà delle pensioni percepite dagli ita­liani è sotto i 500 euro. «Altro che metodo!- è stata la repli­ca conro Fini del capogruppo del­­l’Italia dei Valori Massimo Donadi ­L’ordine del giorno dell’Idv è stato re­spinto per la paura d­i sostenere le cri­tiche dell’opinione pubblica nel boc­ciarlo »,in aula,qualora fosse andato al voto e non fosse stato congelato prima, come è invece avvenuto. In serata il questore della Camera Anto­nio Mazzocchi (Pdl) ha poi chiarito che«l’ufficio di presidenza di Monte­citorio ha deliberato la sostituzione dell`attuale istituto del vitalizio a de­correre dalla prossima legislatura, con un nuovo sistema previdenzia­le, analogo a quello previsto per la ge­neralità dei lavoratori ».Insomma,la stangata degli assegni perpetui ri­guarderà i prossimi parlamentari. E sarà affare del futuro presidente del­la Camera. Emanuela Fontana, Il Giornale, 3 agosto 2011
……L’articolo non ha bisogno di commenti. Si sa che Fini è solito predicare bene e razzolare male. Specie quando in campo ci sono i suoi personali interessi. Perchè è lui il primo che, destinato come Bertinotti a sedere ai giardinetti dopo la fine dell’attuale legiuslatura,  vedrebbe sfumare benefici e vantaggi e quindi si  preoccupa di tutelare il suo “futuro”. Intanto si ha notizia che la Regione Lazio ha “affossato” la delibera con cui si intendevano  coprire  d’oro i dirigenti dell’Ente: ora della delibera nessuno si dice padre e nemmeno orfano. Semplicemente hanno tentato e il colpo non è riuscito. Per cui …alla prossima. g.

CAPITALI VOLANTI COME CAVALLETTE, l’editoriale di Mario Sechi

Pubblicato il 3 agosto, 2011 in Economia, Politica | No Comments »

Non mi stanco mai di scrivere che è l’economia che fa l’economia e, aggiungo, è la finanza che fa la finanza. Stati e banche centrali hanno poteri limitati, i mercati finanziari sono liberi e ingovernabili, si muovono come organismi che hanno vita propria e nessun capo di Stato può staccare la spina a un mondo dove «il denaro non dorme mai». La fine dell’ordine di Yalta, il declino dell’era americana, il tramonto dell’euroforia, l’ascesa di Pechino e la globalizzazione in tempo reale sono i veri temi dell’agenda contemporanea. In mezzo a questa tempesta, il governo italiano cerca di difendere il nostro debito sovrano, il risparmio, le banche e la stabilità economica. Uno dei più grandi imprenditori del Paese ieri mi diceva: «Ai nostri tempi sapevamo che cosa era bene e male. Oggi decidiamo di svoltare a destra, non succede niente. Proviamo a svoltare a sinistra, non succede niente. Solo che la macchina non si può spegnere e sta andando contro un muro». Sono i frutti della teologia di Maastricht, è il vero volto del totem dell’euro senza politica. Berlusconi oggi parlerà alle Camere. Se la Borsa andrà su non avrà meriti. Se andrà giù non avrà colpe. Non siamo di fronte a una crisi del credito ma dell’insolvenza, è l’era dei titoli tossici e dei derivati, un castello di carta dieci volte più grande della ricchezza mondiale: 63 trilioni di dollari di Pil contro 615 trilioni di dollari di derivati in giro per il mondo. Flying capitals, capitali volanti. Somigliano maledettamente alle cavallette e nessuno ha il coraggio di usare l’insetticida.Mario Sechi, Il Tempo, 3 agosto 2011

NELLA REGIONE LAZIO LA CASTA E’ IMPAZZITA? ZITTA ZITTA PROVA A RADDOPPIARSI LO STIPENDIO

Pubblicato il 2 agosto, 2011 in Politica | No Comments »

