Lo ammettiamo: c’eravamo sbagliati. Avevamo peccato di ottimismo. Pensavamo che bastasse abolire le province (battaglia comunque giusta, che non abbandoneremo) per dare un po’ più di razionalità al nostro sistema pubblico, ridurre sprechi e privilegi, risparmiare qualche miliardo. Invece dovremmo mirare al bersaglio grosso: le regioni. Sparare sulla Sicilia è giusto ma in fondo fin troppo ovvio. Ha 5.2 miliardi di debito corrente, un bilancio solo apparentemente in pareggio, 90 consiglieri regionali tutti con il rango di deputati, e quindi i più pagati d’Italia (17 mila euro). Ha il record di baby pensionati e di indennità di pensionamento, nonostante i suoi abitanti continuino immancabilmente a svettare ai primi posti nelle classifiche di povertà «assoluta» e «relativa» come l’ultima dell’Istat. La regione, rigorosamente a statuto speciale, finanzia l’ippoterapia e i maestri di sci, e con l’attuale giunta di Raffaele Lombardo ha anche pagato tra il 2010 e il 2011 oltre 400 rinfreschi, il che ha contribuito agli ulteriori 1,9 miliardi d’indebitamento che in 24 mesi si è aggiunto ai 3,5 delle gestioni precedenti. «Un aumento minimo» dicono i due assessori (alla Sanità e all’Economia) protagonisti della «operazione verità» che ha portato alla brusca convocazione a palazzo Chigi di Lombardo e al suo probabile e imminente commissariamento. Sarà anche minimo, ma si tratta di un 50 per cento in più che, se avesse riguardato il debito italiano, ci avrebbe spediti automaticamente in default, con conseguente calata dal Brennero delle panzerdivisionen spedite da frau Angela Merkel. Ma, appunto, prendersela solo con la Sicilia e il suo presidente è fin troppo ovvio (anche se per la verità nessun capo di governo finora ci aveva provato, lasciando l’incombenza alla magistratura). Che dire delle altre regioni, speciali o ordinarie? Soltanto guardando alla sanità, l’indebitamento record è della Campania, seguita da Lazio, Puglia, Sicilia, e perfino il piccolo Molise rischia di esplodere quasi fosse un’area sub-tropicale a rischio di epidemie rare. Ma il Nord non sta messo molto meglio. I debiti sanitari gravano su Piemonte e Liguria; quanto alla Lombardia che a lungo ha costituito il benchmark, il modello virtuoso nazionale, vedremo che cosa racconterà davvero l’inchiesta su Formigoni e amici. Eppure di come si sia formato questo sistema distorto che non riesce ad amministrare circa 220 miliardi (le ricchezze a disposizione delle regioni) si sa ormai tutto. Gli snodi principali sono tre: l’istituzione delle regioni nel 1970; l’istituzione del servizio sanitario su base universale nel 1980, con il quale chiunque, anche i miliardari, hanno acquisito il diritto alle cure gratis, e il trasferimento alle regioni degli ospedali e dei poteri delle vecchie mutue; infine nel 2001 la riforma del titolo Quinto della Costituziona, varata in extremis dal moribondo governo dell’Ulivo, che concesse alle stesse regioni piena autonomia in fatto di sanità, oltre a una sfliza di poteri esclusivi e diritti di veto su materie come le infrastrutture, l’edilizia, l’ambiente. Tutti business sulla carta promettenti, che si sono spesso trasformati in gigantechi buchi neri. La riforma, infatti, ometteva di istituire oltre ai diritti i relativi doveri in fatto di controlli, bilanci in ordine, conformità con i budget nazionali e con le direttive europee. Senza contare i fondi comunitari, che nessuno, dalle Alpi a Punta Pesce Spada (Lempedusa) riesce a spendere. Nel marzo 2007 l’ex ministro socialista delle Finanze, Franco Reviglio, pubblicò sul sito lavoce.info uno studio sulle spese sanitarie regionali; un grido di allarme ben prima della grande crisi finanziaria che da lì a poco avrebbe travolto tutti, e che l’esperto di finanza pubblica della sinistra proponeva alla riflessione del secondo governo Prodi, quello dell’Unione. Reviglio rilevava