Archivi per ottobre, 2013

CAMERA DEI DEPUTATI: STIPENDI DA NABABBI AI DIPENDENTI

Pubblicato il 31 ottobre, 2013 in Costume, Politica | No Comments »

136mila agli elettricisti, 358 mila ai consiglieri

La Camera dei Deputati (Corbis)La Camera dei Deputati (Corbis)

I conti li ha fatti «United for a fair economy», organizzazione che da Boston si batte contro la diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza. Dice una loro ricerca che se nel 1940 un amministratore delegato guadagnava 14 volte un lavoratore medio, oggi la proporzione è salita a 531 contro 1. E ci sono casi dove la distanza tra la base e il vertice di un’azienda è ancora maggiore: come per la Fiat, dove Sergio Marchionne guadagna 1.037 volte il suo dipendente medio. Un’esagerazione, la naturale evoluzione del capitalismo, oppure la giusta distanza? In ogni caso l’esatto opposto di quello che viene fuori sfogliando le tabelle allegate al bilancio della Camera dei deputati, in questi giorni all’esame dall’Aula. La distanza fra base e vertice è minima, la piramide delle busta paga si schiaccia come nemmeno negli Stati Uniti del 1940. E non perché la retribuzione dei vertici sia bassa, ma perché quella della base è molto elevata.
Il vertice di Montecitorio, il segretario generale, ha stipendio e responsabilità analoghe a quelle dell’amministratore delegato di una grande azienda: entra con uno stipendio di poco superiore ai 400 mila euro lordi l’anno, ai quali si aggiunge l’indennità di funzione. Ma è scendendo verso la base nella piramide che cresce vertiginosamente la distanza delle retribuzioni dal mercato. Gli operatori tecnici – categoria nella quale rientrano i centralinisti, gli elettricisti e pure il barbiere di Montecitorio – vengono assunti con uno stipendio che supera di poco i 30 mila euro lordi l’anno. Ma già dopo 10 anni la loro busta paga è quasi raddoppiata, superando quota 50 mila, e a fine carriera può arrivare a 136 mila euro l’anno. Tradotto: un elettricista, un centralinista e un barbiere della Camera, anche se a fine carriera, messi insieme guadagnano quanto il segretario generale, che è pur sempre a capo di 1.500 persone.

Una piramide schiacciata verso l’alto, appunto. E una fotografia che ha davvero poco a che fare con le busta paga del resto dei lavoratori, sia del settore privato che di quello pubblico. Per capire: il reddito medio degli italiani, al netto della nostra evasione fiscale record, si ferma di poco sotto i 20 mila euro lordi l’anno. Quasi la metà di un centralinista della Camera dei deputati ad inizio carriera. E di esempi possibili ce ne sono altri ancora. Gli oltre 400 assistenti parlamentari, cioè i commessi di Montecitorio, guadagnano in media come il direttore di una filiale di banca, eppure in generale non svolgono compiti molto diversi dagli uscieri di altri simili uffici pubblici. Inoltre, sono numerosissimi: 0,7 per ogni deputato, dopo il taglio voluto dall’attuale segretario generale, mentre dieci anni fa il rapporto era addirittura 1 a 1. La busta paga degli oltre 170 «consiglieri parlamentari» ha in media lo stesso peso di quella di un primario ospedaliero, ma a fine carriera supera i 350 mila euro l’anno. Mentre il primario ha la responsabilità di un reparto, i consiglieri si limitano a svolgere attività di studio e ricerca, o di assistenza giuridico legale e amministrativa. Tutto bene così?

In realtà a complicare i conteggi c’è anche quella selva di indennità che si aggiungono allo stipendio minimo e che riguardano tutti i livelli dell’amministrazione: dai 662 euro netti mensili riservati al segretario generale giù fino ai 108,97 euro, sempre netti e al mese, per gli autisti parcheggiatori, passando per gli 85 riservati a chi lavora in cucina e per i 108 incassati dagli addetti al recapito della corrispondenza.
Ma, pur con la sua piramide schiacciata verso l’alto, la Camera almeno un merito ce l’ha. L’approvazione del bilancio arriva dopo che già quest’estate i dati sugli stipendi dei dipendenti erano stati resi pubblici: un file scaricabile direttamente dal sito internet conferma quelli che per anni erano stati solo sussurri e pettegolezzi. Un’operazione trasparenza, che al Senato non si è ancora vista. Da settimane si dice che gli stessi dati dovrebbero essere pubblicati a breve da Palazzo Madama. Anche quella è una piramide schiacciata, anche quella verso l’alto, probabilmente un po’ più in alto rispetto alla Camera. Ma per il momento bisogna accontentarsi di qualche vecchio dato e di qualche nuovo sussurro. Fonte: Corriere della Sera, 31 ottobre 2013

