Le elezioni europee del maggio 2014 sembrano lontane per suscitare interesse. Eppure potrebbero condizionare pesantemente le possibilità dell’Europa di rigenerarsi e rafforzare la governance politica. Un processo di cui si discute in balia di reciproche diffidenze, soprattutto fra i due maggiori protagonisti – la Francia e la Germania -, benché proprio dalla sintonia di Parigi e Berlino dipenda il futuro assetto dell’Unione.
Il rischio – oltre a quello dell’astensione – è che a Strasburgo sbarchino le forze dell’euroscetticismo. Forze che stanno rumorosamente crescendo, come conseguenza della crisi e del fossato fra cittadini e istituzioni, fra europei del Nord e del Sud, fra i tedeschi e gli altri. La cessione di sovranità non viene percepita come un salto di qualità della politica comunitaria, ma come esproprio a vantaggio di poteri invisibili, non legittimati dal consenso.
Le maggiori componenti, popolari e socialdemocratici, sarebbero costretti a coabitare con gruppi che prosperano sulle difficoltà dei governi e che esaltano il ripiegamento nella sovranità nazionale, il bisogno di sicurezza, di identità anche religiosa, di protezionismo. «Le elezioni europee senza un progetto saranno un disastro», ha facilmente previsto Giscard d’Estaing, invitando a non confondere «populismo e malcontento dei cittadini».
I mesi che seguono saranno decisivi per mettere in campo volontà e visioni coraggiose, a cominciare dagli impegni che verranno assunti ai prossimi vertici di giugno. Incontri che offriranno una prima verifica della disponibilità del presidente Hollande a discutere di sovranità – uno dei grandi tabù francesi – a condizione che l’Europa rimetta in ordine di marcia politiche sociali, investimenti, gestione comune del debito. Ma sarà importante verificare anche la maturazione della risposta tedesca, per ora prudente e influenzata dalle elezioni di settembre e dal destino di Angela Merkel.
Per la Germania, una maggiore solidarietà fra Paesi ricchi e poveri e una sostanziale revisione di Maastricht continuano a essere subordinate all’integrazione in senso federale e al primato delle regole. Si lascia intendere che la responsabilità dell’impasse ricada sulla Francia. Bruxelles ha concesso a Parigi due anni per risanare il bilancio e introdurre riforme strutturali, in termini di competitività, liberalizzazioni, concorrenza dei servizi. Ma i margini di manovra di Hollande sono ristretti. La protesta sociale potrebbe accentuare il sovranismo e vanificare gli sforzi del presidente.
È auspicabile che Parigi e Berlino giochino a carte scoperte. Il motore franco-tedesco continua a essere, nel bene e nel male, determinante. Ma è importante che la questione di una nuova governance , legittimata dal voto, appassioni il dibattito in tutti i Paesi, facendo comprendere che soltanto così si può crescere di più e difendersi meglio. Un new deal non può realizzarsi deprimendo identità, diritti e risparmi, né affidando le risorse a rappresentanze che rispondono in prima istanza ai mercati, ma ha bisogno di scelte nazionali forti e coraggiose, che seducano i cittadini e diano un futuro agli ideali europei. Anche il dibattito italiano sul presidenzialismo dovrebbe tenere conto della dimensione sovranazionale.
«Abbiamo bisogno di una legge europea, di un sistema monetario unico, delle stesse norme, pesi e misure per tutta l’Europa. Voglio un unico popolo». Lo diceva due secoli fa un francese: Napoleone, ma prima di andare in esilio all’Elba, quando il sogno era già tramontato. Massimo Nava, 8 giugno 2013