Barack Obama corre il rischio di passare alla storia come uno dei più tentennanti presidenti degli Stati Uniti. Nella sua ultima dichiarazione, sul prato della Casa Bianca, ha chiesto un voto del Congresso sull’opportunità di un intervento militare contro il regime siriano di Bashar Al Assad. Ma ancor prima di appellarsi ai rappresentanti del Paese aveva annunciato, in una recente intervista alla televisione Pbs, che la sua intenzione era quella di inviare uno shot across the bow , uno di quei colpi di cannone che vengono tirati di fronte alla prua di una nave per intimarle di fermarsi e tornare indietro.

Barack Obama (Ap/Vucci)

Non sappiamo se con l’appello al Congresso il presidente americano chieda una formale autorizzazione o voglia più semplicemente metterlo di fronte alle proprie responsabilità. Ma sappiamo che una tale decisione, se adottata, avrebbe in ultima analisi l’inconveniente di non piacere a nessuno. Non ai pacifisti americani per cui sarebbe pur sempre un atto di guerra. Non ai paladini dell’ingerenza umanitaria e del dovere di proteggere le popolazioni civili, a cui sembrerebbe irrilevante. Non a quella fazione della destra repubblicana, erede dei «neocon», che accusa il presidente di essere debole, inetto, incapace di pestare il pugno sul tavolo nell’interesse dell’America. Non ai ribelli siriani, convinti che l’uso delle armi chimiche avrebbe fatto traboccare il vaso dell’indignazione occidentale e segnato la fine di Assad. Non agli alleati internazionali della Siria: Russia, Iran, Cina. Non, infine, alla maggioranza della sua opinione pubblica (una percentuale vicina, sembra, all’80%) per non parlare di quella delle altre maggiori democrazie occidentali. Sono contrari all’intervento persino coloro che in altri tempi avevano approvato le guerre di Bush e salutato con soddisfazione l’offensiva anglo-franco-americana contro la Libia di Gheddafi.

Non è sorprendente. Oggi, dopo l’esperienza degli ultimi tredici anni, nessuno può ignorare quali siano stati il costo e gli effetti di quelle guerre. L’operazione afghana parve giustificata dal patto che legava Al Qaeda e i suoi fedeli al regime talebano di Kabul. Sostenuti dalla Nato e persino dall’Iran, gli americani credettero di avere eliminato la maggiore base di Al Qaeda nel Medio Oriente. Ma nella caccia allo sceicco yemenita si perdettero, come altri eserciti occidentali, nel labirinto delle montagne che separano l’Afghanistan dal Pakistan; e di lì a poco lasciarono il Paese agli europei per concentrare ogni loro sforzo sull’Iraq di Saddam Hussein. Un’altra guerra, un’altra vittoria apparente.

Qualche mese dopo la conquista di Bagdad, Washington dovette constatare che quella dei talebani in Afghanistan era stata soltanto una ritirata strategica, che in Iraq non vi erano armi di distruzione di massa, che i sunniti iracheni non erano disposti ad accettare la sconfitta e che gli sciiti liberati dal giogo di Saddam amavano i confratelli iraniani più degli americani.
Comincia da allora la lunga sequenza dei rimedi falliti. In Afghanistan tornarono con forze più importanti e cercarono di sloggiare i talebani dalle regioni riconquistate. In Iraq cercarono di armare i sunniti contro il variegato fronte dell’integralismo islamico. Subentrato a George W. Bush, Barack Obama concepì un piano apparentemente razionale e un calendario inderogabile. In Afghanistan avrebbe lanciato un’ultima offensiva contro i talebani e offerto un negoziato a coloro che erano pronti a deporre le armi. In Iraq avrebbe assicurato la presenza militare americana soltanto sino alla fine del 2011.