Roma - Altro che tagli e sacrifici per tutti. Altro che trasparenza e contenimento delle spese nella pubblica amministrazione. Alla Regione Lazio sarebbe pronta una delibera per raddoppiare quasi lo stipendio ai dirigenti del Consiglio: da 4.500 a 7.500 euro netti al mese, con un lordo annuo che passerebbe da 100mila a 175mila.
Secondo le nostre fonti sarebbe stata già discussa dall’Ufficio di Presidenza consiliare e ci si preparerebbe all’approvazione forse anche in settimana. Ma gli interessati ora assicurano che ancora non c’è la decisione definitiva.
Il fatto è che in questi anni, a via della Pisana, si è molto largheggiato nell’assumere dirigenti esterni all’organico regionale, con stipendi d’oro da 200mila euro lordi all’anno (circa 8.500 netti al mese) per la prima fascia e 100-110mila per la seconda fascia.
I dirigenti interni si sono risentiti e hanno chiesto un adeguamento economico. Due hanno anche fatto ricorso al giudice del lavoro contro l’assunzione ingiustificata degli esterni. Per evitare troppo can can attorno a questa storia ben poco edificante, la Regione vorrebbe metterli a tacere con il raddoppio di stipendio. L’assunzione di dirigenti esterni è consentita solo in casi straordinari (mentre qui parliamo anche di incarichi di nove anni) ed entro limiti precisi. «Ma oggi nel Consiglio regionale laziale ci sono cinque dirigenti esterni di prima fascia, invece dell’unico consentito. E ben sette di seconda fascia, «invece dei quattro massimo previsti dalla dotazione organica», dice Roberta Bernardeschi, segretario del sindacato dei dirigenti Direr. Che queste cose le ha già denunciate ad aprile in una lettera ai vertici di Regione, Corte dei conti, ministeri dell’Economia e della Pubblica amministrazione. Lettera caduta nel vuoto.
L’occasione per chiedere l’aumento di stipendio ai dirigenti interni è stata fornita su un piatto d’argento dal prepensionamento di alcuni colleghi e dal blocco del concorso per 25 nuove assunzioni, per una serie di ricorsi al Tar. Lamentando di dover lavorare di più, a causa dei posti vacanti, hanno preteso di arrivare ai livelli retributivi dei dirigenti esterni. Chi in Regione ci lavora assicura che il doppio carico di lavoro è fittizio. Ma se anche fosse diversamente, un aumento così sarebbe straordinario. Anche senza crisi.
Visto che nulla è ufficiale e trasparente non si sa quanti sono gli interessati: tra gli 11 e gli 8. Ed è facile immaginare che un così pesante scatto retributivo per loro provocherebbe un effetto a cascata, con pretese da parte di altri dirigenti. Magari anche i 17 capi di segreteria scelti da esponenti politici di tutti i partiti, equiparati ai dirigenti senza averne i titoli e premiati con stipendi di 4mila euro netti al mese. Per fare la proposta all’Ufficio di presidenza, una ventina di giorni fa, si è mosso il segretario generale del Consiglio regionale, Nazzareno Cecinelli, un signore da circa 11mila euro netti al mese, visto che ai suoi 210mila euro annui (il tetto massimo) ha aggiunto da ottobre (ma con decorrenza da luglio) altri 50mila, perché ha assunto l’interim di Direttore di servizio. Ora c’è un bando e questo secondo incarico andrà ad un altro dirigente esterno, sempre da 200mila euro all’anno.
Tutta l’operazione si è svolta in gran segreto per non far scoppiare polemiche. Ed è stato abbastanza facile perché l’interesse è trasversale ai partiti, come i dirigenti interessati. Il presidente del Consiglio regionale Mario Abbruzzese (Pdl), sembra qualche dubbio l’abbia avuto, ma non ha detto di no. «Per ora è tutto fermo – spiega al Giornale – dobbiamo discuterne. E si tratterebbe solo del 25 per cento di stipendio in più». «Ci rendiamo conto – assicura il vicepresidente Bruno Astorre (Pd) – che in questo momento si chiedono sacrifici ai cittadini per la crisi, ma c’è una carenza dei dirigenti in pianta organica e aumenta il carico di lavoro sugli altri. Comunque, si tratterebbe di una delibera a tempo determinato, massimo un anno». Giuseppe Rossodivita, capogruppo dei radicali in Consiglio, dice di non saperne nulla: «Solo voci. Se fossero vere, si aggiungerebbe un altro tassello alla totale mancanza di trasparenza in cui vive la Regione. Oggi non dovrebbero aumentare di un centesimo la spesa per il personale, per evitare un possibile danno erariale».
.…..Ma sarà vero?! Se lo fosse non di impazzimento si tratterebbe ma di una vero e proprio atto delinquenziale per il quale occorre che intervengano i carabinieri (la Guardia di Finanza è impegnata in altre attività) per prenderli e portarli tutti a Regina Cieli. E avanti a tutti la signora Polverini, cioè l’ex capo di un sindacato che un tempo si fregiava dell’aggettivo “nazionale” intendendolo come valore e non come specificazione territoriale. Quella signora Polverini che negli ultimi tempi si è fatta notare,  più che per provvedimenti tesi a sanare vecchie questioni del Lazio e promuovere iniziative  di sviluppo in sintonia con quel che conclamava dai salotti televisivi nei quali, nel recente passato,  spesso era ospite,  per le arroganti aspirazioni a capeggiare nuovi movimenti politici e per le attrettanto arroganti arringhe infarcite di parolacce e romaneschi sberleffi rivolte ai suoi oppositori. Ebbene, la signora Polverini che era una signora nessuno sino a quando Berlusconi non ha deciso di adottarla e farla eleggere a capo della regione più “centrale” d’Italia,  se la notizia di questa delibera fosse vera, farebbe bene a intervenire e a impedire che essa sia adottata e resa operativa. Ovviamente ci auguriamo che la cosa sia finita sul tavolo del presidente Napolitano che dopo aver rinunziato a 68 euro mensili di aumento del suo appannaggio ha titolo a impedire che altri non lo imitino. Non fossaltro per ragioni di equità. g.

