Archivi per settembre, 2011

CASO BERLUSCONI-TARANTINI: LE “CARTE” SPEDITE A BARI MA SFUMA L’ESTORSIONE

Pubblicato il 30 settembre, 2011 in Giustizia | No Comments »

Gianpaolo Tarantini e sua moglie ''Nicla '' Angela Devenuto nel 2003 Caso Tarantini punto e a capo. «Tutto come previsto», dicono gli addetti ai lavori. La procura di Roma ha deciso di inviare a Bari gli atti che riguardano Valter Lavitola per l’ipotesi di reato di induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria, la stessa configurata dal tribunale del riesame di Napoli. «Se c’è o non c’è se la vedranno loro», ammettono gli inquirenti. Restano nella Capitale, invece, le posizioni dei cinque soggetti precedentemente indagati per estorsione ai danni di Silvio Berlusconi: Tarantini, la moglie Angela Devenuto (detta Nicla), lo stesso Lavitola e due suoi collaboratori coinvolti nella vicenda in quanto avrebbero ritirato materialmente i soldi destinati dal presidente del Consiglio ai coniugi Tarantini. Il tribunale del Riesame di Napoli ha stabilito che a loro carico non ci sono «gravi indizi di reato», ma spetta al loro giudice naturale (Roma appunto) procedere o meno per la presunta estorsione. tutti e cinque, comunque, possono dormire sonni tranquilli: la loro posizione – si apprende tra i corridoi di piazzale Clodio – «verrà al novanta per cento archiviata». Sì, archiviata. L’estorsione, insomma, non ci sarebbe. L’ipotesi di reato per cui Tarantini è stato messo in carcere il primo settembre (dopo esser stato pedinato il giorno prima) e liberato solo lunedì scorso, dopo 26 giorni di detenzione cautelare a Poggioreale, semplicemente non esisterebbe. E Gianpi – prima indagato e ritenuto capace di fuggire, di inquinare le prove e reiterare il reato – è diventato vittima. Il miracolo è dei pm di Napoli. È grazie a loro che il «caso Tarantini» è tornato alla ribalta. Adesso lui, Gianpi, è tornato in libertà. E a seguirlo – stavolta – sono fotografi e telecamere. «Siamo contenti del risultato – ammette Ivan Filippelli, legale dell’imprenditore barese – ma molto dispiaciuti per quanto è accaduto. Due giovani sono stati privati della libertà per circa un mese per un’ipotesi di reato veramente fantasiosa». Già perché se Tarantini è stato a Poggioreale («ha sofferto molto, parliamo di una delle carceri più dure d’Italia») Filippelli non dimentica l’«aggressione» ricevuta dalla moglie Nicla. «Secondo l’articolo 275 comma 4, la donna non poteva nemmeno essere arrestata (come è avvenuto in un primo momento, ndr). I suoi figli hanno meno di tre anni, parliamo di garanzie fondamentali». Quanto alla carcerazione dell’imprenditore barese l’avvocato non ha dubbi: «È ingiustificabile. È figlia di una frettolosità dettata dalla fuga di notizie che non ha dato ai magistrati la serenità di valutare correttamente gli elementi a disposizione». Adesso Gianpi è una «vittima». Di Lavitola, intanto. Almeno secondo il Riesame di Napoli. E di Berlusconi, forse. Ma questo sarà Bari a deciderlo. Filippelli non è d’accordo. «Se vittima è stato, è stato una vittima inconsapevole – spiega – Quello che ha detto nel 2009 ha ripetuto nel 2011 nelle 200 ore di interrogatorio che ha subito. Non vi è mai stata una versione diversa. Edulcorata. O di comodo». Se così fosse anche Bari dovrebbe archiviare. Dopo centomila intercettazioni, richieste di accompagnamento coatto nei confronti di un primo ministro e un tifone mediatico internazionale che ha travolto il Paese. È la giustizia, bellezza. Nadia Pietrafitta, 30 SETTEMBRE 2011

……Già, è la giustizia, bellezza! E a pagare  le spiate milionarie sono i contribuenti italiani.

LA PAURA DI TORNARE A FARE LA FAME

Pubblicato il 29 settembre, 2011 in Costume, Cultura | No Comments »

DI GIAMPAOLO PANSA

Gianpaolo Pansa Esce il 4 ottobre il nuovo libro di Pansa “Poco o niente”.  Attraverso la storia della sua famiglia  Pansa racconta l’Italia derelitta che ha sfondato e quella che ora è sull’orlo del baratro. Eccone un’anticipazione  a cura dello stesso Autore.