che nel solo periodo 2001-2005, in seguito all’autonomia concessa dalla riforma costituzionale, si era formato un disavanzo medio di 4 miliardi, mentre la spesa sanitaria stava superando il 7 per cento del Pil. Tre regioni – Calabria, Lazio e Sicilia – sommavano allora il 68 per cento dell’indebitamento totale. Reviglio stimava inoltre che i crediti accesi dalle regioni con i fornitori, senza alcuna regola e controllo, avrebbero negli anni successivi aumentato la spesa del 30 per cento. Ma questo era ancora nulla. «Perché», osservava il dossier, «il vero problema sono debiti sommersi, stimabili in 38 miliardi, 24 dei quali verso fornitori». In altri termini, il costi non erano (e non sono) derivanti dal servizio ai cittadini, ma dalle spese per acquistare i beni dai privati. L’ex ministro aveva visto giusto, ma non poteva certo prevedere la spirale tra spese folli e tasse che la crisi mondiale avrebbe da lì a poco innescato. Per abbattere i debiti le regioni sono infatti state obbligate ad aumentare le imposte dirette, Irpef ed Irap, con percentuali che proprio nel Lazio hanno raggiunto il record e che si sommano a quelle comunali. Una cura obbligata in mancanza di autocontrollo, ma che ha prodotto i seguenti risultati: il progressivo abbassamento degli standard sanitari in cambio del progressivo innalzamento della pressione fiscale sui cittadini. Quanto alle imprese, l’Irap, un’idea dell’ex ministro Vincenzo Visco per sostituire e regionalizzare i contributi sanitari, si è via via trasformata in una delle gabelle più odiose perché non solo va a cercare di coprire buchi che con l’attività imprenditoriale non c’entrano nulla, ma colpisce soprattutto il numero di dipendenti e il costo del lavoro. Di conseguenza non solo le regioni erogano una pessima assistenza sanitaria, ma non svolgono neppure il loro altro compito di promuovere l’attività imprenditoriale e il lavoro. Un cane che si morde la coda e che di questo passo finirà per divorare se stesso. Fin qui la sorte delle regioni brutte, sporche e cattive. Ma che dire dei virtuosi tedeschi dell’Alto Adige, anzi, pardon, del Sud-Tirolo, e dei loro cugini stretti del Trentino? Si tratta di due province autonome, i cui benefici, nel caso di Bolzano, sono addirittura sanciti da un accordo internazionale, quello del 1946 tra Alcide De Gasperi e l’allora ministro degli Esteri austriaco Karl Gruber, firmato a Parigi e garantito nel 1960 e ’61 da ben due risoluzioni delle Nazioni Unite. Il bilinguismo ne è solo la parte più appariscente. La vera polpa sta nella possibilità concessa agli altoatesini di trattenere il 90 per cento di tutte le imposte raccolte sul territorio, distribuendo alla popolazione e alle aziende, sotto forma di mutui a tasso zero, gli eventuali residui di cassa. Il risultato? La Provincia di Bolzano vanta un tesoretto di circa sei miliardi di euro, mentre ogni singolo abitante, dai neonati ai centenari, riceve ogni anno dallo Stato 8.500 euro di trasferimenti fiscali, rispetto ai 2.200 della Lombardia e ai 1.800 del Veneto. La Svp, il partito egemone guidato dal presidente della provincia Luis Durnwalder, che con il collega trentino si alterna anche alla testa della regione autonoma, è poi abilissimo nello sfruttare le debolezze dei governi nazionali, che certo non difettano. Quando a Prodi mancavano un paio di voti, Durnwalder lì garantì in cambio di ulteriori sconti sul carburante. Quando la stessa cosa accadde con Berlusconi ottenne mano libera (cioè proprietà e introiti) sul parco dello Stelvio. Naturalmente i trentini non vogliono sentirsi i parenti poveri. Hanno già ottenuto, per gli insegnanti ed i dipendenti pubblici, un soprassoldo del 50 per cento in conto bilinguismo. Adesso mirano a sottrarsi alla spendig review sulle spese pubbliche che invece colpirà le altre amministrazioni dello Stato, ed anche le altre regioni, ordinarie