Il voto del 24 febbraio è ormai un ricordo lontano. Due mesi sono passati e le stanze di Palazzo Chigi non sono ancora occupate da un nuovo premier. È stato necessario chiedere al presidente Napolitano di restare al suo posto per arginare una crisi distruttiva che stava travolgendo l’istituzione più importante della Repubblica. È partito così il tentativo di dare al Paese un esecutivo di unità tra le diverse forze politiche. Solo un carico di risentimenti, faziosità e ostinazione ideologica aveva impedito di metterlo in campo subito dopo un risultato elettorale senza vincitori.
La sferzata del presidente della Repubblica, con il suo atto d’accusa in Parlamento, ha fatto superare il primo scoglio: il vicesegretario del Pd Enrico Letta è a un passo dal varo di un governo di coalizione sostenuto da Pd, Pdl e Scelta civica. I dirigenti del Partito democratico, impegnati in una guerra fratricida che ha avuto vittime illustri come Romano Prodi e Franco Marini, hanno messo la sordina ai veti e all’ostilità radicata a collaborare con il partito di Berlusconi. C’è un via libera sofferto e svogliato, pieno di timori per la reazione della mitica base e del popolo della Rete. Tanti retropensieri che proiettano ombre sulla durata del governo.
Sull’altro fronte il Pdl ha posto condizioni, sul programma economico e sulla partecipazione di ministri osteggiati dal mondo del Pd, che stanno complicando la chiusura della trattativa, fino al rischio di fallimento.
È come se i partiti non capissero che c’è un punto decisivo che, prima di ogni altra cosa, devono sciogliere: chiarire a se stessi e al Paese che il governo che sta nascendo non è un’alleanza con la pistola alla tempia, a cui partecipano solo per l’ultimatum del Quirinale. Se non hanno fiducia loro in quello che stanno facendo come potranno sostenere la prova nel Parlamento delle mille opposizioni? E soprattutto: se non credono alla possibilità di poter fare insieme qualcosa di utile come possono pensare che il Paese e i cittadini li sosterranno? Hanno il dovere di essere ambiziosi, di dimostrare che il governo che sta per nascere non è senza padri e, dunque, esposto alla tempesta di voti parlamentari che lo butterebbero giù in poco tempo.
Il compito principale è nelle mani del presidente del Consiglio incaricato. Molto dipende dalla sua capacità di fare le scelte giuste sul programma e sulla qualità dei ministri. Enrico Letta ha riconosciuto onestamente in passato un suo difetto: cercare di mediare sempre, anche troppo. Dialogare è giusto, soprattutto in una situazione difficile, ma troppe mediazioni possono portare a risultati deludenti.
Non ci si può accontentare di un governo di serie B. Letta presenti, come è nelle sue prerogative, una compagine ministeriale di alto profilo, senza cedere alla tentazione delle seconde file per evitare tensioni. E metta sul tavolo un pacchetto di misure immediate che diano il senso della svolta: provvedimenti fiscali anti recessione, azzeramento del finanziamento ai partiti, dimezzamento dei parlamentari, nuova legge elettorale. Perché un governo che nasca già debole, che così venga vissuto dai cittadini e dai mercati, è il contrario di quello che serve.Luciano Fontana, Il Corriere della Sera, 27 aprile 2013