I parlamentari che fra meno di due settimane dovranno scegliere il prossimo presidente della Repubblica sono certamente consapevoli delle poste in gioco secondarie connesse a quella scelta, ma non sembrano esserlo altrettanto di quella principale. La posta in gioco principale non è, detto con tutto il rispetto, il destino personale di Bersani o di Berlusconi. E nemmeno la scelta fra un governo di tregua e le elezioni. La posta in gioco principale è il destino della Repubblica. Parole grosse, certamente, che richiedono una spiegazione. Che sia in gioco il destino della Repubblica dipende dal fatto che la concomitanza di tre crisi (economica, politica, istituzionale) fa della Presidenza l’unico possibile «luogo» di difesa e di (parziale) stabilizzazione della democrazia rappresentativa. Un ruolo altamente politico, politicissimo, che va molto al di là della pura funzione di garanzia. Un ruolo imposto dalla forza delle cose e non dalla volontà di chicchessia. Un ruolo non previsto in questi termini dalla Carta del 1948, checché ne dicano certi costituzionalisti esperti nel gioco delle tre carte, che inventano sempre nuovi argomenti ad hoc per dimostrare che nulla è mai cambiato.
Tutti oggi si concentrano, comprensibilmente, sullo stallo politico prodotto dalla mancanza di una maggioranza parlamentare. Ma questo è forse il minore dei nostri guai. Chi pensa che sarebbe sufficiente riformare la legge elettorale non capisce o finge di non capire. Gli sfugge la gravità e la profondità della crisi. Significa che nemmeno il clamoroso successo del Movimento 5 Stelle è riuscito a scalfire tante pseudo-certezze. Non si tiene conto di quanto sia ormai profonda la crisi dello Stato: come testimonia la condizione in cui versa l’amministrazione pubblica (che dello Stato, qui come altrove, è il cuore). Né si tiene conto del fatto che la fragilità della classe politica parlamentare non ha facili soluzioni. Se anche dalle prossime elezioni dovesse uscire una maggioranza di governo, quella fragilità non verrebbe meno. Perché ha a che fare con la debolezza e la precarietà dei rapporti fra i partiti e gli elettori. Voto di protesta, frammentazione politica e etero-direzione (gruppi extrapolitici di varia natura che impongono le proprie scelte a una classe partitica priva di forza e di autorevolezza proprie) ne sono la conseguenza.
In queste condizioni, sulle spalle del presidente della Repubblica, grazie alla durata del suo mandato, ai suoi poteri formali e di fatto, e al carisma che circonda l’istituzione della Presidenza (un carisma cresciuto nel tempo a partire da quando, negli anni Ottanta, iniziò la crisi della Repubblica dei partiti), è stato caricato un peso da novanta. Spetta a lui, o a lei, con le sue scelte, tenere insieme la Repubblica. Le sue qualità e capacità personali diventano decisive.
Non si tratta, moralisticamente, di deprecare il fatto che i politici badano, anche nella scelta di un Presidente, ai propri interessi di breve termine. È così, è un fatto. Deprecarlo è come prendersela con la legge di gravità perché ci impedisce di librarci nell’aria. Si tratta però di pretendere la consapevolezza che l’inevitabile perseguimento degli interessi di breve termine, partigiani, delle varie forze politiche, debba conciliarsi con il carattere strategico (per la sorte della Repubblica) della elezione del nuovo Presidente.
Nelle circostanze presenti, significa evitare che si realizzi l’uno o l’altro di due scenari, entrambi potenzialmente esiziali. Lo scenario A (da evitare) è quello di un accordo al ribasso: si sceglie una figura di scarsa rilevanza, in grado di svolgere solo un ruolo notarile, una figura che non riuscirebbe a entrare in sintonia con l’opinione pubblica, ad acquistare quella popolarità, e anche quel carisma personale, che, ormai, la dilatazione del ruolo politico della Presidenza impone.
