Le elezioni di domenica rappresenteranno la prova del fuoco per quella tendenza di fondo – la tendenza a governare in nome del «vincolo esterno» – con la quale negli ultimi trent’anni le classi dirigenti italiane hanno pensato di risolvere i problemi del Paese. Un Paese fin dall’Unità sentito (non a torto!) come assolutamente restìo a cambiare abitudini e pregiudizi inveterati, legato ai suoi vizi, ai suoi mille interessi contrapposti, leciti e meno leciti, ai suoi tenaci corporativismi d’ogni tipo; un Paese quindi sempre riottoso alle direttive dall’alto, alle norme, abituato a usare lo Stato e a piegarlo al proprio utile, ma mai o quasi mai a piegarsi all’utile di quello. Insomma politicamente indomabile.
Che tale fosse l’Italia che la Repubblica aveva ereditato dal passato le classi dirigenti hanno dovuto prenderne atto specialmente a partire dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso. Allorché fu chiaro che il carnevale della spesa pubblica facile, iniziato quindici anni prima, stava creando una situazione finanziariamente insostenibile, e che però togliere a un tale Paese le rendite, i privilegi, gli abusi, o semplicemente ridimensionare i benefici, a cui esso si era ormai abituato, era impossibile. Impossibile riorganizzare l’amministrazione pubblica all’insegna del merito e dell’efficienza; impossibile rivedere il catastrofico ordinamento regionale; impossibile rivedere le leggi dappertutto eccessivamente permissive appena approvate; impossibile rifare la scuola sempre più sfasciata, e così via per molte, troppe voci. Impossibile beninteso stante il suffragio universale: dal momento che chiunque ci avesse provato avrebbe pagato di sicuro un prezzo elettorale catastrofico.
Si cominciò allora a toccare con mano quanto fosse ormai impossibile cambiare dall’interno il rapporto politica/società. Si cominciò allora ad ascoltare sempre più spesso il ritornello «Sì, è questo ciò che ci vorrebbe, ma non si può fare!», «Sì, le cose stanno così, questa è la verità, ma non la si può dire!». Lo sussurravano non pochi politici intelligenti e informati: ma regolarmente e inevitabilmente rassegnati. Intimidita, la politica si trovò ormai messa nell’angolo da un Paese che di prendere atto del modo in cui stessero le cose non voleva assolutamente saperne.
È a questo punto, in questa distretta sempre più soffocante, che – per convincere la società italiana di ciò di cui essa da sola non poteva convincersi, per farle accettare ciò che da sola non avrebbe mai accettato – la parte più avvertita della classe dirigente si decise a imboccare con decisione la strada del vincolo esterno. Sull’esempio – ormai si può dire – di quello che in fondo era stato lo stesso atto fondativo del regime repubblicano: quando dopo il 1943 fu per l’appunto un fattore esterno, la sconfitta militare e la vittoria alleata, a stabilire la democrazia in Italia.
Questa volta il vincolo esterno fu rappresentato dall’Unione Europea. Sarebbero state le direttive e le politiche comunitarie a mettere le briglie al Paese. Sarebbe stato l’euro a imporre il ravvedimento finanziario agli italiani dissipatori e riottosi. A partire dagli anni Novanta l’Unione Europea si trasformò nel salvagente al quale si aggrappò una parte maggioritaria della classe politica, via via che da un lato diveniva evidente la non riformabilità dall’interno della società italiana, e dall’altro, insieme, l’incapacità della politica nazionale di guadagnare con i propri mezzi il consenso necessario ad un mutamento di rotta.
Come in nessun altro luogo del continente l’adesione incondizionata all’europeismo e alla sua ideologia divennero così la nuova carta di legittimazione del sistema: obbligatoria per chiunque volesse non solo accedere al governo, ma perfino essere ammesso ad una piena rispettabilità politica. È inutile sottolineare quanto l’ultima fase della politica italiana si sia identificata con la prospettiva ora indicata. Che domenica si trova ad affrontare la prova del fuoco elettorale nella situazione più difficile principalmente, a me pare, per una ragione. La ragione è che il vincolo esterno, per risultare accettabile e non ferire il legittimo (insisto: legittimo, sacrosanto) sentimento di autostima di un Paese, deve essere assolutamente trasformato da chi se ne fa forte in un fatto nazionale. E cioè innanzi tutto produrre anche un immediato beneficio: altrimenti esso finisce per apparire inevitabilmente un’imposizione esterna fatta nell’interesse precipuo della parte esterna. Ora, disgraziatamente, in 14 mesi il vincolo esterno europeo è stato ben lungi dal soddisfare questa condizione dell’immediato beneficio. La situazione generale del Paese invece di migliorare è peggiorata. E dire, come si sente dire, «poteva andare molto peggio», non può avere altro effetto, sui molti che versano in condizioni di disagio, se non quasi di una presa in giro. Così come l’affermazione – anche questa molto ripetuta – «non c’era altro da fare» è un’affermazione che ha lo svantaggio di non poter essere suffragata da nessuna prova davvero convincente agli occhi degli elettori.

C’era un altro modo ancora, però, e a prescindere dagli effetti economici, in cui il vincolo esterno avrebbe potuto essere depurato della sua origine e trasformato in un dato dall’impatto fortemente nazionale: e non lo è stato. Se esso fosse diventato il pretesto per un invito appassionato – rivolto non già alle forze politiche, ma alla società italiana nel suo complesso – perché nell’occasione essa affrontasse uno spietato esame di coscienza, perché ripensasse una buona volta la propria storia iniziando a capire il peso, ormai insopportabile, delle sue troppe pigrizie, delle sue troppe incapacità, delle sue troppe indulgenze. Vi sono circostanze critiche in cui il governo democratico di un Paese deve essere capace anche di questo: di una pedagogia civile ispirata dalla verità e sorretta dalla cultura. In caso contrario il prezzo da pagare – non solo elettorale, e non solo per chi ha governato – può rivelarsi molto alto.