…….Chi l’ha detto che i nostri superprivilegiati parlamentari pensano solo a se stessi? Invece pensano anche agli altri, cioè  e solo ai dipendenti della Camera, molti dei quali, c’è da scommettere sono parenti, compari e figli di parenti e compari degli stessi parlamentari, ai quali sono riservati stipendi da nababbi.

LO SCHIAFFO ALLA DEMOCRAZIA

Pubblicato il 30 ottobre, 2013 in Politica | No Comments »

CONTRO BERLUSCONI

SCHIAFFO ALLA DEMOCRAZIA

La rabbiosa voglia di vendetta nei confronti del Presidente Berlusconi, leader politico del centrodestra italiano, è tale da non fermarsi di fronte a nulla.

La sinistra italiana,  cui si è accodato il servile e rancoroso ex premier Mario Monti,  dopo aver ottenuto finalmente la condanna giudiziaria di Berlusconi con una sentenza che conferma le ragioni della sempre più crescente sfiducia dei cittadini nei confronti della giustizia politicizzata,  ora, con una risicata maggioranza,  è giunta a manipolare il Regolamento del Senato per cambiare il sistema di voto  - da segreto a palese – con cui procedere a dichiarare la decadenza o meno di Berlusconi dalla carica di senatore, alterando non solo la volontà dei Padri Costituenti che  imposero il voto segreto nelle votazioni riguardanti le persone per tutelare la libertà di coscienza dei parlamentari, ma anche contro il diritto europeo, chiamato in causa come Vangelo quando si tratta di imporre tasse e sacrifici agli italiani e ignorato quando  a poterne  usufruire è il presidente Berlusconi

E’ la stessa sinistra che per due decenni ha accusato Berlusconi di aver fatto varare  in Parlamento le cosiddette “leggi ad personam”, per tutelarsi dall’aggressione giudiziaria che lo perseguita dal giorno della sua discesa in campo che mandò all’aria i sogni di potere della sinistra.

Ora, invece,  la sinistra, con la faccia tosta che le è congeniale, ha imposto  al Senato una nuova abominevole formula legislativa: la legge “contra personam”, cioè contro il solo Berlusconi, infliggendo alla democrazia italiana un sonoro ceffone.

Al Presidente Berlusconi, unico riferimento politico del centrodestra, esprimiamo la nostra personale solidarietà e quella del 35% degli elettori torittesi che anche lo scorso febbraio, nelle urne, insieme a noi, come sempre,  lo hanno gratificato con i loro voto e   lo gratificheranno ancor  più convintamente nel futuro.

Toritto, novembre 2013

IL PECCATO NAZIONALE, di Ernesto Galli Della Loggia

Pubblicato il 28 ottobre, 2013 in Costume, Politica | No Comments »

«Non è mica colpa nostra! È lui, sono loro (a piacere Berlusconi, Prodi, la Sinistra, la Destra) che hanno ridotto il Paese così». La grande maggioranza degli italiani è ormai consapevole della gravità della situazione in cui ci troviamo, avverte che a questo punto solo scelte coraggiose e magari anche impopolari, solo drastiche rotture rispetto al passato possono allontanarci da quel vero e proprio declino storico che altrimenti ci attende. Ma questa maggioranza è tenuta in ostaggio da quel grido lanciato di continuo dalla minoranza disinformata e settaria dell’opinione pubblica: «Non è colpa nostra! È colpa di altri». Un grido, un giudizio intimidatorio, che ha il solo effetto politico di dividere, di impedire quel minimo di accordo generale sulle responsabilità passate e perciò sulle decisioni audaci di cui c’è tanto disperato bisogno. Contribuendo così a rendere la soluzione della crisi ancora più lontana.

