palazzo chigi Studiava da delfino, resterà trota. Renzo Bossi s’è dimesso. Passerà alla storia per aver affondato la Lega, insieme a un padre troppo debole per non cedere al nepotismo e a un gruppo dirigente troppo timoroso per non dire al capo che stava sbagliando. La politica non è una scienza esatta, ma prima o poi i conti tornano. Che il «cerchio magico» fosse un clan destinato a mandare fuoristrada il Carroccio si intuiva. Quando intorno al corpo del leader ballano in tanti, finisce che il mambo diventa una danza macabra. Così è andata. Non solo per la Lega. La Seconda Repubblica doveva darci partiti più leggeri, meno invadenti nella gestione della cosa pubblica, con leader carismatici insieme a una vita democratica, selezione del personale e un minimo di cultura liberale e delle istituzioni. Non è successo perché chi li guidava ha pensato a costruire intorno a sé non il consenso, ma il sì a prescindere, la realizzazione del «capo ha sempre ragione» e se ha torto comunque non glielo facciamo sapere. È questione che attraversa la vita di tutti i partiti, in maniera più o meno diversa. Per Berlusconi ha significato circondarsi spesso di enti inutili, per Bossi finire nel contrappasso dantesco che raccontiamo in questi giorni. Ognuno ha forgiato il proprio movimento politico intorno al suo nome: Fini, Casini, Di Pietro, Vendola. E perfino chi aveva una parvenza almeno formale di dibattito interno – il Partito democratico – ha impegnato tutte le sue forze nelle faide di potere, nelle lotte correntizie, dilapidando quel poco che restava di credibilità presso gli elettori. Hanno un bel dire oggi che soffia il vento dell’antipolitica. Dovrebbe soffiare il maestrale del rinnovamento, i partiti dovrebbero impegnarsi a ricostruire se stessi, in alto e in basso, a destra e a sinistra, a Nord e Sud. Invece rincorrono i sondaggi, gli scazzi interni e gli schiamazzi esterni, senza comprendere che bisogna mettersi in discussione, tirare fuori quelli che Montanelli chiamava «gli attributi», tagliare i rami secchi e confrontarsi con l’elettorato. Il maquillage a cui sono intenti non fermerà l’ondata d’indignazione. È tempo di crisi economica, i cittadini voteranno brandendo due armi: il portafoglio e il forcone. Avanti così, tanti auguri. Mario Sechi, Il Tempo, 10 aprile 2012

……………Non c’è nulla da fare. Nonostante la bufera imperversi e investa tutti, ma proprio tutti i partiti, i partiti, anzi tre di essi i cui capi ormai sono definiti i “triumviri”,   tragicomico richiamo a tempi e periuodi storici lontani, entro domani si accingono a scrivere le regole per “rendere trasparenti i finanziamenti pubblici”. Non ad eliminarli che a questo non ci pensano proprio, ma ripetere 18 anni dopo il 1994, lo stesso copione scritto dopo il referendum dei radicali,  che a furor di popolo abrogò la legge sui finanziamenti pubblici ai partiti, quando la legge abrogata fu sostituita con un’altra che chiamava  i  “rimborsi elettorali” i finanziamenti ai partiti. Dalla zuppa al pan bagnato. Ora, di fronte alla valanga di proteste con cui gli italiani ricoprono i paritit chiedendo a gran voce l’abolizione di questa ignobile legge che arricchisce i partiti mentre gli elettori sono  ridotti in miseria, i partiti, anzi i triumviri non si schiodono dalle loro logiche e dai loro interessi e astranno tentando ancora una volta di prendere per i fondelli gli italiani. C’è una sola cosa da fare.  Abrogare la legge, far restituire ai partiti i quattrini che ufficialmente risultano non spesi di quelli ricevuti e poi, soltanto poi, disciplinare il volontario finanziamento pubblico attraverso l’autonoma volontà di ogni singolo cittadino di elargire denari propri a questi voraci rapaci che sinora hanno ingoiato, dal 1974 ad oggi, circa 6 miliardi di euro per portarci dove ci hanno condotto: alla fame. g.