La Sicilia è sempre stata un formidabile laboratorio politico, anticipatrice di fenomeni che poi si sono radicati in tutto il Palazzo. Il voto per il rinnovo del consiglio regionale ci offre una proiezione di quel che accadrà al Parlamento nazionale se i partiti non intervengono subito con una riforma istituzionale per assicurare al Paese stabilità e governabilità. Senza questi due ultimi requisiti nella competizione globale sei perdente in partenza. La salvezza del sistema politico è un pre-requisito per poter sfidare i giganti: il capitalismo senza democrazia della Cina, il capitalismo con la democrazia e un forte presidenzialismo degli Stati Uniti, il mercato e lo Stato forte della Germania, la crescita senza regole dei Paesi emergenti, mette tutti di fronte al dilemma del funzionamento della democrazia. Pensate alla Sicilia: è una regione esattamente nelle stesse condizioni della Grecia, vicina al default, con un apparato burocratico amministativo abnorme, dove le assunzioni clientelari sono un volano non solo per la politica ma per l’intero sistema economico che succhia la mammella dei contribuenti. Può una regione con svariati miliardi di euro di debito essere governata da una maggioranza esile, di volta in volta sottoposta al ricatto delle minoranze necessarie? Osservate cosa è successo in Spagna: le autonomie locali nel mezzo della crisi hanno svelato i buchi dei loro bilanci, una voragine che ha aggravato la crisi della Agencia tributaria. La situazione italiana rischia di divenire la fotocopia di quella spagnola. Ma mentre in Spagna i partiti sono riusciti almeno a votare e a varare un governo (quel finto fenomeno di Zapatero ha lasciato posto ed eredità a Mariano Rajoy), in Italia i partiti, un anno fa, hanno alzato le mani e chiamato Monti per spegnere l’incendio che essi stessi avevano appiccato. Fanno sorridere quando reclamano le elezioni che essi stessi non hanno voluto. L’insegnamento che viene dalla Sicilia è un gong potente che dovrebbe svegliare tutti: i vincitori, i vinti e quelli che si apprestano a fare il primo passo nel Palazzo. Nessuno andrà lontano perché la recessione economica si sta intrecciando con la crisi finanziaria e quella politica. È in corso un pericoloso avvitamento delle istituzioni che rischia di trascinare il Paese a fondo. Da tempo sostengo che l’Italia ha bisogno di uno shock per risollevarsi. La sua storia lo dimostra ed è questa la tesi di fondo di «Tutte le volte che ce l’abbiamo fatta», il libro che ho scritto per Mondadori. L’Italia è un grande Paese, terra di geni e costruttori di realtà e di immaginario, sta per affrontare un altro passaggio chiave della sua storia. Bisogna fare le riforme, accettare il peso di una lunga traversata nel deserto per riscoprire le radici di un Paese che ce l’ha fatta e ce la farà ancora. Mario Sechi, Il Tempo, 30 ottobre 2012

.………….Tutto giusto, meno la retorica dell’Italia che che è un grande Paese e che ce la farà ancora una volta….Sechi è troppo intelligente per pensare   e scrivere  frasi da libro cuore. L’Italia è un Paese a pezzi, anzi a pezzettini e non è più un grande Paese da tanto tempo. E’ un territorio indiano, dove scorazzano gli indigeni mentre arrivano i conquistatores non necessariamente spagnoli e gentiluomini. Dove non abbondano nè geni nè costruttori di realtà, quei pochi che ci sono scappano o li fanno scappare. E’ la storia per esempio dell’erede dei Rana che per costruire in America uno stabilimento della loro celebre pasta ci ha messo quindici giorni per avere i permessi con il sindaco della città che si metteva a disposizione, mentre in Italia è da sette anni che combatte  per avere  gli stessi permessi, contro la burocrazia,  l’ottusa burocrazia  di stampo piemontese ereditata dal regno d’Italia, non la burocrazia rigida ma veloce di Francesco Giuseppe, ancora oggi celebrata dalle popolazioni del Tirolo. E  non un caso che gli italiani, che non si sentono più nè geni nè costruttori di realtà, si affidano ad un comico, Grillo, per stanare la politica e i politicanti, tutto il contrario dei geni e dei costruttori della realtà. L’unica realtà è che di fronte allo sfacelo di cui egli pure è stato causa, il presidente Napolitano auspica che non si voti se non con una nuova legge elettorale. Pare il pronunciamento di qualche caudillo del passato che balbetta scusa per mascherare la dittatura. Napolitano fa finta di non sapere che la nuova  legge elettorale non si farà mai, nè mai i partiti hanno avuto voglia di cambiarla perchè il tanto deprecato porcellum in verità sta bene a tutti, perchè tutti in questo modo si tengono stretto un sistema bloccato e chiuso alle caste di partito, che imperterrite fanno ciò che vogliono. Stamani una inchiesta di Sole 24 ore testimonia che i partiti in questi ultimi 18 anni hanno rapinato 2,2 miliardi di euro a titolo di rimborso di spese elettorali spendendone appena 580 milioni,  il resto è sparito in ostriche e champagne. Come sperare che i ladri si trasformino in gentiliuomini e restituiscano non tanto il mal tolto quanto il loro potere che è lo strumento per continuare a rapinare? Napolitano lo sa, ma recita una parte in commedia che è quella del nonno buono e gentile, una parte che ancor più offende, quasi più delle ruberie di Stato. Quasi come offende Monti che si rivela cattivo e algido, sicuro di rimanere lì dove la viltà di un Parlamento di nominati lo ha issato, perchè conoscendo i polli  ben sa che mai si trasformeranno in aquile e quindi si consente  di autodefinirsi  “maledetto” ma con l’aureola del santo salvatore intorno alla testa, proprio come un qualsiasi  defunto Ceacescu o  vivente Chavet. No,  caro direttore Sechi, sperare ancora nello stellone d’Italia è solo utopia, anzi al punto in cui siamo solo una fesseria. Ci vorrebbe ben altro ma non lo si può dire perchè può capitare di finire a pulire i cessi come sta per capitare a Sallusti del quale ormai nessuno più nè si ricorda, nè parla. Mors tua, vita mea, macheronicamente. g.