Invece bisogna convincersi - a destra come a sinistra – che non è «colpa loro». Della situazione drammatica in cui si trova l’Italia è colpa nostra, è colpa di tutti, sia pure, come si capisce, in grado diverso. La politica, i politici, per esempio, hanno certamente responsabilità primaria perché alla fine è la politica che decide. Ma in realtà la vera colpa della politica nel caso italiano è stata soprattutto quella di non avere alcun progetto, alcuna idea; e se l’aveva di non essere stata capace di realizzarla. Di non aver fatto. Per esempio di non essere stata in grado di opporsi alle richieste caotiche e spesso alle pretese (nonché ai vizi antichi) della società italiana. E quindi di aver scelto ogni volta la soluzione più facile e più demagogica: che naturalmente era quasi sempre anche la meno saggia e la più costosa per l’erario. L’Italia insomma è stata per un trentennio la scena di un grandioso concorso di colpe: tra i partiti e la politica da un lato, e dall’altro gli italiani e – elemento non meno importante – le élite economico-burocratiche che di fatto hanno anch’esse (eccome!) governato il Paese.

Oggi, insomma, paghiamo per errori e omissioni che rimontano indietro di decenni. La nostra crisi odierna viene da lontano. Viene dal consenso ricercato da tutti – sì da tutti, dalla Destra come dalla Sinistra – ricorrendo alla spesa pubblica. Viene da centinaia di migliaia di pensioni di invalidità elargite a chi non le meritava, e in genere da un sistema pensionistico che per anni ha consentito a decine e decine di migliaia di italiani di destra come di sinistra di andare in pensione con un’anzianità ridicola; viene da troppi lavori pubblici decisi da amministrazioni di ogni colore e costatati dieci volte il previsto; da troppi posti assegnati in base a una raccomandazione (solo agli elettori del Pdl? Solo a quelli del Pd?). Viene da troppi organici gonfiati per ragioni clientelari ad opera di tutte le pubbliche amministrazioni; da troppi investimenti sbagliati, rimandati o non fatti dagli imprenditori e dalla loro propensione a eludere le leggi; dalle troppe tasse evase da commercianti e professionisti (davvero tutti di destra o tutti di sinistra?); viene dalla troppa indulgenza usata nella scuola e nell’università, dall’aver accondisceso a tante illegalità specie se potevano (non importa con quale fondamento) invocare ragioni «sociali» (vedi le «occupazioni» di ogni specie); da una miriade infinita di piccoli abusi quotidianamente praticati e tollerati – per esempio nell’edilizia, nell’urbanistica, nella circolazione, nella raccolta dei rifiuti – che tutti insieme hanno rovinato e spesso reso invivibili le città e il paesaggio italiani. Da tutto ciò viene la nostra crisi: da questo multiforme sfilacciamento del tessuto collettivo, da questa indifferenza al senso della realtà. Chiamarsene fuori facendo sfoggio di virtù e cercare un capro espiatorio nella parte politica che non ci piace testimonia solo di una cieca faziosità.

È quella stessa faziosità propria della minoranza settaria che tiene in ostaggio anche il discorso pubblico del Paese e si manifesta nell’irrefrenabile pulsione a trovare complici del male specialmente nella stampa: in chi scrive nel modo che essa non gradisce. Sempre rivolgendo la sua ossessiva domanda inquisitoria che suona: «Ma voi dove eravate quando A faceva questo?», «Che cosa avete scritto quando B diceva quest’altro?». Domande inquisitorie che naturalmente contengono già dentro di sé la risposta, dal momento che secondo questi accusatori – che credono di ricordare tutto e invece non ricordano nulla – la stampa che a loro non piace avrebbe sempre chiuso gli occhi, sempre taciuto, finto di non vedere, e suonato la grancassa in onore del Potere.

