Mai così marginale, ininfluente, inafferrabile dal secondo Dopoguerra a oggi. Così si offre la destra italiana allo sguardo di chi voglia misurarne il battito cardiaco dopo le elezioni politiche del febbraio scorso. Malgrado alcuni recenti, non disprezzabili tentativi di dilatarne la rappresentazione includendovi la ventennale vicenda berlusconiana (vedi Antonio Polito nel suo “In fondo a destra”, Rizzoli), la destra qui presa in esame è quella post fascista nelle sue più sottili ramificazioni, secondo la filiera che dal Movimento sociale italiano ha via via generato: Alleanza nazionale (1995-2008), un terzo del Pdl guidato da Gianfranco Fini (2008-2012), la Destra di Francesco Storace (2007) e Fratelli d’Italia (2012). La quota di ex missini rimasta nel partito berlusconiano e riconducibile a Maurizio Gasparri ha programmaticamente rinunciato a un collegamento esplicito con l’area politico-semantica della destra. All’inventario delle sigle va naturalmente aggiunta la formazione di Fini, Futuro e libertà (2011), disastrosa scommessa personale del più longevo e discusso leader nella storia post fascista. Quanto alle così dette forze residuali anti sistemiche presentatesi agli elettori, da CasaPound e Forza nuova alle innumerevoli fiammelle sparse, la totalità dei loro voti è appena superiore alla loro completa irrilevanza sulla scena. I numeri fuoriusciti dall’ordalia delle urne – Fratelli d’Italia 1,95 per cento; la Destra 0,64 per cento; Futuro e libertà 0,46 per cento; Forza Nuova 0,26 per cento; CasaPound Italia 0,14 per cento; Fiamma tricolore 0,13 per cento – ci dicono al dunque che i vari affluenti della destra italiana sono oggi rappresentati da una decina di Parlamentari (nove FdI; due finiani uno dei quali, Benedetto Della Vedova, viene dal Partito radicale). E’ un dato di grande interesse politico, poiché segnala la quasi sopraggiunta estinzione di un equivoco storico nato nel 1995 a Fiuggi, quando l’Msi si è suicidato nel letto di Procuste di An senza neppure la forza di elaborare il proprio lutto. Molte delle prefiche di allora versarono lacrime d’occasione senza aver ancora compreso di candidarsi, in quel preciso momento, al ruolo di esecutrici testamentarie del mondo che veniva da Giorgio Almirante, Arturo Michelini e Pino Romualdi. Ma questa è una tragicommedia già ampiamente vivisezionata (ce ne siamo occupati nel 2007 con “Il passo delle oche”, Einaudi).

La novità del momento è questa: ammessa per ipotesi retorica che la temperie del Ventennio mussoliniano sia rappresentabile come una possente tempesta d’acciaio piombata sui cieli italici dal 1922 al 1945, a distanza di quasi settant’anni si stanno definitivamente prosciugando le pozzanghere di quella tempesta, gli acquitrini sopravvissuti al Fascismo. Come ha scritto il terzaforzista Gabriele Adinolfi, “adesso non veniteci a cantare la solita solfa della riunificazione. Il Msi è stato definitivamente sotterrato. Se non si riuscirà a immaginare e concretizzare un futuro peronista non si potrà che assistere al continuo declino per scissioni” (noreporter.org). Ma più che di declino è bene parlare di dissoluzione per sfinimento. E non è detto che sia un male.