La grande paura del Duemila è di ritornare poveri. È il timore nuovo che leggo negli occhi di molte persone. E che affiora sempre più spesso anche dalle loro parole, non appena si comincia ad accennare al futuro. Tanti genitori si chiedono quale sarà la vita che attende i loro figli. A volte m’imbatto in nonni angosciati da quanto potrà accadere ai nipoti. Sono pochi quelli che non si fanno domande. E sostengono di non provare nessuna di queste ansie. Li ascolto con un pizzico di invidia perché non hanno i dubbi che, al contrario, inseguono anche me. È questo il regalo del nostro difficile e torbido inizio degli anni Duemila. Prima una crisi finanziaria globale, poi la crisi economica che riduce molti redditi famigliari, la crescita dei disoccupati, l’obbligo di intaccare i risparmi, i bilanci di molte nazioni a rischio di fallimento. E infine il divampare della questione dei giovani: non trovano davvero lavoro o aspirano a un lavoro impossibile da conquistare? Nei decenni passati le cose non andavano così. Certe paure non avevano ragion d’essere. Me lo conferma la mia storia personale. E soprattutto quella della famiglia dove sono nato e cresciuto. Come leggerete in questo libro, mio padre Ernesto e mia madre Giovanna venivano da un’infanzia segnata dalla povertà. Quella di mio padre, poi, era stata marchiata da una condizione ben più dura: la miseria. Ma entrambi guardavano al futuro con fiducia. Ernesto aveva vissuto i primi vent’anni tra gli ultimi della scala sociale. Mangiando poco. Vestendo panni smessi da altri. Calzando scarpe di ripiego, ottenute grazie alla carità del parroco del paese. E soprattutto iniziando a lavorare da bambino. Quando venne arruolato dall’esercito e fu mandato al fronte nella prima guerra mondiale, era un ragazzo soldato che non aveva ancora 19 anni. Ma toccò il cielo con un dito. Si riteneva fortunato e in Poco o niente scoprirete il perché. Alla mia nascita, Ernesto e Giovanna avevano un lavoro in grado di mantenere se stessi e i figli. Lui era un operaio dello Stato, un guardafili delle Regie poste e telegrafi. Lei era diventata una modista e una pellicciaia provetta. Grazie al suo negozio, guadagnava più di mio padre. Ma anche Giovanna ha faticato tutti i santi giorni, sino alla vigilia di morire. Non si sono mai concessi alcun lusso. Non hanno mai posseduto un’automobile. Non sono mai andati in vacanza. Però hanno sempre avuto una certezza: tanto io che mia sorella avremmo vissuto un’esistenza migliore della loro. Una certezza che oggi molti genitori non possiedono più. Ernesto e Giovanna mi hanno fatto crescere senza obbligarmi ad affrontare nessuno dei sacrifici incontrati da entrambi. Mi hanno messo in mano libri che non avevano potuto leggere. Mi hanno aiutato a frequentare scuole che gli erano state negate. Mi hanno protetto con una generosità illimitata, ma avvisandomi che, da un certo momento in poi, avrei dovuto far conto sulle mie sole forze. Li ho sempre visti felici di potermi offrire una vita tutta diversa dalla loro. Mi incitavano ad approfittare del piccolo benessere conquistato anche per me. Dicevano: guarda che non capita a tutti la fortuna di studiare, devi cercare di meritarti il regalo che hai ricevuto, grazie ai nostri sacrifici. Quando sono entrato all’università, era il 1954 e avevo appena compiuto 19 anni, mio padre stentava a nascondere un orgoglio felice. Mi raccontò: alla tua età ero un soldato ignorante, arrivato appena alla quarta elementare, e stavo al fronte insieme a tanti altri militari uguali a me. Molti erano analfabeti, non sapevano neppure parlare l’italiano, si esprimevano unicamente nel dialetto dei loro paesi. Un piemontese e un siciliano potevano morire l’uno accanto all’altro, nella stessa trincea. Però non riuscivano a capirsi: erano come due stranieri arrivati da nazioni lontane. Soltanto gli ufficiali non erano così. Ma anche tra loro di laureati se ne trovavano pochi. Invece tu, caro Giampa, frequenti l’università. E io potrò vantarmi di avere un figlio dottore! Ernesto mi seguì, passo dopo passo, lungo tutto il percorso di studente universitario. In un taccuino segnava gli esami che avevo superato e il voto ottenuto. Mi resi conto che sapeva tutto del corso di studi al quale ero iscritto. (…). Pretendeva che i miei voti fossero sempre alti. Se dopo una serie di trenta, portavo a casa un ventisette, lo scoprivo deluso. Non mi diceva nulla, però capivo che si era aspettato di più. Venne a Torino per assistere alla mia laurea in Scienze politiche, a Palazzo Campana, la sede delle facoltà umanistiche. Stava per compiere 61 anni ed era la prima volta che metteva piede in un santuario della cultura accademica, un operaio fra tanti professori e studenti. Si preoccupò molto nell’ascoltare il battibecco fra il relatore della mia tesi e il presidente della commissione di laurea. Era il magnifico rettore dell’ateneo, un vero barone, autoritario e stizzoso. Si lamentava delle troppe pagine che avevo scritto. Ma forse non gli garbava l’argomento: la guerra civile nella mia provincia, quella di Alessandria, fra Genova e il Po. Ernesto ebbe il timore che il fastidio del rettore potesse nuocere al mio voto di laurea. (…). Però nella vita si era imbattuto in momenti molto peggiori e decise di restare sino alla fine della cerimonia, confuso tra il pubblico. Quando mi vide premiato con il massimo dei voti e la menzione della dignità di stampa, scappò via di corsa a prendere il treno e ritornò da solo nella nostra città, dove lo aspettava mia madre, assai più tranquilla di lui. Alla sera, quando ci ritrovammo a casa, mi abbracciò dicendomi: una laurea come la tua ti garantirà una vita diversa da quella che abbiamo fatto la mamma e io. La stessa certezza ho avuto nei confronti di mio figlio Alessandro. (…) Non nutrivo nessun timore per il suo futuro. Erano i primi anni Ottanta e non esistevano le apprensioni di oggi. Per un bravo laureato l’avvenire era sicuro. Niente precariato. Un lavoro tutelato da un buon contratto. Uno stipendio all’inizio modesto, ma destinato a crescere con il tempo e l’esperienza. Un percorso professionale aperto a ogni possibilità. Una carriera non facile, che tuttavia poteva condurti in alto. Grazie al merito e senza bisogno di contare sulla protezione di qualche santo in paradiso. I padri di oggi come vedono il futuro dei figli? Sempre più spesso sono indotto a pensare che, nella maggioranza dei casi, non siano in grado di prevedere niente. Tanto che, a volte, non si pongono nessuna domanda perché hanno paura della risposta. (…). Giampaolo Pansa

……..La storia dei genitori di Pansa potrebbe essere, anzi è,  la storia dei genitori di ciascuno di noi. E la paura dei padri di oggi per il domani dei propri figli è la nostra stessa paura.g

BERLUSCONI RESTI SINO AL 2013. MA SCELGA IL SUCCESSORE

Pubblicato il 29 settembre, 2011 in Politica | No Comments »

DI FRANCESCO DAMATO

Caro Cavaliere, o dottore, come usavamo chiamarla, e lei preferiva essere chiamato, prima di guadagnarsi il titolo di presidente con la politica presiedendo, appunto, il Consiglio dei Ministri per 9 anni e mezzo dei 17 e più trascorsi dalla sua prima vittoria elettorale. Lei sa bene che i nostri auguri per i 75 anni che compie oggi sono davvero sinceri. Ne avrà avuto una prova di recente, leggendo un editoriale nel quale il nostro direttore Mario Sechi riferiva ai lettori di non avere trovato tra gli analisti e i commentatori de Il Tempo, per una pagina di confronto a caldo tra opinioni diverse dopo una sua battagliera lettera all’amico Giuliano Ferrara, uno disposto a sostenere l’opportunità di un suo «passo indietro». Continuo a ritenere politicamente e costituzionalmente legittimo, e umanamente condivisibile, il suo rifiuto di mollare, cioè di dimettersi, disponendo di una maggioranza parlamentare. Non può lasciare solo perché lo pretendono con monotona insistenza opposizioni incapaci di sfiduciare il governo al Senato o a Montecitorio, neppure con l’aiuto disinvoltamente concesso loro dal presidente della Camera, alla faccia della neutralità istituzionale del proprio ruolo. Né valgono a sostenere le cattive, o insufficienti, ragioni delle opposizioni certi cultori improvvisati dei famosi «mercati». A placare i quali dovrebbe bastare e avanzare una bella crisi di governo, cioè la certificazione di quella instabilità di cui sono ghiotti gli speculatori di ogni risma. O certi devoti altrettanto improvvisati di Santa Romana Chiesa, dei suoi cardinali e dei suoi vescovi, le cui «ingerenze» sono fustigate quando trattano temi come il divorzio, l’aborto, la fecondazione assistita e il testamento biologico, ma apprezzate quando contengono allusivi giudizi critici su taluni Suoi comportamenti privati. Non parlo poi degli aiuti ancora più arbitrari che le opposizioni cercano e ottengono, o trovano senza neppure cercarli, in campo giudiziario. Dove ai vecchi e già numerosi processi contro di lei si sta cercando di aggiungerne altri con una concorrenza tra Procure tanto scomposta quanto indicativa, da sola, dello spirito ossessivo e persecutorio con il quale, più che indagarla, le si dà odiosamente la caccia. Per quanto ben motivata, condivisibile e persino obbligata, non credo tuttavia che la sua resistenza a Palazzo Chigi la esoneri da altri obblighi. O opportunità, come preferisce. Che sono poi in politica la stessa cosa, specie nella nuova versione che proprio lei le ha dato con quella specie di filo diretto che, dal suo esordio, ha voluto e saputo stabilire con i cittadini. La resistenza agli assalti degli avversari, che mi sarebbe piaciuto vedere opporre da lei anche a certi suoi presunti amici, rivelatisi capaci persino di fare la cresta sulla sua generosità, anziché trattenerla da certe troppo gioiose debolezze, aggravate forse dalla solitudine procuratale da chi più di tutti doveva starle vicino, se veramente le voleva bene, anziché rinchiudersi in doratissime dimore e separarsi a mezzo stampa; la resistenza, dicevo, agli assalti degli avversari dev’essere accompagnata con almeno due altre cose. La prima è di varare le misure per la ripresa, che diano un senso e uno sbocco ai sacrifici fiscali già imposti ad un elettorato che ha stentato a capirli, e ancora meno li capirà se non saranno seguiti da interventi contro gli sprechi e i privilegi. E di vararle, queste misure per lo sviluppo, senza aspettarsi dalle opposizioni come «regalo di compleanno – ha detto ieri al Tg5 – di mettere da parte i contrasti e gli scontri e di lavorare tutti insieme per rilanciare l’economia e portare l’Italia fuori dalla crisi». Da quelle parti, mi creda, con lei non sono né generosi né responsabili. L’altra cosa che le spetta di fare, carissimo il mio presidente, non è tanto di chiedere scusa agli italiani per gli errori di stile o comportamento che lei ha sicuramente commesso, come reclama qualche nostro comune amico dimentico che gli italiani ragionevoli e ben disposti l’hanno già perdonata e compresa, specie alla luce dell’uso strumentale che di tali errori stanno facendo gli avversari. E quelli prevenuti non hanno certamente bisogno di sentirle chiedere scusa per negargliela. No, la seconda cosa che mi aspetto dal suo buon senso e dalla sua generosità è di spianare la strada al suo successore, o al candidato alla sua successione nel centrodestra, quando lei avrà portato a termine regolarmente e dignitosamente, come ha il diritto di pretendere, il proprio mandato. Alla scadenza cioè di questa legislatura, ordinaria o anticipata che possa rivelarsi. Dica, per favore, caro Cavaliere, più chiaro e forte di quanto non abbia già fatto sinora che la sua leadership non continuerà a confondersi con la premiership. Cioè, che la prossima volta, per ragioni fisiologiche e non di indegnità o di sconfitta come pretendono i suoi avversari, toccherà ad altri del suo schieramento, auspicabilmente più largo di quello attuale, candidarsi alla guida del governo. Non mancano di certo gli aspiranti. Che peraltro, in assenza di un suo segnale d’incoraggiamento o di preferenza, al quale lei avrà pure il diritto come leader indiscusso e fondatore di un’area politica che diversamente sarebbe rimasta inespressa, finiranno per contendersi la successione nel modo peggiore, cioè generando solo risse e confusione. Sarebbe un suicidio politico. Francesco Damato, Il Tempo, 29 settembre 2011