Se avesse senso verrebbe da rispondere: «Fuori le prove!». In realtà una tale accusa è solo il segno della superficialità disinformata e settaria, unita al moralismo aggressivo che ci hanno regalato gli anni della Seconda Repubblica. La superficialità e il moralismo che portano a credere che chi non si proclama preliminarmente contro vuol dire che allora è necessariamente a favore; che l’unico commento possibile a qualsiasi cosa che non piaccia debba essere la maledizione. Che rifiutano visceralmente l’idea che capire e analizzare è più importante – e soprattutto più utile al lettore – che non aizzare o capeggiare una tifoseria. Alla domanda «Dove eravate quando…?» la risposta dunque è: eravamo dalla parte di questa idea dell’informazione e del giornalismo. Di certo ve ne possono essere legittimamente, e ve ne sono, delle altre. Ma ancora più certo è che non sarà con le filippiche ossessive, con le cacce all’untore né con le autoassoluzioni a buon mercato, che l’Italia riuscirà a correggere i mille sbagli commessi. Che essa riuscirà a costruire quel minimo di accordo su quanto è realmente successo nel suo passato senza il quale non può esserci speranza alcuna di un futuro.Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera, 28 ottobre 2013

LA MAIONESE IMPAZZITA, di Antonio Polito

Pubblicato il 25 ottobre, 2013 in Politica | No Comments »

Provate a seguire da vicino l’iter di un provvedimento legislativo. Scoprirete che i partiti che compongono la maggioranza non sono tre come si dice, ma almeno sette. Nel Pd agiscono separatamente il gruppo dei «Renzi for president» e l’avversa coalizione del «Tutto tranne Renzi»; più un manipolo di deputati che rispondono direttamente alla Cgil. Nel Pdl i «fittiani» contendono palmo a palmo il terreno agli «alfaniani», e il consenso del Pdl va contrattato con entrambi (più Brunetta). Scelta civica si è sciolta in due fazioni, per niente moderate nella foga con cui si combattono. Per condurre in porto il vostro provvedimento preferito dovrete dunque fare sette stazioni della via crucis parlamentare, per quattro volte (se il governo non mette la fiducia, due letture alla Camera e due al Senato). Vi servono insomma ventotto sì. Un’intesa larghissima: si fa prima al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Una volta approvata, la nuova norma rimanderà di sicuro a un regolamento attuativo. E lì ricomincerà la vostra gimkana, stavolta tra i burocrati dei ministeri che hanno il potere di scriverlo.

Il nostro sistema politico-parlamentare è letteralmente esploso. E la cosa incredibile è che il massimo della frammentazione convive con il massimo del leaderismo nei partiti. Il Pd, che pure è il più democratico, è una monarchia elettiva (quattro capi in cinque anni, l’unico partito al mondo che incorona il segretario con una consultazione del corpo elettorale). Il Pdl è una monarchia ereditaria. La terza forza, il M5S, è una diarchia orientale, con un profeta e un califfo.
In queste condizioni il semplice fatto che esista un governo è già un miracolo, figurarsi l’operatività. Se andiamo a votare può anche peggiorare. E non è solo colpa del Porcellum . Con i partiti come sono oggi, e con i sondaggi che circolano oggi, nessun sistema elettorale, nemmeno il più maggioritario, può garantire una maggioranza solida. Se anche questa si producesse nelle urne, si spaccherebbe in Parlamento un attimo dopo, come è miseramente accaduto alla più formidabile maggioranza della storia, quella uscita dal voto del 2008 e guidata da Berlusconi. Da tre anni il governo della Repubblica non è più espressione del risultato elettorale. Nessuna delle coalizioni che abbiamo trovato sulla scheda appena otto mesi fa esiste più.

Qualsiasi terapia del male italiano deve passare da qui: come rendere il Paese governabile. Come aprirsi un sentiero praticabile tra due Camere, venti Regioni, più di cento Province, più di ottomila Comuni. Come ridurre il numero dei partiti, ridurne il potere, ridurne l’ingerenza. È infatti nel sistema politico-istituzionale che si è incistata nella sua forma più perniciosa quella crisi di cultura e di valori di cui hanno scritto sul Corriere Galli della Loggia e Ostellino.
La soluzione viene di solito indicata nelle riforme costituzionali. Solo chi spera nel tanto peggio tanto meglio può negarne l’urgenza. Ma neanche quelle basteranno se non si produce una profonda rigenerazione morale dei partiti. Laddove l’aggettivo «morale» non sta solo nel «non rubare», e il sostantivo «rigenerazione» non coincide con l’ennesimo «repulisti» affidato al codice penale: questo sistema politico è figlio di Mani pulite, e non sembra venuto tanto meglio.
Rigenerazione morale vuol dire innanzitutto una nuova generazione, homines novi . Vuol dire restaurare un nesso, anche labile, tra l’attività politica e il bene comune. Vuol dire liberarsi dei demagoghi e dei voltagabbana. L’Italia non può farcela senza una politica migliore. Antonio Polito, Il Corriere della Sera, 25 ottobre 2013