NO, L’INCIUCIO NO, di Alessandro Sallusti

Pubblicato il 2 agosto, 2011 in Economia, Politica | No Comments »

Silvio Berlusconi domani sarà in aula alla Camera a fare il punto sulla crisi economi­ca. Ieri la nostra Borsa ha preso una brutta botta, più o meno in linea (fatta la tara sul­la situazione dei debiti) con quelle di Parigi, Ma­drid e Francoforte. Il mix tra la crisi americana e l’attacco degli speculatori sta facendo danni enor­mi. I governi nazionali fanno quello che possono per arginare l’onda. Quello italiano ha convocato per giovedì le parti sociali che avevano chiesto un vertice di svolta. Quando le cose girano al peggio tornano i vecchi riti della concertazione, come se sindacati e Confindustria avessero la bacchetta magica o la verità in tasca. Purtroppo è l’inverso. Proprio le parti sociali, complice una politica scel­lerata, sono le responsabili della mamma di tutti i mali, quel debito pubblico gigantesco accumula­to nei decenni di cogestione impropria della cosa pubblica. Dalle pensioni alla sanità, dal pubblico impiego alla grande impresa assistita, e più in ge­nerale agli aiuti di Stato non c’è voce importante della voragine di bilancio che non porti la firma di Cgil e industriali.

C’è quindi da fidarsi di una loro ricetta anti crisi? Non penso. Tasse in cambio di assunzioni, pace so­ciale barattata con la libertà d’impresa: questo è stata fino a ora la linea. E adesso che la melma è arri­vata al collo danno la colpa al governo, figlio del­l’unica politica, quella del centrodestra, che ha al­meno provato (fino ad ora senza raggiungere l’obiettivo)a invertire la rotta. Da Reagan in Ameri­ca alla Thatcher in Gran Bretagna, la recente storia dell’Occidente dimostra che un Paese lo si salva con un guida forte che ha il coraggio di mettere le parti sociali di fronte alle loro colpe e alle loro re­sponsabilità senza guardare in faccia a nessuno, di liberare energie. È quello che ci si aspettava da Tre­monti, è quello che ancora in molti si aspettano da Berlusconi e dal suo governo (in difficoltà ma anco­ra vivo). Il resto sono soltanto chiacchiere o mano­vre di palazzo per tentare l’ennesimo ribaltone. Il Giornale, 2 agosto 2011

MEGLIO IL MARE CHE I TAGLIETTI

Pubblicato il 2 agosto, 2011 in Politica | No Comments »

