Alla faccia dell’«equilibrio» auspicato dal presidente del Consiglio alla vigilia del verdetto della Cassazione sul caso di Alessandro Sallusti, pur parlando di un possibile intervento legislativo sulla materia: equilibrio tra libertà di stampa e tutela della reputazione, indicato da Monti come “due beni della società“. Ma alla faccia anche dell’«interesse» alla vicenda, e quindi alle decisioni giudiziarie di ultima istanza, manifestato e lodevolmente confermato ieri sera dal presidente della Repubblica. Al quale, a questo punto, visto che la Cassazione ha confermato e reso definitiva la condanna di Sallusti a 14 mesi di carcere per un articolo, peraltro neppure suo, pubblicato cinque anni fa su «Libero» da lui allora diretto e considerato diffamatorio nei riguardi di un magistrato, non resterà forse che predisporsi ad un provvedimento di grazia. Che, ormai da qualche tempo, può essere per fortuna concessa dal capo dello Stato di propria iniziativa: per fortuna perchè il condannato, peraltro affrettatosi a dimettersi ieri stesso dalla direzione de «il Giornale», già prima che sopraggiungesse la «sospensione» della pena disposta dalla Procura di Milano, non sembra intenzionato a chiederla. Il rifiuto di Sallusti è un atto un po’ di orgoglio, sentendosi egli giustamente condannato ingiustamente -scusate il bisticcio degli avverbi- alla detenzione per un reato che è solo di opinione, e un po’ di sfida. Che trovo pienamente condivisibile. Sfida ad una magistratura arroccatasi su posizioni che saranno conformi, per carità, alle norme in vigore, e quindi legittime, ma contrarie al buon senso. Ed anche ad una concezione umana dei rapporti fra il cittadino e la legge: una concezione alla quale era in fondo sembrato ispirarsi il dissenso, non condiviso dai giudici, espresso dallo stesso magistrato dell’accusa per le attenuanti generiche negate all’imputato dalla Corte d’Appello. Alla quale pertanto il procuratore generale aveva inutilmente chiesto di rinviare il procedimento. Ma la sfida di Sallusti -ripeto, condivisibile- è anche ad una classe politica che, pur prodiga di parole di solidarietà per i giornalisti che di volta in volta si trovano a rischiare quello che gli è appena accaduto, non ha mai trovato il tempo, e la voglia, di modificare una legge che si presta a simili, aberranti interpretazioni e applicazioni. Tanto più aberranti quando a trarne praticamente vantaggio, in termini di dimostrazione di forza, a parte gli aspetti economici, è un magistrato. Cioè un collega dei giudici che hanno condannato Sallusti in primo, secondo e terzo grado. Ma cosa ci si può ormai aspettare -diciamoci la verità- da una classe politica che sembra avere perso il contatto con il Paese, che pure dovrebbe rappresentare? Lo dimostra il modo in cui, per esempio, essa reagisce a tutti i livelli, centrale e locale, al discredito che si è procurata da sola, prima finanziandosi a dismisura e poi sottraendosi con mille sotterfugi e rinvii ai risparmi e ai tagli che pure sa imporre ai cittadini già travolti dagli effetti della crisi economica. In attesa di un intervento legislativo, con i suoi tempi, peraltro ancora più incerti in una congiuntura politica come questa, quando mancano ormai pochi mesi alla scadenza delle Camere elette nel 2008, con il rischio quindi che bisognerà aspettare le nuove per venirne a capo; o in attesa di un provvedimento di grazia, non so neppure se e come praticabile di fronte ad una condanna definitiva sì, ma di cui per fortuna non è stata disposta la esecuzione, Sallusti si trova già menomato nell’esercizio della sua professione. Menomato o intimidito, nonostante l’orgoglio e la forza che ostenta, perché quella di cui gode oggi è solo una «sospensione» di pena. Una sospensione a fare saltare la quale basterebbe un’altra vicenda giudiziaria analoga a quella appena conclusa, possibile sino a quando le norme rimarranno quelle in vigore. La diffamazione nei riguardi di un giudice tutelare criticato dal giornale allora diretto da Sallusti per un aborto consentito ad una minorenne, è stata definita «aggravata» dalla condanna sospesa, in un sussulto di ragionevolezza, dalla Procura di Milano. Ma se è «aggravata» la diffamazione che per «omessa vigilanza» nelle sue funzioni di direttore di «Libero» Sallusti ha procurato cinque anni fa ad un giudice, come dovremmo chiamare la diffamazione che subiscono tanti cittadini che si trovano, per esempio, sputtanati spesso e volentieri con intercettazioni, dirette o indirette che siano, più o meno puntualmente sfuggite al segreto investigativo? Cittadini, comuni e non, che spesso sono o finiscono per risultare estranei alle indagini e ai procedimenti giudiziari nel cui ambito sono stati intercettati. Cittadini, ripeto, comuni e non. Fra i quali ha rischiato di finire recentemente persino il capo dello Stato. Il quale, trovatosi «casualmente» sotto intercettazione a colloquio con il suo amico ed ex ministro democristiano dell’Interno Nicola Mancino, nell’ambito delle indagini della Procura di Palermo sulle presunte trattative di una ventina d’anni fa fra lo Stato e la mafia impegnata nelle stragi, ha dovuto difendere la inviolabilità del suo ruolo tutelata dalla Costituzione presentando ricorso alla Corte Costituzionale. Ed esponendosi per questo ad una vera e propria campagna di denigrazione e delegittimazione da parte dei soliti tifosi della Procura palermitana. Che lo hanno accusato di tutto: di prevaricazione e di «manovre», come ha detto Antonio Di Pietro, per salvare Mancino e gli altri imputati o sottrarre le indagini a Palermo. E che ora temono, magari, che le intercettazioni subite da Napolitano risultino meno «casuali» del previsto o dell’annunciato ad una Corte molto curiosa, che ha legittimamente chiesto a Palermo atti e notizie dettagliate. Francesco Damato, Il Tempo, 28 settembre 2012

.…………Mentre il Paese affonda nella melma, i politici di ogni colore continuano nei loro gochini e nelle loro disattenzioni ai problemi del Paese. Siamo alla canna del gas e c’è chi se ne impipa, compresa la casta dei magistrati che come sottolinea Damato da una parte restano indifferenti alla gogna mediatica cui spesso sono sottoposti cittadini del tutto innocenti che nessuno risarcisce (il caso Tortora, tornato alla ribalta per la imminente fiction su RAI 1, sta lì a dimostrarlo…)  e dall’altra usano una legge fascista vecchia di 82 anni, rimasta in piedi dopo 60 anni di cosiddetta democrazia, per “vendicarsi” di chi li critica e magari anche arricchirsi. Che dire….povera Italia! g.