……..Polito, come Ostellino e Galli della Loggia nei giorni scorsi, fanno affidamento sulla speranza che ci siano non tanto uomini nuovi, quanto un ripensamento nei comportamenti anche da quelli che proprio nuovi non sono, pe restituire la politica al suo compito: seervire i cittadini. Ma basta leggere la Gazzetta del Mezzogiornmo di questa mattina per constatare che l’affidamento che fanno Polito, Ostellino e Galli della Loggia è solo utopistico. Ieri la Regione Puglia ha approvato una leggina che trasforma i gruppi consiliari regionali da emanazione del Consiglio e quindi di natura pubblica inj asasociaizoni private per cui da oggi non più assoggettati, per esempio, al controllo della Corte dei Conti. Si è affrettata la Gazzetta a scrivere che però quello che è accaduto in altre regioni non è accaduto in Puglia, nel senso che non ci sono stati nè gli sperperi nè gli abusi che appena l’altro ieri hanno interessato altri gruppi consilairi di altre regioni. E allora che bisgono c’era di sottrarre per il futuro i comportamenti dei gruppi consiliari della Puglia al controllo della Corte dei Conti? Anzi, proprio l’averlo  fatto con la motivazione addotta dalla Gazzetta ci induce a nutrire più di un dubbio e a sospettare che la speranza di  una politica migliore che si restituisca al suo compito, servere onestamente i cittadini, è solo utopia. g.

CON LO SGUARDO ALL’INDIETRO, di Piero Ostellino

Pubblicato il 23 ottobre, 2013 in Politica | No Comments »

Un Paese nel quale il pensiero, le opinioni, le parole devono ubbidire a una certa Ortodossia pubblica, imposta per legge, non è un Paese libero. L’Italia – con gli innumerevoli divieti che, opponendo un ostacolo alla libera manifestazione del pensiero, prefigurano, di converso, il reato d’opinione – lo sta diventando.
L’ignoranza dei fondamenti stessi della democrazia liberale ha prodotto una «bolla culturale», generatrice, a sua volta, di una «inflazione legislativa», che sta progressivamente portando il Paese alla fine delle sue (già fragili) libertà.

L’eccessivo numero di leggi che, spesso, si sovrappongono e/o si contraddicono l’un l’altra, è l’effetto di due cause concomitanti. Prima: della crescita esponenziale, per legge ordinaria, di una tendenza allo statalismo già presente nella Carta fondativa della Repubblica. Se si riflette sul fatto che nella stesura della Prima parte della Costituzione – quella sui diritti – ebbe un grande ruolo Palmiro Togliatti, l’uomo che avrebbe voluto fare dell’Italia una democrazia popolare sul modello dell’Urss, si spiegano le ragioni del disastro verso il quale la Repubblica, nata dalla Resistenza al fascismo, si sta avviando.

Secondo: la dilatazione del potere discrezionale della magistratura, diventata, con le sue sentenze in nome del popolo, il nuovo «sovrano assoluto»; che ha spogliato, di fatto, il Parlamento dell’esercizio della sovranità popolare e vanifica il potere del governo di gestire il Paese; unifica in sé tutti e tre i poteri dello Stato (legislativo, esecutivo, giudiziario) che dovrebbero restare separati e divisi secondo il moderno costituzionalismo.

Si vuole creare – attraverso la via del costruttivismo politico e della palingenesi giudiziaria – un uomo artificiale, «l’uomo democratico». Si sta producendo un cittadino – che si crede iper-democratico, ma è solo suddito – fra gli entusiasmi della borghesia salottiera; l’indifferentismo del proletariato, che sogna la rivoluzione socialista; la pigrizia dei media, che girano intorno ai problemi come gattini ciechi; i silenzi del centrodestra, concentrato sull’ombelico del proprio padre-padrone; la nullità del centrosinistra che si aggrappa a chiunque – persino al Papa gesuita! – si mostri ostile alla modernità, al capitalismo, al mercato, alla ricchezza, e aperto al pauperismo.

