La «Bicamerale» per le riforme, presieduta da Massimo D'Alema, nel 1997

ROMA – Nella testa del presidente del Consiglio designato, lo schema di gioco prevede un doppio tavolo di confronto tra i partiti: il primo ha come oggetto di discussione il programma di governo e la formazione dell’esecutivo; il secondo, «aperto a tutte le forze rappresentate in Parlamento», si occupi invece di modificare la legge elettorale, di ridurre il numero dei parlamentari e di scardinare il bicameralismo perfetto istituendo una Camera delle autonomie. Ci sono due tavoli, dunque, nelle intenzioni illustrate da Pier Luigi Bersani al capo dello Stato. Ma questo modulo di gioco, nella sintesi teorica del costituzionalista Stefano Ceccanti, prevede anche «tre cerchi»: «Nel primo cerchio ci sono le forze politiche che danno vita al governo, nel secondo quelle che votano o favoriscono la fiducia, nel terzo quelle che siedono al tavolo delle riforme. Per cui è molto difficile che, in mancanza di un accordo sulla nascita del governo, poi si possa avere l’intesa sulle riforme…».

Rimane una nebulosa, almeno in questa fase, la proposta di Bersani di mettere in campo una «Convenzione» bipartisan (o tripartisan, visto l’esito delle elezioni) con il compito di metter mano anche alla seconda parte della Costituzione. Il nodo, infatti, è ancora politico e lo spiega, con la consueta schiettezza, il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri (Pdl): «Vedremo cosa saprà fare Bersani. Certo, non può pensare di darci in “premio” la guida della Convenzione, o Bicamerale che sia, tenendoci poi fuori dal tavolo intorno al quale si decide il programma di governo. Che fa Bersani? Ci dice: “Andate al bar mentre noi facciamo il governo e dopo ci vediamo tutti al tavolo delle riforme”? Questo schema del doppio tavolo di confronto per ora lo vedo di difficile attuazione…». Anche perché, conclude Gasparri lasciando intendere che non c’è spazio per inciuci sottobanco, «i quindici voti che mancano a Bersani per ottenere la fiducia a Palazzo Madama non verranno certo dai nostri senatori…».

Ma mettiamo pure che Pdl e Movimento cinque stelle ci stiano a sedersi al tavolo delle riforme con un governo a guida Pd: anche in questo caso restano da affrontare tempi lunghi e difficoltà tecniche per consentire l’avvio di un nuovo organismo costituzionale.

I precedenti ci sono ma hanno avuto tutti e tre esito sfortunato. Tra il 1983 e il 1985, ha lavorato, grazie a una legge ordinaria, la commissione di studio presieduta dal liberale Aldo Bozzi: 20 senatori e 20 deputati che proposero un bicameralismo differenziato col principio del silenzio assenso finalizzato a snellire il procedimento legislativo. Poi, tra il ‘92 e il ‘94, è comparsa la seconda bicamerale guidata da Ciriaco De Mita e Nilde Jotti: 30 senatori e 30 deputati insediati prima in commissione di studio (con legge ordinaria) e in corso d’opera come commissione redigente (con legge costituzionale). Infine, si arriva alla più recente e conosciuta Bicamerale dei 70 presieduta da Massimo D’Alema e sponsorizzata da Silvio Berlusconi (istituita nel ‘97 con legge costituzionale) che, a torto o a ragione, è ancora considerata come la madre di tutti gli inciuci tra centro destra e centro sinistra. Ora però – vista l’urgenza di varare almeno la legge elettorale – i tempi sarebbero assai stretti, non compatibili con i quattro passaggi parlamentari richiesti per una legge istitutiva di rango costituzionale: «Dunque – suggerisce Ceccanti – il modello è quello della commissione De Mita-Jotti che parte come organismo di studio, inizia ai suoi lavori e poi diventa commissione redigente». Tutto questo, però, implica la formazione di un governo senza il quale non si va da nessuna parte.

E anche la proposta «minima» del M5S, quella di far partire almeno le commissioni parlamentari permanenti pur in assenza di un esecutivo legittimato da un voto di fiducia, divide due ex presidenti emeriti della Consulta, come Valerio Onida, favorevole, e Carlo Alberto Capotosti, contrario. Tuttavia, soprattutto al Senato, si fa strada una scuola di pensiero intermedia visto che già questa settimana dovrà nascere la commissione speciale per la conversione dei decreti legge varati dal governo Monti (in carica per gli affari correnti): per cui, è l’ipotesi allo studio degli uffici, perché escludere a priori che almeno la commissione Affari Costituzionali (quella che si occupa di materie tipicamente parlamentari) possa funzionare anche in assenza di un governo legittimato da un voto di fiducia? Il percorso appare comunque tortuoso ma risulterebbe l’unico utile per riprendere in tempo utile il confronto sulla legge elettorale. Altrimenti, se tutto va a rotoli, si torna a votare con l’odiato-amato Porcellum, col rischio di produrre un risultato fotocopia del 25 febbraio.Dino Martirano, Il Corriere della Sera, 24 marzo 2013

.……………La peggiore delle iatture che potrebbero capitare al popolo italiano, ai 50 milioni e passa di elettori, è di tornare a votare con la legge elettorale attuale. Ipotesi che diviene reale se davvero Bersani si ostinasse nel suo disegno, surreale e anche un pò stupidotto, e tipicamente “provinciale”, di due diversi tavoli di trattative: uno per fare il governo e un altro per fare le riforme. E quello del tavolo  delle riforme, intanto senza certezze che arrivi a fatti conclusivi, utilizzato per ottenere che le forze politiche escluse dal governo, votino o almeno non votino contro il governo di minoranza che allo stato dei numeri  sembra l’unico  che Bersani possa mettere su,   che non è detto riceva il placet di Napolitano che sulla questione pare la pensi diversamente. Se il tentativo sempliciotto, da furbastro di campagna, che Bersani sta tentanto non riesce, l’alternativa, l’unica possibile è di ritornare al voto. Con il porcellum,  con grande gioia dei tanti uomini della casta che non conosce distinzioni tra  destra, sinistra e centro con l’aggiunta dei “nuovi”, cioè i grillini che di certo non disdegneranno di usare il porcellum per consolidare la “fortuna” loro arrisa dalla circostanza di candidature scelte sul web da poche centinaia di persone. Per questo, se davvero Bersani avesse a cuore le sorti del Paese e i diritti, quelli reali e tangibili dei cittadini, dovrebbe turarsi il naso, ammesso che ve ne siano le ragioni, e varare un esecutivo a termine con il PDL,  con il compito esclusivo di provvedere alle determinazioni economiche che incombono sul Paese e fare le riforme che necessitano: dal taglio dei parlamentari alla legge elettorale. E solo dopo, subito dopo,  andare al voto con due obiettivi: riconsegnare ai cittadini il diritto-dovere di scegliere i parlamentari   e  stabilire chi debba governare a pieno titolo e coin i voti necessari  Paese. Se facesse questo si meriterebbe un posto d’onore nella galleria dei “presentabili” della storia politica italiana. Ma Bersani vuol essere un “presentabile”  o gli piace di più essere il contrario? g.