Il risultato di quel piano, all’inizio del suo secondo mandato, è deprimente. I talebani non hanno alcuna intenzione di negoziare con una potenza che ha già, comunque, deciso di ritirare le proprie truppe nel 2014. L’uccisione di Osama bin Laden nel suo fortilizio pachistano è parsa uno straordinario successo della presidenza Obama (la vendetta è sempre, per un certo periodo, consolatoria) ma ha peggiorato i rapporti degli Stati Uniti con il Pakistan. In Iraq si muore, grazie alle bombe sunnite, molto più di quanto si morisse all’epoca di Saddam Hussein. In Libia, infine, Obama ha avuto il merito di comprendere prima dei suoi alleati i rischi di una operazione che era divenuta molto più lunga del previsto. Ma del caos in cui il Paese è precipitato dopo la vittoria dei ribelli Obama non è meno responsabile di Nicolas Sarkozy e David Cameron. È davvero sorprendente che dopo tre guerre non vinte, come la buona educazione internazionale preferisce chiamare quelle perdute, gli americani e le opinioni pubbliche occidentali non vogliano essere trascinati nella quarta?

Resta da capire, a questo punto, perché un uomo politico accorto e razionale come Barack Obama dovrebbe a tutti i costi prendere una iniziativa militare contro la Siria. Per non permettere che l’uso dei gas vada impunito? Per evitare che l’America, agli occhi del mondo, appaia inaffidabile? Credo che il criterio dell’affidabilità, in questo caso, concerna soprattutto il presidente degli Stati Uniti. Quando ha dichiarato, un anno fa, che l’uso dei gas sarebbe stato una «linea rossa» e che l’attraversamento di quella linea lo avrebbe costretto a rivedere la propria posizione, Obama è diventato prigioniero di se stesso. Ha usato la «linea rossa» per mascherare le proprie incertezze e allontanare per quanto possibile il momento delle decisioni. Ora quella «linea rossa» gli si è ritorta addosso come un boomerang e il presidente, privo di argomenti, è nudo di fronte al mondo come il re della favola di Andersen.

Vi è infine in questa vicenda un tragico paradosso. Le armi chimiche sono atroci, ignobili e suscitano una comprensibile condanna. Ma le vittime della periferia di Damasco rappresentano una minuscola percentuale di quelle provocate dalla guerra. Le armi letali in Siria sono i fucili mitragliatori, le mitragliatrici, i cannoni, le bombe, i mortai. Collegare il giudizio sull’opportunità dell’intervento all’uso delle armi chimiche ha l’assurdo effetto di rendere altre armi più legittime o meno deprecabili. Non è tutto. Mentre l’Occidente si scandalizza per l’uso dei gas, vi sono probabilmente altri popoli per cui i droni, i proiettili all’uranio impoverito, il napalm e le bombe a grappolo, per non parlare delle armi nucleari, non sono meno tossici dell’arsenale chimico di Assad. In questo scontro di culture e di civiltà è meglio evitare che l’Occidente venga accusato di considerare tossiche soltanto le armi degli altri. Sergio Romano, Il Corriere della Sera, 1° settembre 2013

….L’analisi di Romano, più che esperto in politica estera anche per la sua passata e notevole esperienza diplomatica, è tragicamente esatta e pone il dito nella piaga più virulenta: l’affidabilità degli Stati Uniti ormai ridotta ai minimi termini. E’ la conseguenza della presidenza affidata ad un presidete privo del tutto di esperienza, frutto dei poteri forti americani, insignito del premio Nobel per la pace  “a futura memoria” , che alla prova dei fatti si è rivelato un grande bluff, bravo con le parole, meno bravo, anzi per nulla bravo, con i fatti. Il banco della Siria ne è la prova più immediata e più stringente. Si è infilato in un imbuito dal quale non gli sarà facile uscirene senza combinare guai peggiori di quelli che in politica estera a sinora combinato, specie lì dove ha abbandonato al loro destino alleati storici dell’America  e dell0′Occidente – Mubarah in Egitto e Ben Alì in Tunisia in primo luogo- che avevano innalzato una imponente diga difensiva lungo il confine che separa le democrazie occidentali dal fondamentalismo islamico e la cui detronizzazione complice proprio l’America di Obama ha di fatto scardinato quella diga e aperto falle   che rischiano di favorire una irrefeanabale valanga che può travolgere l’Occidente.