Siamo inclini ad attribuire populisticamente tutte le colpe alla politica o, meglio, ai cattivi politici, che pure non ne sono esenti, e non ci accorgiamo che ci stiamo scavando noi stessi la fossa sotto i piedi, non solo votando certi personaggi, ma ispirandone culturalmente e politicamente la cattiva politica.
La «democrazia dei partiti» – col suo carico di progressismo immaginario, di costruttivismo, di vocazione autoritaria e totalitaria, di illiberalismo – non è peggiore del Paese. È il Paese che si porta appresso tutte le tare della sua storia: dalla divisione fra Guelfi e Ghibellini, che è adesso quella fra berlusconiani e antiberlusconiani, alla (mancata) Riforma protestante e alla diffusione della doppia morale (cattolica e controriformista); dal trasformismo, che aveva decretato, nel 1876, la morte della Destra storica (e cavouriana) e creato le premesse del fascismo, al fascismo stesso e, da questo, all’antifascismo; dalla fine del comunismo, come filosofia della storia, alla sopravvivenza dei comunisti come protagonisti della nostra realtà quotidiana: sul filo del trasformismo, hanno cambiato nome, ma non la vocazione collettivista, dirigista e statalista, che ci ha portato, con l’eccesso di spesa pubblica, sull’orlo della bancarotta.

Un Paese allo sfascio, ha scritto Ernesto Galli della Loggia su queste stesse colonne, lunedì scorso. Un Paese, aggiungo io, che non sa risollevarsi, e non ci prova neppure, perché la sua crisi, politica, economica, civile, è culturale; a sua volta, il prodotto di una scuola passatista e antimodernista, ancora governata dai reduci del gramscismo e dal cosiddetto cattolicesimo democratico, parodia solidaristica, confessionale, parimenti velleitaria e fondamentalmente totalitaria, dell’egualitarismo comunista.

Chi denuncia questo stato di cose, e il fatto che Berlusconi abbia tradito le sue stesse promesse di cambiarle, è condannato, con un salto logico che è una contraddizione in termini, come berlusconiano. In tali condizioni, non si vede come se ne possa uscire, si capisce perché tanti giovani preferiscano emigrare che crescere in Italia e molti talenti non pensino affatto di tornarci dopo essersene andati.Piero Ostellino, Il Corriere della Serra, 23 ottobre 2013

….Che dire….Non è un articolo questo di Ostellino,  ma un breve saggio storico-politico in cui si compendia tutta la realtà del nostro Paese. Realtà che si proietta colpevolmente sul futuro prossimo e lontano se non si riuswcirà in qualche modo ad invertire la rotta. Ma all’orizzonte non ne scorgiamo alcun indizio. g.

LA LEGGE DI STABILITA’ DEL GOVERNO LETTA AUMENTA LE TASSE: SCOPERTO IL TRUCCO

Pubblicato il 21 ottobre, 2013 in Il territorio | No Comments »

I numeri parlano chiaro, Letta ha preso in giro tutti: nel 2014 pagheremo di più, anche sulla casa

L’anno prossimo gli italiani pagheranno più tasse. È inutile girarci intorno. Così è. Il trucco più odioso è quello sulla casa.

