Ricordate i “botti” fiscali di Capodanno per festeggiare (in anticipo) i primi cento giorni del neo premier Rigor Montis? Con la perla delle Dolomiti, Cortina d’Ampezzo, presa d’assalto dai cacciatori di scontrini fiscali. E con i grandi giornali a brindare all’inconsueta messinscena pirotecnica. Anche se Lor signori della carta(straccia), e i suoi direttori, più che applaudire al blitz degli esattori facevano festa per una ragione assai meno nobile: lo scampato pericolo di una patrimoniale secca che avrebbe colpito le tasche dei loro editori.

Già, i Poteri marci che, rispetto ai lavoratori dipendenti, non hanno il prelievo alla “fonte” (dalla busta paga) e a volte godono pure dell’Iva al 4%. Oltre a poter schierare, sul campo fiscale, agguerriti tributaristi. Nel caso di controversie con l’agenzia delle entrate. Lusso che non un artigiano o un bottegaio di paese.

L’Italia del commercio non è soltanto Cortina o via Montenapoleone.
Storia vecchia, si dirà, ma finora non si era mai visto un governo composto di tanti garruli Superciuk. Stiamo parlando dell’antieroe dei fumetti creato da Max Bunker, l’opposto di Robin Hood, che ruba ai poveri per dare ai ricchi.

Nel suo pamphlet sui contribuenti-sudditi “La mano che prende, la mano che dà“, edito da Raffaello Cortina, il filoso tedesco Peter Sloterdijk, osserva che il giornalismo politico dei nostri giorni “riformula in mille varianti quattro luoghi comuni”. E tra questi “luoghi comuni” c’è, da parte della stampa, quello di sollevare solo polveroni.

“E il buon uso dello scandalo – osserva Sloterdijk – diventa uno strumento per tenere in vita il potenziale utopico del modo di vivere politico chiamato democrazia”.

Nell’Italia degli Indignados à la carte (dei padroni) c’era, addirittura, chi parlava di “rivoluzione delle tasse” dopo aver assistito ai fuochi fatui accesi dalle fiamme gialle nel ricco presepe ampezzano. Senza nemmeno aver dato una sbirciatina su come funziona e opera davvero la burocratica macchina trita-contribuenti avviata dai vari governi della cosiddetta seconda Repubblica.

Una struttura dai costi di gestione mostruosi: oltre un miliardo di euro l’anno. Pagati ovviamente, dai poveri tartassati di turno.
I ricavi di Equitalia? Qualche spicciolo di milione.
Del resto, sosteneva l’ex presidente americano Ronald Reagan “chi paga le tasse è uno che lavora per lo Stato senza essere un impiegato statale”.

Così, nell’ubriacatura (fiscale) di fine anno qualcuno anche a sinistra-sinistra (il Fatto) scambiava pure l’amministratore di Equitalia, il puffo Attila Befera, per un Lenin dell’aggio (altrui).Tant’è, che il Signorotto delle imposte con “tassi di usura” (9%), attratto dal profumo d’incenso che lo stava avvolgendo, si è presentato davanti alla folla di adulatori (i media) per promuovere il marchio Equitalia. Che grazie agli exploit televisivi di Befera, rovesciando lo slogan di una ditta di cucine, ben presto è diventato il più odiato dagli italiani.

E il risultato più grave e negativo delle performance di Attila è stato soltanto uno: nel giro di pochi giorni l’agenzia delle entrate, e i suoi solerti dirigenti, sono diventati un simbolo del male e l’obiettivo sconsiderato di violente e ingiustificate contestazioni.
Tutte azioni condannabili senza se e senza ma.

A tirare sassi contro le vetrine di Equitalia non erano però i proprietari di auto Suv o i bottegai infedeli, come avevano immaginato i soloni di carta(straccia).
A gridare la propria protesta erano i milioni di cittadini a reddito fisso. Lavoratori la cui dichiarazione fiscale è fatta, tra l’altro, dai propri datori di lavoro.

Secondo alcune stime, mai smentite dai gabellieri di Stato, l’80% degli incassi di Equitalia proviene dalle tasche dei salariati dipendenti, pensionati e da piccoli professionisti.
Spesso vessati per qualche centinaio di euro (il mancato pagamento del canone Rai) con ganasce alla propria auto o l’iscrizione d’ipoteche sulle abitazioni.

I Grandi Profitti, invece, possono dormire sonni tranquilli anche sotto il governo di Rigor Montis e del suo scudiero (fiscale) Attila Befera.
Così nel panorama dell’informazione, che dovrebbe rappresentare l’opinione pubblica, ancora una volta sono stati i propri lettori a far cambiare registro ai giornali.
E poi gli editori si lamentano della perdita di copie in edicola!

Una valanga di lettere spedite alle redazioni ha fatto giustizia su come funziona davvero (In)Equitalia.
Eppure, facciamo l’esempio del Corrierore guidato stancamente dal disincantato Flebuccio de Bortoli, aveva sotto mano la coppia di Gabibbo alle vongole, i mitici Stella&Rizzo, per andare a dare almeno un’occhiatina su come funziona e opera la burocratica macchina da guerra pilotata da Attila Befera.
Niente, invece.

Dei due Indignados à la carte (dei padroni) uno era impegnato a fare le bucce a qualche disgraziato delle comunità montane; l’altro a difendere l’ing. Giuseppe Orsi, amministratore di Finmeccanica, che è accusato di “riciclaggio internazionale” dai giudici di Napoli.
Se fosse stato un parlamentare con un simile fardello (inquisitorio) sulle spalle, Sergio Rizzo, ne avrebbe chiesta la decapitazione sulla piazza del Parlamento.

E nemmeno una riga si è letta su chi oggi guida la politica fiscale dell’Italia.
Il premier Rigor Montis o Attila Befera?
Dopo la sciagurata soppressione del ministero delle Finanze per creare un superministero dell’Economia – accorpando insieme Tesoro e Bilancio -, la delega nel campo dei tributi è stata lasciata dal governo dei bocconiani, come ha ricordato il professor Enrico De Mita sul “Sole 24 Ore”, all’Agenzia delle entrate.
Con i risultati politici, economici e sociali che sono sotto gli occhi di tutti.

E sorprende che il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, scrupoloso garante della Costituzione non si sia accorto, come osserva ancora Enrico De Mita, che è proprio la carta repubblicana che “affida concretamente e non apparentemente la politica tributaria al Governo e al Parlamento”.

Altrimenti, in assenza di un’azione istituzionale, si finisce sotto la scure del gabelliere-riscossore Attila Befera.
E gli italiani onesti, per citare nuovamente il filosofo Peter Sloterdijk, sono trasformati “da cittadini di uno Stato a titolari di un codice fiscale”. 19 maggio 2012

.……….Scriveva Svetonio che “il buon pastore deve tosare le pecore, non scorticarle”