Banchi vuoti in Parlamento Sembravano undici uomini in barca. E invece era un manipolo di eroi che assisteva alla relazione dei questori della Camera sui «taglietti» al bilancio di Montecitorio. Essendo l’aula praticamente vuota, e conoscendo le abitudini di Montecitorio, suppongo che gli altri 619 onorevoli non fossero alla toilette, ma in qualche altro lido. Uso questa parola non a caso, perché ho la netta sensazione che in troppi fossero al mare. Torneranno tutti oggi e solennemente voteranno questo e quel risparmio, qualcuno si indignerà, altri diranno che finalmente ci si incammina su una strada virtuosa. Nessuno dirà che l’assenza del giorno prima è una vergogna. In qualsiasi organizzazione, azienda e istituzione, quando si discute di bilancio, di conti e soprattutto del portafoglio dei contribuenti, si fa il piccolo sforzo di essere tutti presenti. Invece no, quasi tutti vacanti, già pronti per le vacanze. Qualche volta, lo ammetto, mi sembra di essere un qualunquista, ma il Palazzo riesce a smentirmi con una rapidità impressionante: ieri congelano le pensioni degli italiani e rinviano i tagli ai loro stipendi, oggi cominciano a sforbiciare qualcosa ma certificano quanto sia insignificante con la loro assenza in aula. Ora minacciano insieme ai sindacati di occuparsi di sviluppo con un appuntamento parlamentare agostano. Francamente, con tutto il rispetto per le istituzioni, abbiamo una preghiera: per favore andate al mare. Mario Sechi, Il Tempo, 02/08/2011

TANGENTI: L’ITALIA E’ INVASA DAGLI SCANDALI PD, 101 ESPONENTI INDAGATI

Pubblicato il 1 agosto, 2011 in Politica | No Comments »

Altro che macchina del fango! Da Flavio Delbono, ex sindaco di Bologna, ad Agazio Loiero, ex governatore della Calabria, fino ad Antonio Bassolino e Rosa Russo Iervolino: da Nord a Sud, trema un intero partito. Eppure Bersani ha il coraggio di tirare fuori la “superiorità a sinistra”