La scomparsa di cui stiamo parlando riguarda anzitutto una “classe dirigente”: uomini e donne che autoproclamandosi “di destra” hanno progressivamente dissipato una rendita ben radicata nell’Italia del Novecento, dimostrandosi completamente inadatti a rappresentare le idee e le istanze delle quali s’erano improvvisati cantori e portavoce. A meno di ritenere, e non è così, che nel corredo genetico della destra siano contenuti come legge di natura l’insopprimibile tendenza al malgoverno e, in casi non rari, alla delinquenza. L’esperienza della destra di potere, appuntamento epocale reso possibile dall’affiliazione al berlusconismo, è al riguardo un banco di prova inoppugnabile. Messa più volte, dal 1994 a oggi, in condizioni di governare l’Italia da Palazzo Chigi, senza contare numerose regioni e altrettanto importanti enti locali, la destra si è sfarinata elettoralmente e ha rovinosamente perduto la sua credibilità politica. Il corredo di scandali, denunce per nepotismo e inchieste giudiziarie che ha accompagnato la fine della giunta Polverini nel Lazio e che accompagna ora l’ingloriosa fine-sindacatura romana di Gianni Alemanno vale come testimonianza plastica di una bancarotta morale non meno che strategica. Che tutto questo sia stato possibile è un fatto, per quanto stupefacente agli occhi del senso comune. Come tutto questo sia avvenuto è questione sulla quale dovrà soffermarsi chiunque si sentirà chiamato a ricostruire sulle rovine della destra. Che fai, mi cacci? C’è stato un momento nel quale la così detta destra finiana, già contrafforte malgré soi del neonato Popolo della libertà, ha dato l’impressione di volersi sottrarre a una subalternità non più tollerabile nei confronti di Silvio Berlusconi. Nel 2010, sorretto dalle speranze variopinte dei mezzi d’informazione persuasi dell’imminente trapasso del berlusconismo, Gianfranco Fini si è intestato la battaglia del patricida. Accusato d’infedeltà e ingratitudine dai pretoriani del Cavaliere (molti dei quali provenienti dalle file di Alleanza nazionale), Fini ha dato l’impressione di voler costruire una destra di stampo europeo, un po’ neogollista (tendenza Chirac), un po’ troppo giovanilistica, con punte di radicalismo sociale (la battaglia per il riconoscimento dello ius soli agli extracomunitari, una certa improntitudine sulle questioni di natura bioetica) e non senza occhieggiamenti verso il così detto establishment editorial-finanziario dichiaratamente ostile a Berlusconi. Malgrado i notevoli chiaroscuri biografici dell’allora presidente della Camera, compresa la brutta storia della casa di Montecarlo appartenente alla Fondazione di An e assegnata per vie tortuose al cognato di Fini, la sola volontà di rompere con il patriarca di Arcore sembrava trovare un promettente riscontro nei sondaggi. Uno psichismo diffusamente compiacente verso l’impresa finiana ha insinuato nei protagonisti della rottura la certezza di poter vincere per vie parlamentari, infliggendo una sfiducia brutale al governo Berlusconi. All’immediato fallimento dell’espediente tattico, non è seguita una fase di riorganizzazione politica e di ridefinizione culturale autentica. Semplicemente, Fini e i suoi hanno immaginato di dover soltanto rinviare il tempo della vendemmia. Negli interstizi dell’attesa è emerso il vuoto della proposta di Futuro e libertà: tagliati i ponti con il passato prossimo (del passato remoto è inutile qui parlare ancora), a Fini è riuscita più congeniale l’eliminazione diretta della parola “destra” dal proprio arsenale retorico. La sua offerta si è richiamata anzi all’esigenza di rompere del tutto con categorie che a suo dire erano ormai deprivate di senso: la dialettica destra/sinistra è così uscita dal cono di luce del delfino almirantiano, ma senza che a questa eliminazione sommaria corrispondessero un disegno dai contorni precisi, una base identitaria, una prospettiva intorno alla quale conservare, rendere coeso e incrementare l’insieme dei consensi e delle aspettative ingenerate. Il risultato di questa meccanica è stato l’avvicinamento “destinale” a Pier Ferdinando Casini e della sua Unione di centro, cui è seguita l’accettazione acritica del tecno-governo di Mario Monti con l’intermittente consiglio/sostegno di Luca Cordero di Montezemolo. L’entente, come noto, è sbocciata nella formazione di liste sorelle (unitaria per il Senato) che sono apparse come la sommatoria di calcoli, debolezze e vanità comuni. Gli elettori ne hanno fatto giustizia, consegnando Fini e i suoi consiglieri al limbo degli esuli in Patria. Anzi dei senza Patria e basta. A distanza di tre anni dalla nascita dei primi focolai di dissenso nel Popolo della libertà, è difficile che l’azzardo di Fini possa essere rubricato sotto la categoria della destra in rivolta contro l’assimilazione violenta alla compagine berlusconiana. Se innegabile era la tendenza livellatrice e monocratica esibita dall’allora premier, altrettanto manifesta è stata poi la natura personalistica, politicistica e velleitaria di Futuro e libertà. Di là dalla rimasticazione episodica degli slogan futuristi primonovecento, di là dalla improvvisata modernolatria dei pochi (e presto abbandonati) intellettuali alla corte di Fini, non è stato possibile individuare alcun nucleo politico o ideale degno di sopravvivere alla fragorosa condanna elettorale. Ma il danno d’immagine, per un mondo che almeno nei presupposti e nelle provenienze individuali non è possibile disgiungere dall’archetipo post fascista, quello è chiaro e distinto. E sarà durevole. Che fai, mi riprendi? Gli altri gruppi della così detta destra italiana, accomunati senz’altro da un livore furibondo nei confronti del loro ex sovrano Gianfranco Fini, sono nati o sono cresciuti ora in conflitto ora in rapporto di vassallaggio con Berlusconi. La Destra di Storace è stata allestita come controparte identitaria anti finiana, ma al tempo stesso si è più volte proposta come un cuneo di ribellione conficcato ai fianchi del Cavaliere. Salvo poi ripiegare appena possibile, calendario elettorale alla mano, nella più confortevole ombra di Arcore. Le immagini di Daniela Santanchè nella sua versione paleo berlusconiana, poi storaciana (la “destra con la bava alla bocca” che non accetta di stare sdraiata) e infine nuovamente, appassionatamente accanto al capo del Pdl, ci danno la misura delle oscillazioni mostrate dalla classe dirigente post fascista. In questo quadro, Storace si è impegnato a impersonare un ruolo di vaga ed equivoca testimonianza identitaria non poi così dissimile rispetto a quello svolto dall’estrema sinistra post bertinottiana (con conseguenze simmetricamente funeste).

