Era il 10 maggio 2006. Per uno di quei paradossi da cui, troppo spesso, la storia viene segnata, il primo (post) comunista saliva al Quirinale proprio nel cinquantesimo anniversario della rivolta ungherese soffocata nel sangue dai sovietici.

Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano

Quello stesso uomo che nel 1956, al congresso del Pci, aveva difeso l’invasione dell’Ungheria da parte dell’Urss polemizzando con i compagni che volevano prenderne le distanze. Col passare dei decenni Giorgio Napolitano farà autocritica ed etichetterà come prodotto di “zelo conformistico” quel suo intervento in cui aveva detto che in Ungheria l’Urss portava pace.

Adesso è un altro Napolitano. Almeno è così che il presidente della Repubblica prova a descriversi in una lunga intervista alla Gazeta Wyborcza pubblicata oggi su Repubblica alla vigilia delle visita del capo dello Stato in Polonia. Alle domande di Adam Michnik, uno dei fondatori di Solidarnosc ed oggi direttore del quotidiano, il numero uno del Quirinale ci tiene a rispondere come garante della Costituzione. Così, ripercorre con tranquillità il proprio passato, fa mea culpa ricordando Enrico Berlinguer e Michail Gorbaciov, analizza il berlusconismo e l’attuale situazione politica. Il mio cammino verso il Quirinale attraversando la storia d’Italia è il titolo dell’intervista fiume. Ma sono le parole sull’invasione di Budapest nel 1956 e sulla primavera di Praga nel 1968 a stridere con la militanza di Napolitano nel Partito comunista.

“Il sentiero della mia vita è un processo passato attraverso prove ed errori – spiega a Michnik – sono partito dagli ideali che in gioventù ho sposato, più che per scelta ideologica, per impulso morale e sensibilità sociale, guardando alla realtà del mio Paese. Nell’arco dei decenni, ho cercato di andare al di là degli schemi entro i quali all’inizio era rimasta chiusa la mia formazione. Ho attraversato delle revisioni profonde, molto meditate e intensamente vissute”. Alla Gazeta Wyborcza il capo dello Stato iracconta del periodo in cui era membro attivo di un Pci, un partito che portava nel suo dna il mito dell’Unione sovietica e il legame col movimento comunista mondiale. “Questi elementi originari, a un dato momento, sono diventati una prigione dalla quale il Pci doveva liberarsi”, ammette Napolitano ricordando quel 1956. L’appoggio all’intervento sovietico a Budapest, appunto. Adesso Napolitano ammette che fu “una tragedia, anche per il Pci, un errore grave e clamoroso del gruppo dirigente, a partire da Togliatti”. A detta del capo dello Stato il Pci capì l’errorefatto ancor prima di fare pubblica ammenda. E per questo per cui, quando nel 1968 (Togliatti era già deceduto da quattro anni) l’Urss e gli altri Paesi del blocco sovietico entrarono coi carrarmati in Cecoslovacchia, il Pci ufficialmente si schierò contro quell’intervento.

Arrivarono poi gli anni Settanta, l’eversione rossa, la fine della prima Repubblica, il berlusconismo. Tutto in un soffio. Napolitano, la storia dell’Italia, la legge così: “I cicli si sviluppano e poi si esauriscono”. Tra errori e smentite, appunto. Tanto che gli Anni di Piombo sono riassunti come un’alleanza tra gruppi di estrema destra e lo Stato per evitare, attraverso la strategia della tensione, che il Pci giungesse al governo. E le Brigate Rosse? Napolitano ne parla en passant limitandosi che i brigatisti “respingevano ogni compromesso” tanto che “finirono per porsi obbiettivi di violenza rivoluzionaria”. Niente di più. Meglio glissare su quel terrorismo rosso che mise in ginocchio il Paese versando il sangue di innocenti e che oggi continua a riemergere come un fantasma del passato. Andrea Intini,. Il Giornale, 9 giugno 2012

.………………Non è la prima volta, dopo essere stato eletto, fortunosamente, presidente della Repubblica Italiana, che Napolitano sparge lacrime di coccodrillo sul suo passato comunista. A proposito del 1956 e della rivolta di Budapest, soffocata nel sangue dai carri armanti sovietici, Napolitano ha già detto di “essere pentito, che il Pci sbagliò″ etc, etc. Troppo comodo e troppo facile. Troppo comodo e troppo facile uscirsene con qualche frase di circostanza e con ciò considerare chiuso il conto con la storia, non solo quello del PCI,  ma anche quello suo personale. Già allora Napolitano era un dirigente comunista, non di primissimo piano ma neppure di secondo piano, quanto meno era pari grado per esempio dell’on. Giolitti che sconvolto dalla repressione sovietica della Rivoluzione magiara, abbandonò il partito comunista per aderire al PSI.  Eppure ce n’era abbastanza per meditare. Citiamo da “Budapest, i giorni della Rivoluzione“  il libro di Enzo Bettiza,  che racconta la rivolta ungherese e le reazioni del PCI. Scrive Bettiza  che “tutti i 19 membri della direzione del PCI pensavano che si doveva estirpare radicalmente e al più presto il contagioso tumore di Budapest“  e ricorda che Togliatti “domenica 4 novembre – mentre la rivolta affogava nel sangue – brindava con un bicchere di vino rosso in più all’inizio della seconda e definitiva repressione russa e qualche giorno dopo scriverà sull’Unità che è mia opinione che una protesta contro l’Unione Sovietica avrebbe dovuto farsi se essa non fosse intervenuta, e con tutta la forza questa volta, per sbarrare la strada al terrore bianco e schiaccire il fascismo nell’uovo“. Nessuno nel PCI ebbe da ridire sui brindisi di Togliatti e sulle parole agghiaccianti che dedicava alla rivolta sul giornale del partito comunista, confermandosi lo spietato killer del bolscevismo internazionale. Nessuno. E ovviamente nemmeno Napolitano. A distanza di 56 anni da quelle giornate, le lacrime di Napolitano si confermano lacrime di coccodrillo che non lo perdonano del silenzio con cui assistè alla violenza con cui furono accompagnati al martirio  i patrioti ungheresi, dal premier della Rivolta  Nagy Imre, impiccato dai sovietici e riabilitato dopo la caduta del Muro nel 1989, ai tanti, sopratutto i ragazzi,  che sacrificarono  sul selciato delle strade di Budapest la loro giovinezza  per rivedicare il diritto alla libertà e alla democrazia. g.