Se i sondaggi dicessero la verità e se ieri si fosse votato per il rinnovo del Parlamento, oggi Pier Luigi Bersani sarebbe a palazzo Chigi e il Pd avrebbe la maggioranza dei seggi. Interrogarsi sulle violazioni di legge più o meno gravi che vengono imputate a questo o a quel dirigente del Pd non significa dunque imbracciare il giustizialismo per favorire un’altra parte politica, né accanirsi su una forza marginale o sconfitta, ma chiedere al presidente del Consiglio in pectore di rassicurare gli italiani. Se davvero vuol essere un candidato credibile per Palazzo Chigi, Bersani non può più nascondersi dietro la propaganda: lo esigono non i suoi avversari, ma i suoi elettori.
La scorsa settimana, subito dopo aver scritto due lettere al Corriere e al Fatto per rispondere ad alcune obiezioni sull’inchiesta che coinvolge Filippo Penati, il segretario del Pd ha repentinamente cambiato linea: i giornali, anziché essere il luogo dove liberamente si confrontano i politici e l’opinione pubblica, sono improvvisamente diventati il motore della «macchina del fango». La propaganda ha avuto la meglio sulla chiarezza, e poiché il Pd non se la sente di incolpare i magistrati, per esempio sollevando un dubbio sulla sospetta coincidenza di tante inchieste vecchie e nuove proprio quando le elezioni anticipate sembrano vicine, volge i suoi strali contro i giornali, la cui unica colpa (o merito) è pubblicare quello che le Procure forniscono loro.
È un trucco antico: l’attenzione si sposta su un avversario riconoscibile e cattivissimo (i media vicini a Berlusconi), e così si occulta la cosa in sé, cioè le inchieste e i reati contestati. Il Giornale qualche volta potrà pure esagerare nei titoli e negli aggettivi, come del resto spesso esagerano nella direzione inversa i giornali di centrosinistra, ma quel ch’è certo è che le inchieste non se l’è inventate la «struttura Delta», ma i magistrati tanto coccolati dal Pd.
L’elenco pubblicato dall’ultimo numero di Panorama – che sarà pure di proprietà di Marina Berlusconi, ma che qui si limita a mettere insieme fatti già noti – è impressionante: sono oltre un centinaio in tutta Italia (e soprattutto nelle Regioni dove governano) i democratici coinvolti a vario titolo – dall’avviso di garanzia al rinvio a giudizio alla condanna – in inchieste per reati di corruzione, abuso d’ufficio, peculato, falso, truffa, turbativa d’asta e via elencando.
Parte di questi reati, come sanno bene gli amministratori locali di ogni partito, sono frutto di una legislazione farraginosa e di una giurisdizione barocca: si può essere condannati per abuso d’ufficio soltanto per aver accelerato una pratica urgente e necessaria. In altri casi (impressionante quello dell’ex governatore dell’Abruzzo, Ottaviano Del Turco) si tratta di un clamoroso errore giudiziario (se non peggio). Ma, fatta la debita tara, il problema resta, ed è di primaria grandezza.
Dall’ex sindaco di Bologna Flavio Delbono all’ex governatore della Calabria Agazio Loiero, dagli ex sindaci di Napoli Antonio Bassolino e Rosa Russo Iervolino all’ex governatore dell’Umbria Maria Rita Lorenzetti, l’elenco degli amministratori del Pd costretti a trovarsi un avvocato sta diventando imbarazzante.
Le ultime inchieste – sull’Enac (l’ex responsabile dei trasporti aerei Franco Pronzato ha già patteggiato, riconoscendosi dunque colpevole), su Enzo Morichini e i suoi rapporti con la Fondazione Italianieuropei, e infine sull’ex coordinatore della segreteria di Bersani, Filippo Penati – non segnano dunque una discontinuità ma, al contrario, sembrano confermare una tendenza consolidata. Per un partito che ancora di recente ha voluto rispolverare l’equivoca «questione morale», di cui a suo tempo Enrico Berlinguer si servì per rinchiudere il Pci nel ghetto dell’antisocialismo in cui ancora si ostina a vivere Rosy Bindi, qualcosa non torna.
Caro Bersani, permettimi un po’ rudemente di metterla così: o c’è un grande complotto della magistratura contro il Pd, secondo soltanto a quello contro Berlusconi, oppure nel Pd c’è troppo malaffare. In entrambi i casi, sarebbe bene dirlo chiaro. Non perché lo chiedono i giornali di destra (ma anche quelli di centro e di sinistra, curiosamente risparmiati dai proclami di guerra), ma perché lo domandano sinceramente gli elettori. Che vogliono sapere, e ne hanno diritto, in che modo il Pd amministra la cosa pubblica, come seleziona i suoi dirigenti e i suoi amministratori, quali rapporti intrattiene con la pubblica amministrazione e con l’impresa privata. Non basta proclamare di tanto in tanto la volontà di uscire dalle Asl o dalla Rai (senza peraltro metterla mai in pratica): prima di lasciarle è bene chiarire come ci si comporta, nelle Asl e in tutti gli altri gangli del potere pubblico. La costruzione di un’alternativa democratica in Italia passa per la trasparenza e il coraggio civile, non per l’ipocrisia e la propaganda.

FINI, DA MONTECARLO A CASA TREMONTI

Pubblicato il 1 agosto, 2011 in Politica | No Comments »

