Per trovare la norma dello scandalo ci vuole molta pazienza. Bisogna tuffarsi nella legge milleproroghe del 23 febbraio 2006, lanciarsi in un defatigante slalom fra articoli che parlano di varia umanità, dall’università Carlo Bo di Urbino all’accatastamento di immobili del ministero della difesa, fino all’adeguamento alle prescrizioni antincendio per le strutture ricettive, e avere dimestichezza con la lingua latina.

Sì, perché senza un minimo di confidenza con l’idioma di Cicerone si rischia di non arrivare all’articolo 39 quaterdicies dove finalmente sono indicate le modifiche alle precedenti leggi sul finanziamento ai partiti. Una leggina mimetizzata che più mimetizzata non si può: il testo fu votato al Senato in piena notte, fra il 2 e il 3 febbraio 2006. Il governo Berlusconi aveva posto la fiducia, l’opposizione strepitò. Il capogruppo della Margherita, Willer Bordon, tuonò contro «lo schiaffo in faccia ai cittadini».
Sappiamo com’è andata a finire: proprio la Margherita, che era defunta, è risorta attingendo a piene mani al bancomat pubblico finché le spese folli del tesoriere Lusi non hanno alzato il coperchio sullo scempio. Poi è arrivata la Lega e si è ricapito quel che già si sapeva: la legge dà ai cassieri la combinazione giusta, poi loro si regolano come gli pare. O meglio i rimborsi – guai a chiamarli finanziamenti dopo il referendum che li aveva aboliti a furor di popolo nel ’93 – sono quattro o cinque volte superiori alle spese sostenute. Per capirci e per capire le cifre dell’indignazione, i partiti hanno speso fra il ’94 e il 2008, 570 milioni, ne hanno recuperati 2 miliardi e 250 milioni. Nemmeno Pinocchio sotto l’albero dei miracoli avrebbe sognato di meglio. Non c’è neanche bisogno di innaffiare gli zecchini: la pianta cresce da sola. Altissima. Nel 2008, quando gli italiani sono tornati al voto, destra, centro e sinistra si sono ingozzati con una doppia razione per la vecchia legislatura troncata e per quella appena iniziata.
Ora i tesorieri, come ai tempi di Tangentopoli, rischiano la parte del parafulmine. E corrono ai ripari o predicano sventure. Ugo Sposetti, ultimo cassiere dei Ds, vede in un’intervista all’Espresso un cielo scuro scuro: «Ma come, ora i revisori dei conti si svegliano e scrivono al presidente della Camera che le verifiche sono solo formali? Poi c’è Rutelli: ha spiegato che i bilanci dei partiti sono facilmente falsificabili. E uno dei revisori della Camera, Tommaso di Tano, in tv agli Intoccabili ha affermato che lui e i suoi colleghi quando arriva un bilancio si mettono a ridere. Fra sei mesi i partiti non esisteranno più». C’è davvero aria di tempesta. Stefano Stefani, il Cireneo che ha preso fra le mani le casse della Lega, mette le mani avanti: «Per prima cosa porterò le carte in procura. Voglio muovermi in tranquillità».
Forse sarebbe bene correre ad approvare una nuova norma. Più equilibrata. O meglio, meno vergognosa in tutte le sue perfide pieghe. Perché l’ABC della politica italiana, l’ABC che in un modo o nell’altro ha varato la riforma delle pensioni e tante altre leggi fino a ieri impensabili, non si siede intorno a un tavolo e scrive un testo purificato nel fonte battesimale della decenza?
Nei giorni scorsi Bersani ha sfidato Casini e Alfano invitandoli a rompere insieme il salvadanaio. Non sarebbe male evitare meline e impaludamenti, sarebbe bene evitare il ricorso a sofisticate ed estenuanti discussioni che si concludono, di solito, con magheggi e trucchi da avanspettacolo. La legge «truffa» del 2006 convertiva in legge, come si legge in archivio, un precedente decreto del 30 dicembre 2005. Ottima idea: perché non ricorrere al decreto per sanare la ferita? Se la troika trova l’accordo, è fatta: in un amen si può chiudere il rubinetto e togliere il bancomat alle tesorerie dei partiti che banchettano mandando in rosso noi cittadini.

Anche l’Europa, che spesso mette il naso a sproposito in casa nostra, ci ha dato un avvertimento sacrosanto: cambiate in fretta. Schivando, please, una pagliacciata come quella andata in scena sulla riduzione degli stipendi dei parlamentari. Che sono ancora quelli di prima. Stefano Zurlo, Il Giornale, 7 aprile 2012