Dalle otto di questa sera, la Sede di Pietro sarà vacante. Secondo una modalità senza precedenti nei duemila anni di storia della Chiesa. Il Papa rinuncia al ministero petrino senza, per questo, scendere dalla barca di Pietro. Perché il suo accettare «sempre» e «per sempre» la chiamata rivoltagli dal Signore il 19 aprile del 2005, non è contraddetto dalla sua scelta. Perché «il “sempre” è anche un “per sempre”», e non c’è, da questo, ritorno a una vita “normale”. «Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso. Non porto più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto di San Pietro».
Congedandosi ieri dai fedeli, nella sua ultima udienza generale, Benedetto XVI ci ha fatto l’ultimo regalo di un altro, indimenticabile discorso. Intriso di commozione per il momento e di amore per la Chiesa, e di riconoscenza per quanto ricevuto. Un discorso semplice e, a un tempo, altissimo, per ringraziare di quanto gli è stato donato, e senza un cenno a quanto lui ha dato. Alla Chiesa, a tutti noi. A un mondo che ieri ha seguito il suo saluto in silenzio, trovando nelle sue parole pacate, quiete, serene, le risposte a tutti i “perché” – gli umanissimi, sgomenti perché? di chi il Papa lo ama, ma anche i perché, senza punto interrogativo, di chi ha preteso di spiegare le “dimissioni” in una logica mondana – che in questi giorni si sono affastellati l’uno sull’altro attorno alla rinuncia.
Adesso capiamo, sappiamo. Da stasera, il Papa è nascosto “agli occhi del mondo”, ma non “nascosto al mondo”. C’è. Ci è vicino. Un distacco necessario, dopo che «in questi ultimi mesi, ho sentito che le mie forze erano diminuite», maturato nella preghiera «per farmi prendere la decisione più giusta non per il mio bene, ma per il bene della Chiesa». Fino a una scelta compiuta «nella piena consapevolezza della sua gravità e anche novità, ma con una profonda serenità d’animo».
Perché «amare la Chiesa significa anche avere il coraggio di fare scelte difficili, sofferte, avendo sempre davanti il bene della Chiesa e non se stessi». Scelta grave, dunque. Stridente con un mondo che cerca disperatamente, quasi a tutti i costi, di vivere sotto i riflettori, e rispetto al quale Papa Benedetto ci ha mostrato l’imprescindibile valore dell’essere.
Un essere contrapposto a un apparire che, sempre più spesso, malinconicamente, è solo un sembrare. Essere uomo di fede radicalmente, fino in fondo, senza compromessi. Testimoniando, ancora una volta, la coerenza con la sua idea di essere sacerdote, che non può, non deve coincidere mai, in nessun modo, con l’attaccamento a un ruolo o a una carriera, ma ministero, servizio, a ogni livello, in ogni momento, della Chiesa e alla Chiesa. Chiesa che non è nostra, ma di Dio. C’è voluto un coraggio da leone, e una fede incrollabile, per fare quello che Papa Benedetto ha fatto. Non lo potremo mai ringraziare abbastanza, per questo e per come, da padre e da maestro, ce lo ha spiegato e sempre meglio fatto comprendere. E se, umanamente, non riusciamo a non sentirci un po’ tristi, anche questo, paradossalmente, fa parte di quella «gioia di essere cristiano» che Papa Benedetto, salutandoci, ci augurato di poter noi tutti, sempre, sentire. Salvatore Mazza, 28 febbraio 2013