………D’Amato ha centrato il problema e la sua analisi è assolutamente condivisibile. g.

DEMOCRATICI TOTALITARI, di Mario Sechi

Pubblicato il 29 settembre, 2011 in Politica | No Comments »

Voto alla Camera sulla mozione di sfiducia al ministro Romano. Proteste e bagarre in Aula La storia politica italiana degli ultimi vent’anni è strafulminata dal cortocircuito tra giustizia e politica. In due decenni nessun leader di partito ha deciso seriamente di prendere i fili e ripararli. Neppure Berlusconi, il quale si lamenta delle azioni giudiziarie ma non ha mai fatto la riforma della giustizia, fermandosi sempre a provvedimenti suggeriti da Azzeccagarbugli sulla cui utilità è meglio sorvolare. Ieri i parlamentari radicali hanno rimesso in campo, in maniera plateale, la questione e hanno mostrato non solo la siderale distanza che passa tra il Pd e loro, ma tra chi si pone il problema reale della giustizia, dei diritti individuali e di chi li calpesta in nome di una lotta politica sempre più barbara. La minaccia di espulsione dal gruppo del Pd dei radicali dissidenti ricorda metodi che ci sembravano lontani, un residuato della storia. Sono cose che facevano i fascisti e i comunisti non partiti che si dicono democratici nel simbolo e poi nella pratica parlamentare non lo sono. Se il Pdl, come penso, è qualcosa di anarchico, disordinato, pasticciato, il Pd bersaniano non è da meno. Procede per slogan, battutine, ma quando si tratta di mostrare una qualche evoluzione di stampo riformista, le lancette dell’orologio appaiono inesorabilmente ferme al ’92. È come se non fossero mai riusciti a levarsi di dosso le macerie del crollo di Berlino. Quanto al centrodestra, ieri ha confermato di poter andare avanti non per merito proprio, ma demerito altrui. Il governo deve decidere se vivere o sopravvivere. Per vivere deve fare le riforme e tener presenti anche i fondatissimi allarmi di Marco Pannella e di tutti i radicali sul sistema carcerario, per sopravvivere bastano gli errori ed orrori del centrosinistra.  Mario Sechi, Il Tempo, 29/09/20

MOLLANO I CRIMINALI E INSEGUONO LE RAGAZZE

Pubblicato il 28 settembre, 2011 in Costume, Cronaca | No Comments »

Mille e duecento case svaligiate in pochi mesi, i furti che aumentano del 25% in un anno, 32mila commercianti vittime del racket e dell’usura,100 clan camor­risti all’opera giorno e notte, un giro di affari della ca­morra salito nel 2011 a 13 miliardi di euro. Questo è, in sintesi,il bollettino di guerra (incompleto)della crimi­nalità a Napoli. E che fanno i magistrati? Si occupano a tempo pieno delle ragazze che avrebbero insidiato il presidente del Consiglio. Parliamo di maggiorenni consenzienti quanto intraprendenti, quindi di nessu­na ipotesi di reato. E da ieri si va anche oltre. Perché il nuovo quesito che si pone la giustizia italiana non è co­me acciuffare e condannare ladri, rapinatori e mascal­zoni pericolosi per la società, ma la seguente: il pre­mier poteva non sapere che le signore che lo corteggia­vano erano escort? Domanda che tiene col fiato sospe­so tutti gli italiani che, come noto, in questi giorni non hanno problemi più importanti. Per non farci perde­re tempo, i pm hanno già dato anche la risposta: non poteva, dando così dell’escort a qualsiasi donna che abbia avvicinato il premier negli ultimi anni.

La domanda, comunque, ha un suo perché, e do­vrebbe fare scuola nelle Procure italiane. Per esem­pio: poteva Bersani non sapere che cosa stava combi­nando Penati con le tangenti di Sesto? Poteva D’Ale­ma non sapere che faceva in realtà il suo amico Taran­tini? Poteva Vendola non sapere che il suo vice Tede­sco faceva parte di una banda che lucrava sui malati pugliesi? L’elenco sarebbe lungo. Poteva il cardinale Bagnasco non sapere dei suoi confratelli pedofili? Po­teva il direttore dell’ Unità non sapere che il suo edito­re, secondo le accuse, è un maxi evasore fiscale? Pote­va il direttore di Repubblica non sapere che uno dei suoi editorialisti-moralisti, sempre secondo i pm, fa­ceva la cresta sui soldi della sua università?

Chissà se a queste domande qualcuno darà mai ri­­sposta, chissà se su ognuno di questi fatti saranno aperti fascicoli giudiziari, chissà se per scoprirlo ver­ranno messe in atto migliaia di intercettazioni. O se solo Berlusconi doveva sapere per forza se qualcu­no, tipo Tarantini, per farsi bello pagava, o promette­va ricompense a qualche ragazza per infilarsi nel suo letto? Per scoprire qualche cosa di più su questo fatto privato la Procura di Napoli ha sottratto uomini ed energie alla lotta al crimine. E, non contenta di aver perso l’inchiesta per manifesta illegalità, minaccia di rifarsi aprendo nuovi filoni di indagini-gossip. La camorra ringrazia. Alessandro Sallusti, 28 settembre 2011

.…..Tra tutte, la domanda che più ci intriga è quella relativa a BERSANI: poteva non sapere Bersani che il suo fidato braccio destro, Penati, aveva tanti soldi  per la sua (di Penati) e la sua (di Bersani, campagna elettorale e poteva non sapere da dove li prendesse? E come mai i PM di Monza non l’hanno nè interrogato come teste magari per trasformarlo subito dopo in indagato, nè hanno interrogato come teste il competitor di Bersani alle primarie del PD, Franceschini,  il quale a sua volta si chiedeva da dove prendesse tanti sldi Bersani per la sua dispendiosa campagna elettorale. Misteri1 Come quello proosto oggi sulla stampa dal sen. Tedesco il quale si chiede perchè mai Vendola non è indagato come il genero per associazione a delinquere. Ma si sa. In Italia taluni  pm sono guerci, guardano da una parte sola. g.

