Il premier francese Sarkozy Ieri lo spread della Francia ha toccato il picco di 204 punti rispetto al Bund. Era a quota 37 il primo luglio, a 100 il 28 ottobre. In quattro mesi si è più che quintuplicato, con un rush che nelle ultime tre settimane ha portato al raddoppio. L’asta di titoli a medio termine francesi è andata male: 6,9 miliardi richiesti rispetto ai 7 previsti, rendimenti in aumento di mezzo punto. Immediatamente gli Oats, i decennali di riferimento, sono saliti intorno al 3,8 per cento. Nettamente più della metà dei Btp italiani, non molto distante dalla media di rendimento dell’intero nostro debito pubblico. Poco prima anche Madrid aveva offerto le sue obbligazioni, anch’esse bocciate dai mercati: i Bonos decennali sono stati collocati per 3,5 miliardi rispetto ai 4 offerti; con rendimenti reali, tra cedole e prezzi, al 7 per cento.
Di conseguenza lo spread della Spagna ha nuovamente superato quello italiano. Tutto ciò può servire da effimera consolazione per Berlusconi: l’Italia e il Cavaliere non sono evidentemente il movente degli spread e della malattia europea, come invece sostenuto da autorevoli banchieri e politici. Ma appunto si tratta di considerazioni molto italocentriche e fini a se stesse. Mentre il governo Monti si insedia tra grandi e giuste aspettative, è il resto d’Europa e del mondo che rischia di andare in default. Martin Wolf, vicedirettore e più influente editorialista di finanza strategica del Financial Times, lo ha scritto senza mezzi termini: «L’Europa rischia una gigantesca crisi di credito, una carenza di liquidità senza precedenti che si trasmetterà all’intero mondo occidentale se la Germania non fa la sola mossa utile: autorizzare la Bce a trasformarsi in prestatore di ultima istanza. L’euro è la sola valuta che non ha una banca centrale che la garantisca. E questo avviene mentre Federal reserve, Bank of England e Bank of Japan utilizzano tutti gli strumenti classici a loro disposizione: dallo stampare moneta a prestare soldi ai rispettivi paesi». Wolf, come molti, punta l’indice contro la sindrome prussiana che sembra paralizzare Angela Merkel e la Cdu, il suo partito. «La sua linea è: fare il minimo indispensabile all’ultimo momento utile. Finora si è tradotto in: troppo poco e troppo tardi».
Di fatto con uno spread a 200 e oltre appare difficile che la Francia possa mantenere la tripla A. E che dunque continui a far parte del nucleo duro del fondo che dovrebbe salvare gli stati periferici. Potrà, come l’Italia, fornire garanzie collaterali per i bond che il fondo emette; ma non contribuire direttamente. E se a sua volta il salva-stati perde la tripla A, viene giù tutto. Il credit crunch è una minaccia reale e globale. Secondo un report riservato della Banca d’Italia, «alcune banche italiane presentano deficit di liquidità».
A settembre la Bce ha fornito loro 91 miliardi, a prezzi salatissimi. Ma non è bastato: «Le banche devono affrontare anche il problema della raccolta. Nel 2012 scadono 88 miliardi di obbligazioni. E in questo momento l’approvvigionamento sui mercati internazionali è bloccato». Non è una questione di alta finanza, è una faccenda che si ripercuoterà sulle famiglie e le imprese. Gli 88 miliardi di bond bancari in scadenza rappresentano un terzo dell’intero debito pubblico da rifinanziare l’anno prossimo. Obbligazioni pubbliche e private entrano quindi in conflitto, in una concorrenza di rendimenti al rialzo che di fatto impedirà agli istituti di credito di sostenere Bot, Btp e Cct. Ma non solo: un altro spread molto più familiare, quello sui nuovi mutui, tocca punte del 4 per cento sommandosi agli indici Irs ed Euribor. Il mercato immobiliare ed il credito al consumo possono essere il prossimo anello della catena. E’ una situazione di gran parte dell’Europa che ricorda pericolosamente quella che precedette il crac dei mutui subprime e della Lehman Brothers. Anche in quel caso la crisi fu preceduta da un giro di vite su mutui e prestiti, che misero in ginocchio prima le famiglie, poi Wall Street. Dopodiché intervennero la Casa Bianca e la Fed, «gettando dollari dall’elicottero», nazionalizzando banche e fondi, imponendo alle altre di fondersi tra loro.

Ora gli Usa sembrano faticosamente riprendersi, sia pure a costo di un debito federale che ha raggiunto il 99 per cento del Pil. Ma l’Europa? Qui non solo non si gettano euro dagli elicotteri, ma la moneta unica si ritira dai mercati. Perfino la Deutsche Bank, che normalmente affianca la Cancelleria, ha chiesto alla Merkel di imporre alla Bce di allentare i cordoni. Una prima risposta è arrivata ieri: la Banca centrale potrebbe prestare soldi al Fondo monetario, che a sua volta li girerebbe ad Eurolandia. Ennio Flajano diceva che in Italia la via più diretta per collegare due punti è l’arabesco: ora il bizantinismo contagia l’Europa. Che cosa ha in mente la Merkel? Lo spread archivia il direttorio franco-tedesco. Oggi avrà un incontro non facile con il premier inglese David Cameron, che da tempo invoca «il bazooka» per ridare liquidità ai mercati. Per carità, non scarichiamo su altri le nostre colpe (ed infatti abbiamo cambiato governo): ma l’idea di una Germania che pianta la propria bandiera sulle macerie dell’Europa non è esattamente ciò che ci aspettavamo dalla moneta unica. Marlowe, Il Tempo, 18 novembre 2011