Su tutt’altro fronte, quel che resta della Destra sociale di Gianni Alemanno ha combusto la propria immagine di forza alternativa allo strapotere berlusconiano, all’amletismo finiano, al tatticismo superficiale degli storici avversari interni Ignazio La Russa e Maurizio Gasparri. La totale assenza alemanniana dal discorso pubblico innescato con la nascita di Futuro e libertà si è perfettamente combinata con il tentativo di procedere a un berlusconicidio pre elettorale sanzionato dal mondo clericale (da Comunione e liberazione in giù) con cui il sindaco di Roma è infeudato da sempre. In poche parole, dall’inverno scorso Alemanno ha cullato il sogno di un’iniziativa di conio popolare che procedesse alla rimozione dolce (ma nondimeno completa) dell’ostacolo Berlusconi. Receduto dall’azzardo, causa colpo di reni della vittima sacrificale, Alemanno è stato fra i primi a ritornare all’ovile proclamando nuovamente una fedeltà tanto palloccolosa quanto inane. Il che non è gli bastato, tuttavia, per riconquistare una dimensione nazionale degna della sua superbia, né per sfuggire alle conseguenze del suo disastroso quinquennio al Campidoglio.

Una debolezza parallelamente meschina caratterizza l’operazione Fratelli d’Italia. Il volto non più acerbo della leader (ed ex ministro pidiellino) Giorgia Meloni è insufficiente a coprire il pizzetto consunto dell’ex berlusconiano d’acciaio Ignazio la Russa. Concepito come un disperato tentativo di differenziarsi dal declinante benefattore di Arcore, nell’auspicio di contenere l’emorragia di voti destinati all’astensione o al grillismo, il gruppo di Meloni è appassito prima ancora di germogliare per la semplice ragione che non aveva alcunché da offrire al suo potenziale elettore che non fosse già stato offerto in precedenza con l’etichetta del Pdl. Per quale ragione un cittadino che ha votato prima An e poi Pdl avrebbe dovuto premiare Fratelli d’Italia? E in effetti, a ben guardare la composizione di quel deludente uno-e-qualcosa per cento rimediato nelle urne, si comprende con facilità che la cifra origina nel pacchetto sempre più impoverito delle clientele militanti di una corrente (la Destra protagonista) un tempo egemone in An e dalla quale, con una coerenza che gli va riconosciuta, si è distaccato l’iper berlusconiano e mai fascista Maurizio Gasparri. Che fai, mi ignori? Se la caduta delle destre istituzionali dipende in larga parte dal fatto che, sequestrate dai loro piccoli cacicchi vanitosi e imbelli, non erano più “di destra” in senso tradizionale da circa vent’anni, il “sonno” delle destre radicali extraparlamentari trova una sua ragione nella quasi totale assenza di leadership carismatiche e messaggi auscultabili all’esterno della claustrofobica catacomba neofascista. In questa congiuntura il brodo di coltura antisistemico italiano è stato fecondato dalla proposta millenaristico-settaria che il comico Beppe Grillo ha condiviso con il guru dell’e-commerce Gianroberto Casaleggio. Un lavoro scientifico, il loro, che per la verità è cominciato da diversi anni e che si è talmente rafforzato da attirare come un magnete perfino le limature di ferro dello scontento estremista, sia di destra sia di sinistra. Nel frattempo i cuori neri si baloccavano con le loro solite, logore liturgie intonate al culto della sconfitta neofascista e con l’immancabile rivalità fra consanguinei. Fatta eccezione per il movimentismo di CasaPound, reso popolare dal recupero del migliore dannunzianesimo ma viziato spesso da pulsioni avanguardistiche inconcludenti, non c’era una sola buona ragione per la quale le destre anti sistemiche dovessero presentarsi alle elezioni immaginando di non venirne malamente sbertucciate. Requiem o palingenesi? In natura nulla va perduto, è così perfino