NAPOLI: MENTRE I PM SPIANO IL GOSSIP, LA CAMORRA FA SOLDI E UCCIDE

Pubblicato il 28 settembre, 2011 in Costume, Cronaca | No Comments »

Ossessionati dal premier e dal­le indagini sul centrodestra (P4, P3 bis, voto di scambio all’estero, le frequentazioni del Cavaliere con Sara Tommasi, Cosentino e i casalesi, Cesaro alla provincia, Caldoro indagato per epidemia colposa, i filoni sui consiglieri del Pdl, prima ancora Saccà e le star­let televisive, eccetera) i pm napo­letani sembrano dimenticarsi di tutto il resto.

I dati scioccanti dell’Antima­fia, delle forze di polizia, delle ca­mere di commercio, delle asso­ciazioni antiracket raccontano di una città ostaggio della malavi­ta ( oltre 100 clan)per un giro d’af­fari da decine di miliardi.

L’ultima analisi semestrale del­la Dia è impietosa nonostante si rifaccia ai soli reati denunciati (dato che non corrisponde ai rea­ti effettivamente consumati pari al doppio se non al triplo). Offre uno spaccato che la dice lunga sullo stato dell’arte a Napoli e nel suo hinterland.

OLTRE CENTO CLAN PER UN MARE DI COCA
Come diretta conseguenza di una pax camorristica dovuta al riequilibrio delle forze in campo uscite malconce dalle guerre fra­tricide (su tutte quelle fra clan Di Lauro e Scissionisti) e dallo smantellamento di alcune im­portanti famiglie a causa dei pen­titi, gli omicidi risultano in calo. «Solo» 68 rispetto ai 106 dell’an­no precedente secondo i dati for­niti dalla corte d’Appello di Na­poli e spacciati per un successo della magistratura quand’inve­c­e non tengono conto delle dina­miche sotterranee di una crimi­nalità camaleontica che si ripro­duce a ciclo continuo. Gli anali­sti della Dia, per dire, non esulta­no nemmeno un po’ posto che la camorra nel 2011 incassa utili per 13 miliardi di euro (di cui ol­tre otto e mezzo dalla vendita de­­gli stupefacenti) e ad oggi «ha sva­riati elementi di criticità» in uno «scenario fluido e instabile» che potrebbe sfociare, nella zona nord,in una nuova guerra.L’ulti­mo omicidio di tre giorni fa con­ferma che gli equilibri nell’area nord di Napoli sono nuovamen­te saltati: si va verso una nuova faida, come quella del 2004 tra Di Lauro e Scissionisti. Il continuo sequestro di armi e munizioni (un attentato è stato sventato tre giorni fa, il 25 settembre, con il ri­trovamento in un tombino di un lanciarazzi anticarro a San Gio­vanni a Teduccio) indica che i gruppi criminali si stanno di nuo­vo armando per combattere. Il più aggiornato screening sulle fa­miglie camorriste «operative» quantifica in 39 clan e 6 gruppi minori in città oltre a 41 clan e 17 formazioni di secondo livello dei dintorni più prossimi. E ancora. Nell’ultimo anno lo spaccio di droga, in centro e in periferia, se­condo le statistiche dell’«Osser­vatorio sulla criminalità» è cre­sciuto del trenta per cento. Addi­rittura il 310 per cento in più a Scampia, «un mondo a sé», l’ha definito il presidente dell’asso­ciazione Noi Consumatori, Ange­lo Pisani, «perché, nonostante la fine della guerra di mafia, è diven­tato un vero e proprio fortino blindato, nella sua più fiorente at­tività redditizia: lo spaccio».

IMPRESE STROZZATE ED ECONOMIA MALATA
Se l’economia napoletana è malata terminale la ragione è da ricercare nel cancro camorristi­co che infetta e manda tutto in metastasi. Sfogliando il rapporto della Camera di commercio del­la provincia di Napoli, su un cam­pione base di 500 imprese, il 30 per cento degli addetti ai lavori considera «determinante» il ruo­lo che la criminalità organizzata ha sul territorio. I clan imperver­sano nell’edilizia (58,9 per cento), nel commercio (32,3 per cento), nei lavori pubbli­ci (33,3 per cento) per un ritorno eco­nomico del 34 per cento sul totale fatturato dalle im­prese. A detta del generale della Guardia di Finanza, Giuseppe Mango, l’evasio­ne fiscale ai piedi del Vesuvio cresce ormai vertigi­nosamente. Per non parlare del­l’evasione del­­l’Iva (45%) e del­l’Irap per oltre 60 milioni di euro. I portabandiera sono i colletti bianchi e i liberi professionisti, i miliardi di euro sottratti a tassazione (quelli sco­perti dalla finanza, sia chiaro) ammontano a 2,6 miliardi di eu­ro. La cifra reale è dieci volte su­periore. Non solo la grande eva­sione: l’emissione dello scontri­no nei bar e nei negozi a Napoli è un optional. Su 34.966 controlli, solo il 60 per cento è risultato in regola.

L’USURA IMPERVERSA MA FA POCO NOTIZIA
La piaga delle piaghe, quella col minor numero di denunce, poco perseguita dall’autorità giu­diziaria, riguarda il fenomeno dell’usura. Il rapporto dell’asso­ciazione «Sos Impresa- Confeser­centi » posiziona la Campania (e Napoli la fa da padrone) fra le re­gioni col più alto numero di com­mercianti vessati dagli strozzini: 32mila le vittime presunte, un ter­zo dei titolari di attività commer­ciali, un costante versamento di liquidi per interessi anche del 300 per cento, pari a un giro d’af­fari che sfiora i tre miliardi di eu­ro l’anno. Nell’apposita «mappa della delittuosità nelle province italiane» Napoli è assolutamen­te in testa per quanto riguarda le truffe e le frodi informatiche (5.301), la ricettazione (1.451) le estorsioni (294). Il «Comitato di solidarietà delle vittime dell’usu­ra » nel 2010 ha raccolto appena 61 domande su 84 presentate da vittime di estorsioni (deliberan­do un ristoro per 4 milioni di eu­ro) mentre per l’usura le doman­de accolte sono state 20 su 51.

In crescita l’usura mordi e fuggi, con la restituzione dei prestiti, rincarati da interessi folli, entro le 48 ore successive.

IL FALSO FA GRANDI AFFARI MA IN PROCURA NON È DI MODA
Il gigantesco business della contraffazione (vestiti, scarpe, utensili, farmaci) è poco perse­guito dalla procura nonostante l’invasività del fenomeno visibi­l­e a ogni angolo di strada stia por­tando, scrive la Dia, a «pesanti conseguenze negative in termini di fatturato e di immagine per le imprese produttrici e di distribu­zione. La problematica si riverbe­ra sull’erario con riferimento al mancato versamento delle impo­ste sui redditi e dell’Iva e si riflet­te sul mercato del lavoro, tradu­cendosi in danno occupaziona­le, perdita di posti di lavoro e in­cremento della manodopera al nero e/o clandestina, nonché in mancati investimenti dei produt­tori stranieri che non sono inte­ressati a investire in paesi ove la contraffazione è dilagante». La catena illegale di distribuzione delle griffe false prevede la vendi­ta porta a porta, attraverso mi­gliaia di ambulanti, per corri­spondenza, tramite internet «ma anche lo smistamento attra­verso le grandi catene commer­c­iali che pongono in vendita pro­dotti falsificati accanto a quelli originali». Le aree del falso indu­striale resistono e si ampliano ai Quartieri Spagnoli, a Ottaviano, Palma Campania, Terzigno e San Giuseppe Vesuviano. In ma­teria di contraffazione, invece, picchi registrano a Ponticelli e Barra San Giovanni (250% in più) e nella zona del porto (+ 120%).