Lo scenario B (anch’esso da evitare) è quello della scelta di una persona, magari anche dotata di un certo prestigio personale di partenza ma che, per le modalità della sua elezione, appaia all’opinione pubblica, come il Presidente di una sola parte. Il che accadrebbe oggi (il pericolo non è ancora del tutto rientrato) se un partito come il Pd, reduce da una non-vittoria elettorale, si eleggesse qualcuno di sua scelta acchiappando voti grillini in libera uscita. Quel Presidente sarebbe, fin dall’inizio del suo mandato, un’anatra zoppa. Ogni sua mossa verrebbe interpretata alla luce di quel vizio d’origine, sarebbe accompagnata da cori (applausi e fischi) da stadio. Le tante decisioni difficili e sofferte che dovrebbe prendere, nel corso del suo settennato, stante la persistente fragilità della classe politica parlamentare, avrebbero sempre l’effetto di dividere e mai di unire il Paese. Aggravando ulteriormente la crisi della Repubblica.
Uomo o donna che sia, il prossimo Presidente non potrà essere né una mezza figura né un’anatra zoppa. Perché dovrà unire (come è riuscito a Giorgio Napolitano), in tempi cupissimi per la nostra democrazia, la funzione del garante di tutti e le qualità politiche ormai richieste a un Presidente. Per questo è così strategica la sua scelta.
Naturalmente, sarebbe anche tempo di capire che, se si vorrà mettere in sicurezza la Repubblica, non si potrà ancora a lungo pretendere di «contenere» il ruolo del Presidente entro le formule costituzionali vigenti, occorrerà decidersi a ricomporre il rapporto fra potere e responsabilità mediante la sua elezione diretta. Ma questo passo, così logico e così necessario, richiederà alle classi dirigenti del Paese molta più energia morale e intellettuale, e molta più forza, di quelle oggi disponibili. Angelo Panebianco, Il Corriere della Sera, 10 aprile 2013
………………….Ci sembra che la conclusione del “ragionamento” di Panebianco, oltre che la necessità di evitare nella elezione del nuovo Capo dello Stato i due scenari delineati dallo stesso Panebianco, sia, in prospettiva, la parte più importante: bisogna che ad eleggere il Capo dello Stato siano gli elettori, cosicchè da sottrarlo alle alchinie di partito e dal rischio che ogni volta si paventino i due scenari- A e B - prospettati da Panebianco. E’ ciò che sostiene il centrodestra, almeno a parole: il fatto che ora se ne faccia portavoce un politologo non certo di destra come Panebianco è un fatto da evidenziare. Ciò significa che la elezione diretta del Capo dello Stato, come avviene in tante democrazie occidentali, dagli USA alla Francia, non è più un tabù e non è solo un obiettivo del centro destra. Di oggi e di ieri. Negli anni ‘70 del secolo scorso a farsi portavoce di questa richiesta era il MSI e tanto bastava per rendere la proposta non accettabile dall’allora arco costituzionale che la considerava eversiva. Ma anche allora, in quegli anni turbolenti, ci fu anche chi da “sinistra” sostenne la stessa cosa. Chi ricorda Randolfo Pacciardi, uomo delle Istituzioni, ministro, ex partigiano, ex azionista, poi repubblicano, espulso dal PRI di Ugo La Malfa e quindi fondatore del Movimento “Nuova Repubblica”? Pochi lo ricordano anche perchè nella parte finale della sua vita politica le sue scelte furono oggetto di furibonde polemiche e di accuse al limite del ridicolo e del grottesco: fascista! E ciò solo perchè Pacciardi, sulla cui etica democratica non potevano esserci dubbi, con il suo Movimento si schierò apertamente a favore della trasformazione della nostra Repubblica parlamentare in Repubblica presidenziale. Sono passati da allora quattro decenni, un tempo enorme per la politica e per la vita del Paese, sono morte la prima e la seconda repubblica e alll’alba della nascita, forse, della terza, si ripropone il dilemma di un quarantennio fa: può restare in piedi l’impalcatura istituzionale nata dalla guerra e ormai sporofondata nella più totale incapacità di rispondere alle esigenze del mondo moderno, o non è giunto il momento di cambiare e di cambiare innazitutto il modello di Repubblica? Noi la pensavamo così ieri, la pensiamo ancor di più così oggi. Che sia la volta buona? Dipenderà solo dai partiti e dai loro personali egoismi se anche questa volta non si vorrà prendere il treno della storia e della modernità. g.