nell’Italia a sovranità limitata, assoggettata alla germanizzazione del suo sistema economico-finanziario e appetita dal capitalismo apolide responsabile della crisi internazionale. Dunque anche per la destra c’è speranza. Non è possibile qui aggettivare oltremisura la destra di riferimento, ma certo è che per rinascere bisogna essere stati qualcosa nel passato. E’ a una destra tradizionale che si può o si deve guardare, nel senso più alto, nobile e purtroppo negletto dalla maggior parte delle formazioni esistenti: ogni altro tentativo e ogni altra variante essendo falliti alla prova dei fatti recenti. Il grillismo è un fenomeno di falsa rottura transeunte ed è destinato prima o poi a liberare energie insospettabili, dopo aver caoticamente rilegittimato alcune idee e istanze di sovranità politica e culturale tipicamente di destra. Chi un domani sappia saldare questo accumulatore di energia con un circuito elitario, nel quale le nuove personalità di riferimento siano realmente formate lungo linee di vetta metapolitiche (frutto di una disciplina perfino interiore, siamo portati a dire), potrà modellare un corpo adatto al manifestarsi di una “destra eterna” che attende la sua prossima incarnazione. Quando il sole avrà estinto l’ultima pozzanghera. Alessandro Giuli, Foglio, 25 maggio 2013

…………….Terribile quanto assolutamente esatto ritratto dello “stato” oggi della Destra italiana. Giuli, autore di altre inchieste sulla Destra, non dà scampo ai rappresentanti  della Destra post missina, tutti, nessuno escluso, da Fini a Gasparri, passando per i  tanti altri che nel ventennio berlusconiano hanno occupato posti di rilievo nelle struttre di partito e in quelle di governo,  hanno da di sè cattiva, anzi orrenda prova. Sinchè si era all’opposizione, magari agitando nelle aule parlamentari il cappio per gli avversari, erano in grado di apparire (non di essere!) “protagonIsti”, ma quando si è passati dall’altra parte, tutti,  nessuno escluso,  hanno mostrato i loro limiti, non solo politici, ma spesso etici e morali. Sino alla dissoluzione di un patrominio umano che aveva attraversato, quasi indenne, l’oceano delle difficoltà e dei pericoli e delle persecuzioni degli anni 70 e 80 del secolo scorso. Fini è stato di certo il maggior responsabile, quello che si è mostrato e dimostrato di gran lunga il meno capace di interpretare i sogni e le speranze della Destra,  solo innamorato di se stesso e solo preoccupato del suo personale interesse,  dello sfacelo della Destra, ma gli altri non lo sono stati di meno. Risultato è quello che Giuli definisce “requiem per la destra” punto e basta e al quale abbiamo aggiunto di nostro il punto interrogativo. Perchè osiamo sperare che la storia della Destra italiana, inopportunamente legata al postfascismo e che invece affonda le sue radici nella fase postunitaria del nostro Paese, non si sia conclusa e che possa avere e vivere una nuova età. Ciò che scrive Giuli, il quadro che delinea della Destra oggi,  non lascia ben sperare, anche  perchè il Paese affonda nelle vischiosità di proposte politiche legate esclusivamente all’immediato, cioè, per dirla fuor dai denti, agli obiettivi provvisori e perciò stesso assai limitati dei gestori attuali dei partiti. E anche perchè gli appelli, come quello da poco lanciato da Marcello Veneziani, qualificato intellettuale d’aria, di un “ritorno ad Itaca”,  sembrano cadere nell’indifferenza  più impenetrabile  delle varie frange, del tutto inconsistenti e quindi marginali, in cui è ora diviso ciò che resta della Destra, sopratutto o forse solo quella  elettorale.   Ma non si può e non si deve disperare che in Italia possa ritornare ad  avere cittadinanza e rappresentaza la Destra,  quella vera e anticas, con i suoi Valori e i suoi programmi. g.