I DATI CONFERMANO: È LA PATRIA DI FURTI E SCIPPI
Rubare una macchina, a Napo­li, è come bere un bicchier d’ac­qua. Nessuno può sorprendersi, dunque, se in Campania le stati­stiche evidenziano in oltre 20mi­la l’anno i furti di auto (moto e motorini ancora di più) come te­stimoniato dai dati incrociati fra Viminale, Viasat, Aci e rivista Quattroruote . Solo a Napoli l’ulti­mo rilevamento conteggia in 14.908 le vetture portate via: più di quaranta auto al giorno, due vetture l’ora. Altro dato sconcer­t­ante riguarda i colpi negli appar­tamenti privati che quest’estate hanno raggiunto vette incredibi­li nei quartieri collinari (il 25% in più rispetto a l’anno scorso) con 1.200 case svaligiate a fonte delle 900 «ripulite» l’anno preceden­te. Se è vero che il trend degli scip­pi appare in leggero calo, negli ul­timissimi giorni le forze dell’ordi­ne registrano un’impennata di «strappi» di orologi, anelli, brac­ciali e catenine dovute al prezzo dell’oro salito vertiginosamen­te. Crescono i furti con «spacca­ta » (distruzione della vetrina e asporto della merce esposta) e i cosiddetti «cavalli di ritorno» (furto di un’auto,richiesta di mil­le o duemila euro per riaverla in­dietro).

VARIE ED EVENTUALI: LE ILLEGALITÀ DIFFUSE
Sono tanti i campi dove la magi­s­tratura non incide come dovreb­be. L’abusivismo edilizio è strari­pante. E restando al tema «case», poco si fa contro i boss che deci­dono l’assegnazione degli allog­gi di edilizia popolare nei rioni­ghetto di Scampia, Secondiglia­no, San Giovanni a Teduccio, Barra e Ponticelli. Che dire poi della piaga delle baby gang. O del­le mafie straniere, specie quella albanese e nigeriana. L’illegalità diffusa raccontata con amarezza dal presidente della corte d’Ap­pello, Antonio Buonajuto (abusi­vismo commerciale, parcheggia­tori abusivi e via discorrendo) va di pari passo alla gigantesca offer­ta della camorra di servizi crimi­nali all’apparenza legali, così ben descritta anche dal rapporto ecomafia di Legambiente.Il qua­dro d’insieme fa paura. Ma è nul­l­a al confronto con le performan­ce sessuali del nostro presidente del Consiglio. Il Giornale, 28 settembre 2011
………….Oggi è il 28 settembre, e un tempo si celebravano le 4 giornate di Napoli, la rivolta spontanea dei napoletani, sopratutto degli scugnizzi, contro i tedeschi che avevano fucilato alcuni marinai, iniziata all’alba del 28 settembre 1943 e conclusasi  dopo 4 giorni, appunto, con la cacciata dei tedeschi da Napoli. Oggi a Napoli si combatte un’altra guerra, quella della camorra contro lo Stato e mentre questa guerra impazza per le strade della città più bella del mondo, mietendo vittime e distruggendo tutto ciò che incontra sul suo cammino,  quelli che lo Stato ha delegato a custodi e a difesa della legalità passano il tempo a fare i guardoni e i sentoni (  se si perdona il neologismo) dal buco della serratura e dallo spiraglio delle porte, dimentichi di tutto il resto.Povera Napoli! e poveri noi. g.

QUELLI CHE DISSERO DI NO…IL NUOVO LIBRO DI ARRIGO PETACCO

Pubblicato il 27 settembre, 2011 in Cultura, Il territorio, Storia | No Comments »

Quelli che dissero di no. 8 settembre 1943: la scelta degli italiani nei campi di prigionia inglesi e anericani.

Il più famoso è il Duca D’Aosta, l’eroe dell’Amba Alagi, al quale gli inglesi, dopo la strenua resistenza,  resero gli onori delle armi prima di deportarlo in India in un campo di prigionieri di guerra non cooperatori. Ad un generale suo sottoposto che gli proponeva di allearsi con gli inglesi, il Duca rispose: “dovrebbero arrestarci entrambi, lei che ha parlato ed io che l’ho ascoltata”. Il Duca non rientrò mai in Italia, morì di malaria in prigionia, in quel campo di non cooperatori, uno dei tanti allestiti da inglesi e americani,  dove tantissimi soldati italiani, dopo l’8 settembre, rimasero prigionieri, taluni per molti anni, prima di rientrare in Patria, senza aver accettato di cooperare con i vincitori. A narrarre la loro storia, a ricordarne i nomi, da Alberto Burri a Giuseppe Berto, a Gaetano Tumiati,   da Walter Chiari e Raimondo Vianello,  entrambi arruolatisi nella RSI, ignorati dalla pubblicistica della Resistenza  e liquidati come fascisti irrecuperabili,  è il libro di Arrigo Petacco, da oggi in libreria, dal titolo emblematico: Quelli che dissero di no. 8 settembre 1943: la scelta degli italiani nei campi di prigionia inglesi e americani, edito da Mondadori, 19 euro. “E’ un libro che fa male ai sentimenti questo di Petacco, ha scritto nel recensirlo Pietrangelo Buttafuoco. E’ documentato, e ogni pagina diventa sceneggiatura di un film, di un documentario, di un tornare dentro le profondità del nostro essere italiani e cavarsene fuori col terrore di non essere  oggi all’altezza di quella dignità e di quel coraggio o di quella spavalderia. Come fuggirsene dal campo di prigionia in Kenya per scalare il monte omonimo solo per piantare in cima il tricolore e magari finire in una tavola di Achille Beltrami sulla Domenica del Corriere”. E aggiunge Buttafuco ” non c’è il ritratto autoassolutorio degli italiani brava gente in Quelli che dissero di no. C’è al contrario, il racconto degli “italiani di carattere”, quelli della strada impervia, straordinari a dimostrare quanto fosse vera la parola d’ordine del credere, obbedire combattere,  rispetto alla disfatta fin troppo facile della stragrande maggioranza dei voltagabbana, tanti al punto di raccapricciare lo stesso nemico che, per la prima volta nella storia, s’impegna a rieducare il prigioniero, a trasformarlo in un cobelligerante. Tutto ciò mentre pochi uomini sdegnosamente rifiutavano l’elemosina di trasformarsi da vinti in vincitori. Ci sono pagine commoventi in questo libro così estraneo all’albertosordismo fino a diventare contravveleno alla vulgata ufficiale sull’esercito sconfitto”.  E, conclude Buttafuoco, “c’è ovviamente la storia mai conosciuta  in questo libro vivo come un racconto fatto a voce.” La storia, vogliamo sottolinearlo,  di uomini, noti e meno noti, che nei  campi della prigionia, furono protagonisti di testimonianze di ordinaria normalità, tanto ordinaria da sfiorare l’eroismo, come il colonnello Paolo Sabbatini, medaglia d’oro al valore militare, prigioniero in un “fascist kriminal camp” detenuto alle pendici dell’Himalaia in India,  non collaborazionista, che come tutti gli altri prigionieri  bruciava le lettere che gli arrivavano da casa per non  farsi prendere dalla nostalgia.  così resistere alla richiesta di farsi traditore, o come Beppe Niccolai, futuro fondatore del MSI e il tenente Giovanni Dello Jacovo, futuro deputato del PCI, entrambi, nello stesso campo,  non collaboratori, che si meritarono dagli stessi carcerieri  una medaglia di riconoscimento:” You are true soldiers”.  E’ un libro,  però, avverte   Buttafuco, “di straordinaria attualità in queste giornate in cui tutti attendono un nuovo Dino Grandi e ci aiuta a non poco a scandagliare la psicologia di noi italiani, sempre in bilico tra fedeltà e mugnugno, nell’eterno contrappasso”.  Un libro da leggere e da meditare. g.

