Un buon ministro degli Esteri deve offrire risultati al proprio Paese e quando sbaglia accettare le critiche. Non è il caso di Giulio Terzi. Doveva essere informato per tempo del fattaccio imputato a due militari italiani di scorta a un mercantile in acque internazionali. Doveva chiedere e ottenere perentoriamente che scattasse la giurisdizione italiana e che la nave italiana non lasciasse le acque internazionali, invece che recriminare dopo. Doveva fornire la chiave diplomatica per una composizione e mobilitare allo scopo tutti i mezzi dello Stato, servizi compresi, non la sua persona e la sua carica in missione pubblica con pernacchio della magistratura del Kerala. Certo, non è facile quadrare il cerchio nell’Oceano Indiano, ma questo ci si aspetta da un ministro dotato di tutti i poteri necessari per l’azione.

Quel che ci resta in mano della vicenda dei marò, oltre all’inutile missione di business & umanitarismo del titolare della Farnesina, è un lungo e infruttuoso soggiorno del sottosegretario di Terzi, Staffan de Mistura, nella funzione di badante esterno dei nostri militari. Il soggetto è simpatico, ebbe la ventura come rappresentante dell’Onu di andare a Sanremo e di affermare dal palcoscenico dell’Ariston di essere felice per il fatto di trovarsi «a Rapallo». Un lapsus delizioso, ma non esattamente una garanzia per chi ora si trovi ristretto in una prigione del Kerala, con un iter giudiziario che non avrebbe mai dovuto cominciare per evidenti ragioni di giustizia e di codice diplomatico.

Quanto al caso molto doloroso dell’ingegnere italiano ucciso nel corso di un blitz britannico in Nigeria, e della sorte affidata al vento delle indiscrezioni di altri ostaggi italiani in Africa, andiamo di male in peggio. Fosse capitato un simile luttuoso incidente al predecessore di Terzi, sarebbe stato pubblicamente linciato sulla pubblica piazza. L’improntitudine con cui siamo stati trattati, la mancanza di scuse formali da parte del governo britannico e il ritardo nelle spiegazioni che ci sono dovute cumulato con il tentativo di scaricare il tutto sui servizi, i soliti stracci di funzionari che volano, sono insuccessi che parlano da soli. C’è stata un’epoca in cui i servizi italiani, poi criminalizzati da campagne di stampa e magistratura, si raccordavano con Palazzo Chigi e con la Farnesina per riportare a casa dall’inferno iracheno giornaliste del Manifesto e della Repubblica dall’Afghanistan, per non parlare delle solerti impiegate di organizzazioni umanitarie dedite al benessere del «valoroso popolo iracheno» in lotta contro l’imperialismo, e lo facevano senza farsi scucire un baffo dai mozzorecchi jihadisti più feroci al mondo. C’era una guida politica e diplomatica che seppe far funzionare gli organi di sicurezza dello Stato, evidentemente.

Visto il fallimento, ci si aspettava dal ministro degli Esteri una misura se non di umiltà di equilibrio e di rassicurazione. Invece è da lui che sono venute polemiche politiche scollacciate con Roberto Maroni, totalmente fuori contesto. E spiegazioni a mezzo stampa infarcite da banalità e argomenti pro domo sua che privano di ogni autorevolezza una funzione delicata e decisiva della pubblica amministrazione. Un ministro non scrive articoli autocelebrativi sul Corriere della sera, soprattutto non dall’alto di preoccupanti batoste prese a nome e per conto del suo Paese. Ricostruire un certo peso dell’Italia in Europa, ecco un risultato del governo Monti nel teatro dei mercati e della politica di Bruxelles. Disfare il nostro prestigio operativo nel resto del mondo, accusando i critici di insensibilità per i concittadini indifesi all’estero, è quanto è riuscito a fare il capo della Farnesina. Giuliano FERRARA, Panorama, marzo 2012