DI FRANCESCO DAMATO

Gianfranco Fini Valigie piene e parole vuote. Le valigie piene sono quelle che i politici hanno già portato via per le vacanze, o che hanno pronte al piede essendo in partenza, ma con la pretesa di farci credere che smaniano dalla voglia di disfarle per rimanere a Roma, a disposizione dei presidenti delle Camere. Dei quali ce n’è uno, l’ormai solito Gianfranco Fini, che si mostra contrariato per le resistenze del governo alle richieste di correre a farsi processare in Parlamento. Dove c’è infatti il solito – pure lui – Antonio Di Pietro smanioso di presentare la sua brava mozione di sfiducia, in un ennesimo esercizio da “asilo infantile”, come ha giustamente osservato un rinsavito Pier Ferdinando Casini dopo avervi un po’ ceduto anche lui. Le parole vuote, di contenuto e di sincerità, sono quelle che gli stessi politici pronunciano per farci credere, appunto, che sono partiti o stanno partendo malvolentieri per le vacanze. Alle quali sarebbero praticamente costretti solo da un governo sordo alle esigenze di farli lavorare ancora e di chiarire i misfatti suoi in generale e quelli, ora, in particolare del ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Che nei suoi approcci con il problema casa, dopo avere disinvoltamente adoperato a Roma quella di un suo consigliere finito nei guai giudiziari, è riuscito a sorprendere persino Fini. Che proprio in una casa, quella ormai famosa di Montecarlo, lasciata in eredità al suo vecchio partito da una sfortunata elettrice di destra, è letteralmente e rovinosamente inciampato, peraltro senza avvertire il dovere di rassegnare le dimissioni. Eppure egli vi si era impegnato pubblicamente se fosse risultato ciò che le carte trasmesse dal Ministero degli Esteri alla magistratura romana, fra le rumorose proteste parlamentari dei suoi amici, hanno poi confermato: che cioè quell’appartamento è finito a prezzo, diciamo così scontato, nella piena disponibilità di suo cognato. Immagino il fastidio di Tremonti, al netto dei suoi indubbi e madornali errori quanto meno di comportamento, e dell’increscioso pasticcio nel quale si è messo anche nei rapporti con la Guardia di Finanza, nel vedersi in qualche modo additato in questi giorni pure da Fini. Che peraltro già una volta, due legislature fa, quando faceva ancora parte della coalizione berlusconiana di centrodestra, ne determinò l’allontanamento dal governo dopo avergli gridato in faccia, durante un vertice politico, all’incirca così: «Potrai anche intenderti di economia ma di politica non capisci un cazzo». Se non fu proprio questa la frase, vista la sua pesante portata, chiedo scusa per i colleghi che imprudentemente la riferirono facendola entrare nella letteratura politica dalla quale l’ho tirata fuori. Fra le parole vuote di contenuto e di sincerità che si leggono e si sentono in questi giorni di apparentemente sofferta partenza per le vacanze, o di prudente e sentito rinvio, come nel caso del presidente della Repubblica, ci sono quelle che hanno continuato a riproporre anche ieri il tema di un nuovo governo ispirato, diciamo così, dal capo dello Stato. Che dovrebbe nascere in autunno per sostituire quello di Berlusconi, del quale si immagina da parte degli avversari politici la caduta stagionale come le foglie dagli alberi, a dispetto della maggioranza di cui esso dispone sia al Senato sia alla Camera: una maggioranza più volte certificata con voti di fiducia dopo il 14 dicembre scorso, il giorno del fallito assalto finiano. Il coro di queste parole vuote ha tuttavia indotto Casini a prenderne lodevolmente ieri le distanze non solo destinando al già citato asilo infantile la minacciata mozione di sfiducia di Di Pietro, ma anche avvertendo le altre componenti dell’opposizione che un nuovo governo “di armistizio”, come lui lo chiama, per avere qualche seria possibilità di nascere non può essere concepito in chiave “punitiva” nei riguardi di Berlusconi e del Pdl, visti i voti che l’uno e l’altro hanno “incassato” nelle ultime elezioni politiche. Ma è proprio questo carattere punitivo che il Pd della Rosy Bindi, di Pier Luigi Bersani e compagnia bella insegue immaginando l’arrivo dal Cielo, cioè dal Colle, di Mario Monti o di qualche altro “tecnico” a Palazzo Chigi. Come sarebbe avvenuto- usa spesso ricordare Walter Veltroni- con l’allora governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi nel 1993. «Gli ottimi nomi di tecnici che girano – ha opportunamente ammonito Casini in una intervista al Corriere della Sera – non possono espropriare la politica. Sono i partiti che devono assumere la consapevolezza di guidare una fase nuova». Ciampi infatti arrivò a Palazzo Chigi con la spinta dell’allora Pds-ex Pci e con la rassegnazione di una Dc e di un Psi ormai agonizzanti. Così come l’anno prima Giuliano Amato vi era arrivato su designazione del Psi di Bettino Craxi e della Dc di Arnaldo Forlani, azzoppati ma non ancora finiti. Per quanto malmessi, Berlusconi e il Pdl, ma anche la Lega, non sono nelle condizioni della Dc e del Psi ai tempi del governo Ciampi. E neppure Bersani, con i suoi Penati, è nelle condizioni del baldanzoso, per quanto arruffato, Achille Occhetto del 1993. Casini, che proviene pur sempre dalla scuderia forlaniana, evidentemente ha buona memoria. Che una volta tanto cerca di mettere a profitto.  Francesco Damato, Il Tempo, 01/08/2011