……………Anche  molti soldati torittesi furono prigionieri non cooperatori, alcuni in India, altri in America.  Fra questi,  una  indimenticata figura  della politica locale, Francesco Giannini, don Ciccio per tutti, icona storica della Destra torittese. Catturato in Africa,  fu prigioniero in un “fascist kriminal camp” in India, non cooperatore e non collaborazionista, e ricordava  sempre con orgoglio questa sua scelta, sebbene gli fosse costata il rientro in Patria con molto ritardo, nel 1949. Gli fummo molti vicini e ora ci piace ricordarLo in occasione della recensione del libro di Petacco dedicato ai  soldati italiani prigionieri non cooperatori.g.

FINI SENZA PUDORE: TORNA NELLA CASA DI MONTECARLO

Pubblicato il 26 settembre, 2011 in Politica | No Comments »

Gian Marco Chiocci – Mariateresa Conti

Poteva limitarsi all’iniziale «il bilancio personale lo tengo per me». Glissare con nonchalance . Far finta di niente, per decenza, per la traballante serenità familia­re, per sperare di avere ancora uno straccio di futuro politico. E inve­ce no. Gianfranco Fini s’è rifatto male da solo poiché sa che ogni vol­ta che parla della c­asa di Montecar­lo donata ad An dalla contessa An­na Maria Colleoni «per la buona battaglia» (svenduta invece a due società off-shore caraibiche e poi abitata dal cognato Giancarlo Tul­liani) perde la faccia oltre ai pochi consensi rimasti. Il presidente del­la Camera, intervistato ieri a SkyTg24 da Maria Latella, ha volu­to strafare. È tornato su quella feri­t­a mai rimarginata attaccando Sil­vio Berlusconi, il direttore del­l’ Avanti! Valter Lavitola e indiretta­mente pure questo quotidia­no re­sponsabile di un’inchiesta giorna­listica lodata dal Fatto di Travaglio con fatti che la procura di Roma ha giudicato tutti veri. «Credo che campagna di calunnia come quel­la mai sia stata organizzata…», ri­sponde il leader Fli alla Latella, che gli chiede di tracciare un bilan­cio di quella vicenda a un anno esatto dal videomessaggio in cui Fini giurò (sic!) che se fosse emer­so che il cognato Giancarlo era il proprietario della casa lui si sareb­be dimesso. Quindi l’affondo:«Un anno dopo mi sono preso anche qualche soddisfazione, perché mi sembra che un faccendiere oggi agli onori delle cronache, Lavito­la… non mi sono meravigliato quando ho appreso fosse ospite dell’aereo presidenziale con Ber­lusconi a Panama o ospite, o me­glio presente, nei colloqui tra il no­str­o ministro Frattini e autorità pa­namensi (circostanza smentita dalla Farnesina, ndr). Quando ci si circonda di personaggi come quel­li­è di tutta evidenza che c’è qualco­sa di poco trasparente, anche nel­la presentazione di alcuni docu­menti patacca…».

Ma certo, tutto chiaro. È colpa di Lavitola, e che sciocchi i pm della Procura di Roma a indagare per sette mesi su questa storia con i guanti bianchi (Fini indagato per un giorno, ricordate?, quello della richiesta di archiviazione) senza ascoltare l’editore. Tutta colpa di quel Lavitola che nell’ affaire Mon­t­ecarlo entra solo alla fine della sto­ria per aver pubblicato su L’Avan­ti! un’e-mail caraibica del broker Jospeh Walfenzao che indica nel ti­tolare della società ombra, pro­prietaria dell’appartamento di rue Princesse Charlotte 14 a Mon­­tecarlo, Giancarlo Tulliani, che è anche l’inquilino.

Tutta colpa di Lavitola, dunque. Ma è proprio così, signor presiden­te della Camera? Ci risponda, se può. È stato Lavitola a piazzare nel­la casa di Montecarlo suo cogna­to? È stato lui, Lavitola, a scoprire che An aveva un appartamento nel Principato? Lui che ha indica­to la off-shore che ha fatto l’affare? C’è forse Lavitola dietro la secon­da off­ shore che ha acquistato dal­la prima e che come inquilino, fra milioni, ha trovato il fratello di sua sorella? È stato Lavitola a impedi­re ad An, per dieci anni, di non alie­nare il bene e di cambiare idea so­lo quando s’è presentata la società caraibica in contatto con suo co­gnato? Lavitola ha avuto un ruolo nel bloccare l’offerta da oltre un milione del senatore ex An, Antoni­no Caruso? E i testimoni che dico­no di averla vista insieme alla sua signora nella palazzina di rue Prin­cesse Charlotte sono tutti a libro paga di Lavitola? O magari è stipen­diato da La­vitola il teste del mobili­ficio romano Castellucci che giura di averla vista accompagnare Eli­sabetta per l’acquisto di una cuci­na Scavolini per la casa all’estero? Forse è stato il carabiniere latitan­te Enrico La Monica, indagato con Lavitola nell’inchiesta P4,a scatta­re le foto pubblicate che provano come quella cucina che lei disse es­sere a Roma in realtà era assembla­ta nella casa monegasca di Gian­carlo? E lei, presidente, come face­va a conoscere quella data esatta di un passaggio tra società off­sho­re delle quali lei aveva detto di non sapere nulla? E faranno parte del complotto di Lavitola anche l’ar­chitetto e gli operai che hanno par­lato di Tulliani come di colui che sembrava il proprietario della ca­sa. Di certo fu Lavitola a suggerire a Elisabetta Tulliani di scrivere e-mail al maggior costruttore mo­negasco, Luciano Garzelli, per la ri­strutturazione. E ancora. Fu Lavi­tola a far sì che l’ambasciatore Mi­­stretta si mettesse a completa di­sposizione dei fratelli Tulliani? Il contratto di affitto depositato a Montecarlo da cui risulta che pro­p­rietario e affittuario hanno la stes­sa firma è stato contraffatto da La­vitola? Ed è stato Lavitola a far sì che i pm di Roma riuscissero a evi­tarle l’accompagnamento coatto per essere sentito come testimo­ne, e dunque obbligato a dire la ve­rità? Che lei sappia Lavitola ha ami­ci anche alla Chambre Immobi­lière M­onégasque che ha certifica­to che il quartierino è stato svendu­to a un prezzo ridicolo? Quando parla di «documento patacca» di uno stato estero, si rende conto che il suo ruolo istituzionale do­vrebbe consigliarle maggior caute­la? Un anno fa lei disse che se fosse emerso che suo cognato era il pro­­prietario, si sarebbe dimesso. Per­ché siede ancora nello scranno più alto di Montecitorio? Gian Marco Chiocci – Mariateresa Conti, Il Giornale, 26 settembre 2011

.……………..Si illudono Chiocci e Conti se pensano che Fini risponderà alle loro argomentazioni. Fini è uno di quelli a cui non piace il contraddittorio, preferisce il soliloquio. E per la verità se non fosse stata per  la spavalda e vergognosa  maramalderia di cui ha fatto sfoggio nell’intervista con la giornalista Latella su SkyTG24, ovviamente senza contraddittorio e nella quale da par suo ha sproloquiato contro Berlusconi usando Lavitola, non sarebbe stato  neppure il caso di replicargli. E’ sufficiente constatare il silenzio in cui è stato avvolto dopo i tentativi andati a vuoto di buttare per aria il governo e la constatazione che il suo FLI s’è perduto nelle nebbie dei dubbi, degli abbandoni e  sopratutto dei rancori che covano tra i suoi stessi colonnelli,  ignorato da tutti, compreso gli elettori che da ultimo lo gratificano, secondo i più misericordiosi sondaggisti,  di un miserevole 3%. Tanto basta per abbandonarlo al suo destino. g

IL MERCATINO IMPROVVISATO

Pubblicato il 26 settembre, 2011 in Politica | No Comments »

