I PARTITI FANNO SOLO DANNO E NON SERVONO PIU’, di Giuliano Ferrara
Pubblicato il 19 febbraio, 2012 in Costume, Politica | Nessun commento »
A che serve il Pdl? A niente. Anzi, fa danno. Il partito si è mangiato la leadership , ha condotto alla perdita della maggioranza alle Camere, è stato il luogo di risse indiscernibili, di rinvii e intralci all’azione del governo.
A che serve il Pd? Niente di niente, un simulacro di culture in fusione permanente e in atroce divisione sempiterna. È stato utile soltanto alla battaglia dei capi, è terreno per scorrerie, zona di allarmante inconciliabilità delle diverse e invadenti consorterie.
A che serve l’Udc o gli altri frammenti?Ora vogliono con gran pompa metter su un«partito della nazione», lanciare un’opa sul centrodestra, chissà con che mezzi di sfondamento, che intrugli e brodaglie parapolitiche. Fanno danno i partiti d’apparato, il resto di ciò che fu e che ebbe un senso in anni ormai lontani. Apparati che alimentano signorie locali dette anche «rapporto con il territorio». Partiti che non hanno uno statuto ideologico, perché le ideologie sono spettri.
Che si nutrono di finanziamenti ipertrofici e fuori controllo, anche biada per i cavalli morti, e dissipano credibilità a milioni di euro. E coltivano la guerricciola tra gruppi,l’accaparramento delle tessere, la formazione di maggioranze implausibili, strutturate sul nulla delle relazioni personali. Sono anime morte. Sveglia. La riforma della politica possibile è la fine dei partiti come modello del Principe machiavelliano, come gabbie di matti intenti a succhiare il sangue di rapa a istituzioni che si afflosciano perché nessuno crede che servano: Parlamento,governo,sindaco,governatore, e poi fondazioni, associazioni, lobby, questi luoghi della politica effettiva sono ormai deputati a servire da invasi per le ambizioni sbagliate di partiti sbagliati.
A forza di partiti finti siamo arrivati ai partiti serventi del governo composto dai tecnici, alle maggioranze tripartite che ubbidiscono a chi dispone del potere vero e sono costrette a funzionare sul presupposto che il comando politico e il voto degli elettori non abbiano più alcuna relazione l’uno con l’altro. Il commissario, il coordinatore, il segretario, tutte intercapedini di una casa crollante. Le due ipotesi di riforma dei partiti sono fallite. Berlusconi doveva strutturare un cartello elettorale e un partito leggerissimo, uno staff, e Veltroni aveva promesso una vocazione maggioritaria del Pd per il governo del paese o per l’opposizione costituzionale.
Erano due idee promettenti, una presa d’atto del nuovo carattere dei rapporti politici, una collocazione agile tra le famiglie europee dei popolari, dei socialisti, dei liberali, ma in nome di un solo mestiere: amministrare, governare, vivere nelle istituzioni con la classe dirigente eletta, e fare politica senza sopportare il basto del politicismo, delle stramorte identità universali o di principio, i partiti della falce e martello o dello scudo crociato o del sole nascente. Fallirono anche i tentativi di tornare a una nuova mappa partitica, dai governi D’Alema alla Bicamerale. Ora la finzione diventa una insopportabile pantomima.
C’è un severo e rigoroso bisogno di cambiamento. Quando sento parlare di congressi, di tessere, di imbrogli radicati sul territorio, metto mano alla pistola.Non ce n’è alcun bisogno. C’è bisogno di raccogliere fondi, altro che rimborsi, e di raccogliere consenso (nei paesi politicamente e costituzionalmente evoluti il fund raising e il consenso sono la stessa cosa). C’è bisogno di programmi a breve e medio termine nella contesa per un governo eletto, a partire dal 2013, non di carte dei valori a cui nessuno piega la benché minima attenzione, non di trombonate e retoricume. La cattiva reputazione dei partiti nasce da molti equivoci, d’accordo. Da una campagna di delegittimazione che dura da vent’anni. Male argomentata, per di più, vagamente e genericamente moralistica. Ma è la sopravvivenza di partiti morti che rende vivace la protesta e legittima l’insopportazione per la politica come oggi appare, che porta al fenomeno delle primarie sempre e regolarmente vinte dagli outsider , basta che siano candidati antipartito.
Le lotte dinastiche, i figli e altre discendenze messe di mezzo, una sensazione di truffa che ha del grottesco promana dal concetto stesso di partito politico d’apparato.
Viva i partiti, se i partiti sono cose che costano poco, invadono poco lo spazio pubblico, e agiscono come collettori di altre forze vive, in un arcipelago detto società, a favore di una leadership e diun programma, di idee modeste ma credibili su come si fa a guidare lo Stato, a renderlo compatibile con la cittadinanza nelle sue forme moderne. Chi fa tessere e congressi è destinato a perdere ancora e ancora e ancora. Il metro di misura della politica è una buona raccolta dati, una forte comunicazione, un programma e l’azione di chi è eletto per governare o per fare opposizione. Il resto è fuffa, sopravvivenza, morto che afferra il vivo. Giuliano Ferrara, Il Giornale, 19 febbraio 2012
…………Ci duole doverlo ammettere ma Ferrara mette il dito nella piaga. Siamo sempre stati militanti di partito, il partito è stato lo strumento attraverso il quakle abbiamo tentato di dare un contributo concreto alla società. Ma il risultato del bipolarismo, anticamera del bipartitismo, la nuova ondata di sigle e siglette che invadono il teatro della politica segnano la fine dei aprtiti, alemno di come li abbiamo conosciuti, praticati, militati. Come uscirne? Francamente è difficile dirlo, anche Ferrara, autore di una diagnosi cruda quanto reale, sul piano delle proposte risolutrici diventa evanenescente, vago, anche lui ripesca il linguaggio antico in uso nell’era dei partiti del passato. E ci restituisce all’indietro. g.