Il partito democratico è in stato confusionale da quando l’ipotesi di un movimento politico ispirato da Mario Monti è diventata realtà. Finché a giocare la partita era il Cavaliere, Pier Luigi Bersani poteva fregarsi le mani. Berlusconi è in campo ma è logorato, ha il conflitto d’interessi incorporato, la giustizia alle calcagna, si è giocato il credito in Europa e ha un’idea sempre più bizzarra della politica. In queste condizioni, Silvio è un avversario facile. Il problema per i progressisti (fateci caso, hanno ricominciato a chiamarsi così) è che Monti è tutta un’altra narrazione. Il Pd ha votato tutte le fiducie del governo Monti, su cosa può attaccarlo? O si fa come Berlusconi e si nega l’evidenza oppure si tenta un diversivo. Così Bersani ieri ha detto che i partiti “in prima persona” non fanno bene alla politica. Il riferimento a Monti è automatico e questo dimostra non solo la paura del Pd di perdere suoi voti in favore del Professore, ma anche una brutale volontà di accomunare il partito di Berlusconi e l’iniziativa di Monti. Non mi riferisco al bon ton, ma all’analisi politica di cui Bersani appare sprovvisto. E il partito-apparato fa bene alla politica? Bersani dovrebbe conoscerlo bene visto che il Pd ne è l’esempio concreto. Senza l’apparato Bersani avrebbe potuto vincere le primarie contro Renzi? Ne dubito. Avrebbe potuto confezionare regole su misura per la sua vittoria? Che mestiere farebbe oggi Bersani senza l’apparato? Marini e Bindi potrebbero essere candidati senza l’apparato che fa da scudo? Siamo seri, il bue non può dare del cornuto all’asino. Bersani sa benissimo che l’avventura di Monti – se ci sarà e si farà secondo canoni politici adeguati – è di spirito degasperiano al punto che il Pd dovrà farci dei patti. Il Professore tornerebbe tranquillo a dedicarsi ai libri, all’Università o all’Europa, ma gli è toccato in sorte di doversi occupare della cosa pubblica, invocato prima dai partiti e poi dall’establishment europeo che non si fida di un centrodestra formato Grillusconi e tanto meno del Pd con la chiave inglese. No, in questa storia non c’è niente di personale, solo la fretta e la paura di Bersani. Mario Sechi, Il Tempo, 21 dicembre 2012

.……Sono settimane che Mario Sechi, direttore de Il Tempo si è convertito al montismo, tanto da essere divenuto la penna più valida a favore della discesa in campo (metodo berlusconiano|) del professorismo d’annata rappresentato da Monti e magari da qualche suo ministro, come la Fornero che oggi, in Parlamento,  ne ha fatta un’altra delle sue: si è tappata le orecchie per non sentire prima Di Pietro, e poi le accuse dei leghisti sulla storia degli esodati, ad un tempo prova di infantilismo acuto e di insopportabulità del metodo della democrazia. Sechi professa il suo montismo dalle colonen  del giornale che dirige, il quotidiano romano Il Tempo, fondato   dal mitico  Renato Angiolillo, diretto per tanti anni da Gianni Letta,  e considerato l’eco più autentico dei romani. Segno ssatore, cioè Mario Monti. Non sarà questo che ci farà cambaire opinione sulle sue indubbie qualità di giornalista. Però, a patto che non esageri. Per esempio paragonando Monti a De Gasperi. De Gasperi è oggi considerato  un grande  statista, senza essere mai stato  per nulla un economista, fe3ce esperienza dapprima nel Parlamento asburgico, e poi durante il fascismo tessendo la tela della opposizione cattolica che dopo la fine della guerra si trasformò nella Democrazia Cristiana di cui fu segretario e per conto della quale fu  più volte presidente del Consiglio, la prima volta quando   si presentò alla conferenza di pace di Parigi di certo appellandosi alla personale cortesia dei delegati delle potenze vicnitrici ma senza genuflettersi oltre misura per chiedere e ottenere, non per se, ma per l’Italia, Paese cobelligerante dopo l’armistizio, rispetto e considerazione. Tra il 1945 e il 1953, quando fu costretto alle dimissioni, De Gasperi   fu sempre rispettoso delle prerogative del Parlamento, accettandone le regole,  e  governando nel solco della Costituzione che egli aveva contribuito a scrivere, gettando le basi della rinascita nazionale che di lì a poco avrebbe consentito all’Italia di scrivere pagine memorabili di riscossa economica che avrebbe avuto di lì a pco, negli anni 60, la consacrazione.  DE Gasperi morì prima di vedere tutto ciò, nell’estate del 1954, nel suo Trentino, da solo, senza aver mai profferito parola di recriminazione  per coloro che l’avevano costretto a lasciare il governo e senza aver mai pensato di trasformarsi, lui che aveva incarnato nell’immediato e desolante dopoguerra l’Italia,  in partito. Può Sechi paragonare Monti a De Gasperi? Può paragonarne le storie personali? A noi sembra francamente di no, per c ui quella di Sec hio ci sembra una forzatura che non aiuta iol suo protetto ma non rende omaggio  alla Memoria di Alcide De Gasperi. g. P.S. Ci capita spesso, per ragioni diciamo tecniche,  di declianre il nome di De Gasperi e spesso siamo costretti a rimproverare quanti, sopratutto giovani,  ne storpiano il cognome, mostrando sconcertante ignoranza della nostra storia recente!