Enrico Letta del Pd C’è chi scommette a sinistra, per esempio il pur solitamente moderato vice segretario del Pd Enrico Letta, che il governo di Silvio Berlusconi cadrà “per mano dei mercati”, travolto cioé da un deprezzamento inarrestabile del debito pubblico, e relativi titoli di Stato. E dalla conseguente esplosione di una crisi economica e sociale nel Paese, magari senza mettere necessariamente nel conto – bontà sua – anche “il morto” in piazza, atteso invece da Antonio Di Pietro. Ma, in verità, non solo da lui, visto che timori analoghi, sia pure con parole più caute, o politicamente più accorte, sono stati espressi a rimorchio di “Tonino” anche dal presidente della Commissione parlamentare Antimafia Giuseppe Pisanu.
Quest’ultimo non è un esponente, vecchio o nuovo, delle opposizioni di sinistra o di centro, ma un senatore ancora della maggioranza, già capogruppo di Forza Italia alla Camera e ministro dell’Interno nel penultimo governo di Silvio Berlusconi, da qualche tempo però in sofferenza nel centrodestra. Tanto in sofferenza da sottoscrivere e lanciare con l’ex segretario del Pd Walter Veltroni appelli più o meno accorati per un “passo indietro” del presidente del Consiglio, visto che al Cavaliere sarebbe mancata l’accortezza nei mesi scorsi – gli ha appena rimproverato Pisanu in una intervista – di fare un “passo avanti” verso gli ex alleati Pier Ferdinando Casini e Gianfranco Fini.
Ma torniamo al vice segretario del Partito Democratico, Enrico Letta, peraltro di origini democristiane come Pisanu, e alla sua scoperta delle risorse politiche dei mercati. Che sarebbero capaci, secondo lui, di rovesciare l’odiato governo Berlusconi supplendo alle opposizioni e premiando una crisi politica con salvifici rialzi in borsa. E proviamo per un attimo a immaginare anche noi che “l’ottovolante dei mercati”, evocato ieri pure da Eugenio Scalfari, riesca davvero a sconquassare gli equilibri di potere. Ebbene, con quali gambe lorsignori i mercati irromperebbero a Palazzo Chigi per tirare giù dalla sedia il Cavaliere? Con quelle di Emma Marcegaglia, la presidente ormai uscente della Confindustria di cui la sinistra, politica e sindacale, da qualche tempo ha scoperto e apprezza il piglio antiberlusconiano, anche se non condivide buona parte del programma più o meno di governo che la signora vorrebbe tradurre in un manifesto, a cominciare dall’innalzamento dell’età pensionabile? O con le gambe del bocconiano ex commissario europeo Mario Monti, che mostra tuttavia, sia pure a giorni alterni, una certa diffidenza verso governi privi di una guida politica? O con le gambe di Pier Luigi Bersani in persona, il capo virtuale dell’opposizione politica, che però si muove con le stampelle di Nichi Vendola? Il quale dovrebbe stare ai mercati, sentendolo parlare nelle piazze e nei salotti televisivi, come il diavolo all’acqua santa, o viceversa. O con le gambe del sempre giovane Casini, al quale si possono sicuramente riconoscere molte qualità ma non, credo, una particolare competenza in questioni economiche e monetarie.

È semplicemente impensabile che Berlusconi smetta, davanti a questi po’ po’ di signore, signori e signorini, di reclamare la verifica parlamentare dei suoi numeri. Altrettanto impensabile è che costoro riescano a intimidirlo più e meglio di quanto abbiano inutilmente tentato di fare i magistrati. Una nuova mozione di sfiducia, o iniziativa analoga, a cominciare da quella in programma fra qualche giorno alla Camera contro il ministro dell’Agricoltura, Francesco Saverio Romano, farebbe la fine delle precedenti. E questo non perché la maggioranza sia miseramente composta da gente prezzolata e servile, come la dipingono gli avversari ogni volta che ne falliscono l’assalto. O perché manchi di dissidenti simili al già ricordato Pisanu. Il fatto è che costoro possono pur essere stanchi di Berlusconi, o delusi, ma sono ancora più stanchi e si fidano ancor meno dei suoi avversari per svolte politiche capaci di mettere davvero le cose a posto. Per cui guardano alla crisi giustamente come a un rimedio peggiore del male, e la scongiurano ogni volta che ne hanno l’occasione. Senza la pretesa, per carità, di conoscere Giorgio Napolitano meglio di Scalfari e di altri suoi coetanei, amici o ex compagni, che stanno lì a tirargli continuamente la giacca con l’aria furbesca di volergliela solo stirare addosso con il ferro caldo dei loro appelli melliflui, dubito fortemente che certi improvvisati esperti o esploratori dei mercati potranno mai essere presi sul serio, in caso di crisi, dal presidente della Repubblica. E strappargli a cuor leggero i decreti di nomina di un nuovo governo che, comunque lo si volesse chiamare, non potrebbe fare a meno di un programma reale e serio, non immaginario, e di una maggioranza parlamentare altrettanto reale e seria, fatta di numeri. In mancanza dei quali Napolitano sa bene che i mercati, i famosi mercati, non se ne starebbero lì a guardare, sornioni e pazienti, come vorrebbero i loro tardivi e per niente affidabili estimatori. Francesco Damato, Il Tempo, 26 settembre 2011

ORA ABBASSATE LA SPOCCHIA, di Alessandro Sallusti

Pubblicato il 25 settembre, 2011 in Economia, Politica | No Comments »

Improvvisamente, dopo an­ni di silenzio, Confindu­stria ha deciso di parlare. Ogni giorno è una ricetta, una critica, un ultimatum, con cla­morosi sconfinamenti nella poli­tica. Strano che tanta loquacità e saggezza sia arrivata a buoi, cioè milioni di euro, scappati. I più leg­gono l’attivismo della sua presi­dente, Emma Marcegaglia, al mandato in scadenza. Tra pochi mesi sarà disoccupata, e con l’aria che tira meglio posizionarsi in prima fila tra gli oppositori del governo. Ora, non è che le paure degli industriali siano intonacate o illegittime. È il tono del loro pre­sidente, quel voler chiamarsi fuo­ri da errori del passato, quel met­tere sul piatto ricette salvifiche con l’aria di chi si sente eticamen­te superiore a infastidire e inso­spettire. Anche perché, come im­prenditore, la signora non può certo fare la maestrina con la pen­na rossa.

Il suo gruppo è stato pre­miato nei giorni scorsi come quel­lo a più alto tasso di infortuni sul lavoro. Le disavventure giudizia­rie dei suoi familiari sono note e oggi noi aggiungiamo un partico­lare inedito, un condono da 9,5 milioni di euro sottoscritto nel 2002. Nulla di male né di illegale, per carità, ma evidentemente la si­gnora non può mettersi alla testa dei novelli Savonarola, non con tanta spocchia. Il vezzo di parlare bene e razzo­lare male non è nuovo, né è esclu­s­ivo della presidente di Confindu­stria. L’editore de L’Unità , non­c­hé ex governatore Pd della Sarde­gna, Renato Soru, è sotto schiaffo della Guardia di Finanza che sta indagando su sue società estere per una presunta maxi evasione fi­scale. Oppure: Berlusconi do­vrebbe giustificare come mai ha viaggiato tempo fa in aereo con Lavitola, mentre a Bersani nessu­no chiede conto di viaggi, pranzi e cene con Penati, che secondo non noi ma i magistrati potrebbe avere commesso reati ben più gra­vi e infamanti­del discusso e discu­tibile direttore de L’Avanti . Il nuo­vo che avanza dovrebbe avere al­meno il pudore di non cadere nel ridicolo. Da Di Pietro che finì nei guai per regalie a Montezemolo che ha un passato da scavezzacol­lo, fino alle macchie dell’impero Marcegaglia e alle tangenti paga­te dal gruppo dell’editore di Re­pubblica , quel Carlo De Benedet­ti (finito per questo anche agli ar­resti), nessuno passerebbe inden­ne da un assalto tipo quello cui è stato ed è sottoposto Berlusconi. Per carità, ognuno ha i suoi picco­li o grandi scheletri nell’armadio. Ma proprio per questo meglio ab­bassare i toni e la spocchia. Il Giornale, 25 settembre 2011