e autonome. Con tanti saluti all’irredentismo ed a Cesare Battisti: bastano un museo nel castello del Buon Consiglio a Trento. Per il resto la manna parla ovviamente tedesco, mentre i risparmi finiscono in gran parte nelle banche austriache. Nel 2008 Durnwalder risultò da un’inchiesta del quotidiano di lingua tedesca Tageszeitung il politico italiano più pagato: 25.600 euro netti al mese di stipendio. «Me li merito», disse; poi ha annunciato un taglio. Resta il fatto che in tutto il Veneto, che pure non si lamenta, è partita la corsa dei comuni che vogliono farsi annettere al Trentino-Alto Adige, o in subordine al Friuli-Venezia Giulia. Capofila dei primi è Cortina d’Ampezzo, dei secondi Sappada; entrambi in provincia di Belluno. Così come in Piemonte si chiede il passaggio alla Val d’Aosta; ed in Lombardia addirittura al Canton Ticino. La realtà è che – a parte i pochi davvero ricchi e felici – le regioni, tutte, si avviano ad essere entità ed esperienze bollite. Sono le grandi malate dell’amministrazione italiana, e non solo per i buchi della sanità. E se le province sono sostanzialmente enti inutili, le regioni si stanno rivelando un fallimento. Certo, la Sicilia dei Lombardo e dei Cuffaro lo è anche sul piano politico ed etico: per esempio con i suoi infiniti trasformismi. È prassi che chi inizia il mandato con una maggioranza lo porti a termine con lo schieramento avverso: un fenomeno che è stato studiato e nobilitato alla voce «milazzismo» da quando nel ’58 Pci e Msi si allearono per sostenere il democristiano Silvio Milazzo contro lo stesso scudocrociato. “Tutto nel nome dei superiori interessi dei siciliani” dissero in un famoso comunicato congiunto comunisti e missini. Ma se Palermo è la patologia, Roma, Perugia, Bari, perfino Venezia e Milano rischiano di essere ben presto i simboli premonitori di un’epidemia. L’Umbria ha il record delle pensioni d’invalidità civile, seguita dalla Liguria. La Puglia di Nichi Vendola, in epoca di tagli alla spesa pubblica, ha pensato bene di rimettere a carico integrale della regione il famoso Acquedotto pugliese, il più grande e inefficiente d’Europa, noto per distribuire più che l’acqua, i favori. Domanda: ma che ce ne facciamo di queste regioni? Non era meglio lo Stato napoleonico? E dire che ci avevano perfino venduto il federalismo. Ora però arriveranno un bel po’ di «città metropolitane». Teniamoci stretti, e occhio al portafoglio. Marlowe, Il Tempo, 19 luglio 2012

.…………….Nel 1968 il solo MSI di Arturo Michelini, che doveva morire di lì a poco, combattè una generosa ma inutile battaglia in Parlamento contro l’istituzione delle Regioni. “No all’Italia in pillole” era lo slogan coniato per l’occasione che coincideva con le elezioni politiche di quell’anno che però registrarono un lieve arrettramento del partito che combatteva quella battaglia. Perduta, ovviamente, e vinta da quelli che predicavano la grande utilità delle regioni di cui tutti dicevano un gran bene. Si  visto quale è stato il bene, o meglio, per chi è stato un gran bene: politci trombati, burocrati inventati, esperti del nulla, consulenti di ogni specie e d’ogni risma, tutti attovogliati alle tavole regionali, con gradn dispendio di quattrini e di risorse. Sperare che si riesca a porre fine a questo bengodi è follia, visto, oltrettuo, che dopo un gran parlare, anche il governo dei tecnici (tecnici di che!?) ha alzato bandiera bianca sulla abolizione delle privincie. E ci potete scommettere, se dovessero nascere le città metropolitane, previste dalla legge 142 del 1990, cioè ben 22 anni fa,  statene certi che esse saranno un doppione delle Provincie che resteranno in piedi anche nelle 10 città che dovrebbero diventare “metropolitane”. Alla faccia delle riduzione dei costi della politica, gli unici che non saranno mai tagliati insieme alle tasse che strangolano i contribuenti italiani. g.