I partiti politici, tutti indistintamente, continuano a dare di sé una immagine disastrosa. Si preoccupano non del bene del Paese ma dei propri interessi elettorali, della conservazione delle rendite di posizione, dei privilegi ai quali la gestione del potere (ma anche dell’opposizione) li ha ormai abituati. È questa la triste realtà denunciata dal loro comportamento di fronte alle misure – quali che siano – proposte dal governo. Di fronte, per esempio, alla prospettiva di una incisiva competitività, essi rivelano, con i loro comportamenti e con le dichiarazioni di capicorrente o di leader, la fragilità strutturale dell’intero sistema politico italiano.
La questione dell’articolo 18 mette in forte fibrillazione il Pd, ne rivela le contraddizioni, agita le acque del suo pozzo elettorale, vellica le tentazioni e le connivenze di certi suoi segmenti con gli ambienti più estremisti, intransigenti e barricadieri. È una questione, quella della riforma del lavoro, che può rivelarsi disastrosa, forse addirittura catastrofica, per il futuro del Pd, diviso tra i sostenitori dell’azione governativa e coloro che subiscono la fascinazione della sirena sindacale e della piazza. È una questione che può portare a una vera e propria resa dei conti in un partito la cui compattezza e la cui ragion d’essere erano, di fatto, legate a doppio filo all’antiberlusconismo piuttosto che a un programma politico propriamente detto. Bersani, Bindi, Veltroni, D’Alema, rottamatori e rottamati e chi più ne ha più ne metta, sono ormai i figuranti di una lotta intestina e senza quartiere il cui vero fine è la conservazione del potere.
Sul fronte opposto, d’altro canto, il Pdl non sta meglio. La difesa, giusta e sacrosanta della riforma del lavoro, con Alfano che difende il «buon punto d’equilibrio» raggiunto sull’articolo 18, sembra rispondere più alla soddisfazione per le difficoltà dell’avversario che non alla bontà del provvedimento. Dimentica il Pdl che, ora, plaude all’iniziativa del governo e alla sua decisione di andare avanti anche mettendo in soffitta la prassi nefasta della cosiddetta concertazione, che per tanti anni è stato al potere disponendo di una maggioranza in grado di consentire l’avvio di un reale processo riformatore senza concludere nulla. E non è un caso che il Pdl si prepari, a quanto si dice, a cercare o a chiedere contropartite sulla giustizia o sulla questione della Rai in cambio dell’appoggio al governo sul «pacchetto lavoro» secondo una procedura che – indipendentemente dalla bontà o meno delle richieste – tende a perpetuare una pratica di compromessi. I partiti, insomma, tutti – anche il Terzo Polo – continuano a muoversi seguendo la logica della ricerca della propria utilità, guardando, a breve, alle elezioni amministrative e, in una prospettiva più lunga, alla ricerca di consensi per le politiche. Non si rendono conto che ormai viaggiano in uno spazio siderale lontano anni luce dagli interessi, dai sentimenti, dalle idee del cittadino comune. Non si rendono conto che, per usare una vecchia e abusata ma sempre efficace espressione, il divario tra il Paese reale e il Paese legale ha raggiunto dimensioni enormi. Il calo di fiducia dei cittadini nei confronti dei politici e dei partiti e l’aumento della propensione per il non voto, registrati dai sondaggi di opinione, ne sono una dimostrazione.

Evidentemente, c’è qualcosa che non va nel sistema politico dell’Italia repubblicana. I partiti sono percepiti non tanto come cinghia di trasmissione della «richiesta politica» del Paese quanto piuttosto come tramiti di corruzione, centri di malaffare, strumenti di arricchimento personale e di ricerca di privilegi. Il fatto che scandali e casi di corruttela, veri o presunti, abbiano investito praticamente tutte le forze politiche suscita indignazione e sgomento. Non è possibile né giusto liquidare questi casi richiamandosi alla responsabilità individuale di chi ottiene una tangente, raccomanda un parente, intasca i soldi del finanziamento pubblico che sono, non dimentichiamolo, dei cittadini e via dicendo. La responsabilità è di chi – i partiti nel loro insieme e i politici di professione – ha voluto mantenere in piedi, inalterato, un sistema che facilita la corruzione. Il finanziamento pubblico dei partiti, per esempio, bocciato solennemente dagli italiani e reintrodotto dalla classe politica, è uno dei canali attraverso i quali la corruzione e il malaffare dilagano. C’è una battuta amara di Madre Courage nella celebre opera di Bertolt Brecht che recita: «La corruzione è la nostra unica speranza. Finché c’è quella, i giudici sono più miti, e in tribunale perfino un innocente può cavarsela». La corruzione, in tutte le forme e in tutti modi, ha accompagnato la storia della prima repubblica, ma anche quella della seconda repubblica. E ha determinato il distacco, sempre crescente, dei cittadini dai partiti. E quindi dalla politica. Francesco Perfetti, Il Tempo, 23/03/2012