Il condono di Lady Marcegaglia

Emma Marcegaglia propone un nuovo manifesto per l’Italia.Di nuo­vo c’è poco, se non la sfiducia che la Signora ha nei confronti del gover­no Berlusconi. Che in effetti di riforme ne ha fatte davvero pochine. Ma della signora Marcegaglia ci possiamo fidare? E questi grandi imprendi­tori che si stanno già combattendo per la successione della Signora, hanno tutti le carte in regola per fare i moralisti? Ci sono molte imprese, come testimonia­no le ottime inchieste di Dario Di Vico e Marco Alfieri, che non ne possono più di questo governo. Speravano in una riduzione fisca­le e in uno sn­ellimento della buro­crazia che non è arrivato. Ma i ver­ti­ci di questa Confindustria non ri­schiano di fare come il governo, aver capito troppo in ritardo gli umori della propria base? Sulla lotta all’evasione, ad esempio, la posizione confindustriale più che tardiva sembra ipocrita. Così co­me sulla liberalizzazione del mer­cato del lavoro. I nuovi personalis­si­mi dispiaceri alla signora Marce­gaglia li ha procurati il governo e Tremonti in particolare. Parados­salmente proprio per venire in­contro alle indicazioni anche del­la Confindustria, l’esecutivo si è messo in testa di dare la caccia ai presunti evasori. Marcegaglia compreso. Lungi da noi pensare che ciò che stiamo per scrivere ab­bia minimamente irritato la sciu­ra. Ella, come si sa, viaggia alto, al­tissimo. Figurarsi se si occupa di quella norma introdotta dall’ulti­ma manovra estiva che estende gli accertamenti fiscali all’anno di grazia 2002. In buona sostanza il governo ha deciso che il condono fiscale del 2002, considerato ille­gittimo dalla Ue, non metta al ripa­ro da nuovi accertamenti proprio coloro che all’epoca lo sottoscris­sero. La materia è complicata:ba­sti dire che l’Agenzia delle Entrate nei prossimi tre mesi ha l’obbligo di legge di andare a verificare tutte le posizioni di coloro che aderiro­no a quel condono fiscale. E indo­vi­nate un po’ chi rischia un bell’ac­certamento? Esatto. Il gruppo Marcegaglia,che all’epoca dei fat­ti aveva proprio nella Sciura un amministratore delegato. Ma non preoccupatevi, la presidente della Confindustria è su un altro li­vello. Questa estate tuonò: «Basta con i condoni fiscali». Grazie, tut­to quello che si poteva condonare la Sciura l’ha già condonato.Senti­te qua. Bilancio Marcegaglia. An­no 2002. «Negli oneri straordinari figura l’importo di 9,5 milioni deri­vante dalle legge 289/02 sul con­dono ». E nella relazione del colle­gio sindacale: «Sono venuti com­pletamente meno i rischi derivan­ti dalla verifica fiscale generale, eseguita nel corso del 2001». In­s­omma l’azienda ha pagato 9,5 mi­lioni di condono e si è così messa a posto con la verifica fiscale che aveva subito e che con tutta proba­bilità sarebbe sfociata in un bel verbale di contestazione. Ma il punto è che oggi la Marcegaglia ri­schia di nuovo. Quel condono, per la parte di sanatoria Iva, è sta­to considerato illegittimo dalla Ue e molti dei condonati non hanno neanche pagato le rate che erano previste. Il governo italiano alla caccia disperata degli evasori ha preso la palla al balzo (non pro­prio il primo, visti gli anni passati) e ha riaperto un faro di verifica nei confronti dell’anno 2002. Senza questa norma estiva infatti quel­l’anno sarebbe prescritto e i con­donati (che poi tali non sono per la sentenza Ue) sarebbero al sicu­ro. Che colpo gobbo. Insomma la Marcegaglia do­vrebbe ben conoscere sulla sua pelle l’attivismo del governo per combattere l’evasione fiscale. Ma è il pulpito da cui arrivano le prediche ad essere ridicolo. Certo ricordare alla signora Marcega­glia del conto cifrato 688342 della Ubs di Lugano a lei intestato (insie­me al padre Steno) dove transita­vano quattrini della Scad Com­pany Ltd, o quello 688340 sempre a Lugano e sempre della Ubs dove transitavano milioni di euro frut­to della costituzione di fondi neri all’estero,può sembrare poco ele­gante se ad occuparsene è il Gior­nale . Se a farlo, come fece, è Repub­blica , è tutto ok. Così come sareb­be seccante ricordare alla sciura come 750mila euro vennero tra­sferiti dal conto di Lugano a quel­lo di Chiasso e poi presi in contan­ti tra il settembre e il dicembre del 2003 (tutte informazioni contenu­te in una rogatoria ottenuta da Francesco Greco). Mica un secolo fa. Il punto qua non è la correttez­za etica della Signora Marcegaglia e del suo gruppo (e quante impre­s­e hanno fatto altrettanto), ma è la sua inadeguatezza a spiegare al mondo cosa sia necessario fare per dare sviluppo al Paese. Glielo diciamo noi cosa è necessario alla Signora. È necessario che il grup­po della sua famiglia, in cui lei è stata anche amministratore dele­gato, competa sul mercato ad ar­mi pari con i concorrenti. Magari senza aprire troppi conti cifrati in Svizzera. Il gruppo Marcegaglia ol­tre a commettere un possibile rea­to (per la verità il fratello della Si­gnora ha patteggiato per tangen­ti) ha messo indirettamente fuori mercato le aziende che seguivano le regole. La prima vittima del­l’evasione fiscale non è lo Stato, ma è l’impresa vicina che come un gonzo paga tutte le tasse come si deve. E poi arriva Emma che fa la furbetta. E prima contribuisce a costituire fondi in nero: per Repub­blica il gruppo costituì all’estero 400 milioni di euro di fondi. Poi li scuda grazie all’odiato Tremonti. E poi da presidente della Confin­du­stria fa la maestrina e ci raccon­ta come si deve far ripartire il Pae­se. Ma ci faccia il piacere. La vicenda dei 17 conti segreti della Marcegaglia in Svizzera è ro­ba passata.
Il tutto si chiuse nel 2004 con il trasferimento di 22 mi­lioni dai conti svizzeri a Singapo­re. E lo stesso fratello della Signo­ra, Antonio, interrogato dai Pm di Milano disse a fine 2004: «Si tratta di risorse riservate che abbiamo sempre utilizzato nell’interesse del gruppo per le sue esigenze non documentabili». Come dar­gli torto, si sarebbe trattato di mi­lioni e milioni di documenti. Quando si dice la semplificazione che le imprese a gran voce richie­dono. La Signora in materia fiscale ha poche idee e un po’confuse.Tuo­na contro i condoni, ma li utilizza a man bassa. Non vuole il contri­buto di solidarietà del Cav, ma ac­cetta la patrimoniale, con una sto­ria di conti all’estero da paperone di Mantova. Si possono accettare molte le­zioni dalla Signora Marcegaglia. Ma quella della moralista con il di­tino alzato, proprio no. Soprattut­to in materia di tasse. «Confindu­stria – ha detto la Marcegaglia ­non ha paura delle critiche». Bene accetti le nostre. E inizi a fare puli­zia a casa sua, prima di pontificare sullo sviluppo del Paese, compro­messo anche dalle furbate dei pri­vati. Il governo Berlusconi ha mol­te colpe. Ma un esame di coscien­za da p­arte di queste grandi impre­se che afferrano al volo i condoni e costituiscono conti in Svizzera, non l’abbiamo ancora visto.