Il premier Enrico Letta intervistato da Maria Latella

Come nei giochi di prestigio, ciò che scompare da una parte, ricompare dall’altra. Modestamente nella nostra «Zuppa» solo tre giorni fa avevamo fatto i conti. Ma leggendo le relazioni dei tecnici si vede come la realtà sia peggiore. Si ha l’impressione di essere stati gabbati. Quest’anno (a meno di colpi scena) l’Imu porterà nelle casse dello Stato 20 miliardi, quattro in meno rispetto al 2012, quando Monti la introdusse. Nel 2014 l’Imu continuerà a fruttare per le casse dello Stato sempre 20 miliardi. Ai quali però si dovranno sommare 3,7 miliardi della nuova imposta immobiliare sui cosiddetti servizi indivisibili. Ma non è tutto: i Comuni avranno la facoltà di aggiungere altri cinque miliardi (tetto massimo) di nuove imposte immobiliari, alzando le aliquote fissate a Roma. Il gioco è semplice. Lo Stato arma gli enti locali con la facoltà di tassare e allo stesso tempo li indebolisce (finanziariamente), tagliando loro i trasferimenti. Scommettiamo un euro che la gran parte dei Comuni userà l’arma di alzare le aliquote?
Ricapitolando: sulla casa, anche a voler presumere che i Comuni non tocchino le aliquote, ci sarà una batosta. A ciò si aggiungano 4 miliardi di Iva aggiuntiva: l’abbiamo appena alzata al 22%. E poi, grazie alla Finanziaria, è aumentata di un miliardino la patrimoniale sui risparmi. Con i tagli alle detrazioni, si tratta di 10 miliardi di tasse in più rispetto al 2013. A fronte di ciò, una riduzione del cuneo fiscale di poco meno di tre miliardi.
Se ci avete seguito fino a questo punto, avete capito bene come siamo stati fregati. Che almeno non ci chiedano di sorridere.
Qualche realista vi potrà citare le tabelle e i numeri di Palazzo Chigi che segnano una riduzione della pressione fiscale. Buttateli nel caminetto. Almeno riscaldano. La Finanziaria del 2011 prevedeva per quest’anno una crescita del Pil dell’1,5 per cento: è crollato dell’1,7. Millantava un deficit dello 0,5%: sarà, se va bene, del 3%. E il debito doveva fermarsi al 116,9 per cento: oggi è del 133%. Tutti i documenti pubblici dei passati governi hanno previsto numeri che non si sono realizzati. Sul momento si fa bella figura. Nel futuro ci sarà qualcun altro che dovrà spazzare la polvere sotto al tappeto. Nicola Porro, giornalista finanziario, conduttore televisivo, 21 ottobre 2013

…..Nessuno ha creduto, neppure per un istante, che riuswcisse a Letta quel che non è ruscito a nessuno. A Letta però è riuscito di convincere parte del suo governo – leggi il Pdl – a concorrere nel tentativo di far passare per vera una panzana grande quanto lo stivale italico. E come qualcuno sostiene: non è finita qui…. g.

STUPRATA DAL MANIACO? “E’ CONCORSO DI COLPA, PERCHE’ GLI HA APERTO LA PORTA”, SECONDO

Pubblicato il 20 ottobre, 2013 in Cronaca, Giustizia | No Comments »

La vittima aveva 74 anni. Secondo l’Avvocatura dello Stato la donna agì incautamente, quindi non dev’essere risarcita

Ha aperto la porta all’uomo che poi l’avrebbe violentata? Non ha diritto al risarcimento: ha contribuito allo stupro. Insomma, come dire, che quasi sarebbe stata «consenziente».

Ginevra è nome da favola, che solo a pronunciarlo fa venire a mente castelli fatati e principi azzurri. Ginevra è il nome che la fantasia dona a una signora sassarese finita all’inferno.

Nel 2007 aveva 74 anni. Una donna che non si è mai sposata, molto religiosa. Ma a casa sua un giorno arrivò il «diavolo».
Un uomo, poi dichiarato seminfermo di mente, che bussa. Lei apre. Lui la strattona, la picchia, la violenta. A processo il maniaco sceglie il rito abbreviato e se la cava con quattro anni. Oggi è libero. La vittima, invece, è ancora prigioniera: la depressione non l’ha più abbandonata. E ora ha un nuovo nemico: la Repubblica italiana. Il suo violentatore avrebbe dovuto risarcirla, come sentenziato dal Tribunale, con 30.000 euro. Ma quello, squattrinato, s’è ben guardato dal farlo. I legali dell’anziana hanno allora citato in giudizio la Presidenza del consiglio dei ministri, fidando su una direttiva europea del 2004 che in caso di insolvenza del responsabile impone al Paese di residenza di garantire un indennizzo a chi abbia subito un crimine violento. Deciderà il giudice. Intanto, l’Avvocatura di Stato s’è opposta, come logico nel gioco delle parti, sollevando mille eccezioni. Tra tutte una risalta. Suona più o meno così: «La parte attrice ha aperto consapevolmente e incautamente ad uno sconosciuto: pertanto deve rispondere a titolo di concorso di colpa di quanto accaduto».
Insomma: non aprite quella porta. E più che il titolo d’un vecchio film horror è l’orrore che trasuda da un atto giudiziario che s’inserisce nel solco della triste giurisprudenza statale sui crimini del sesso. Favorisce il suo stupratore chi, ignara, socchiude l’uscio al trillo del campanello così come agevolava il suo aggressore la ragazza che indossava jeans così stretti da lasciar presumere che se non ci fosse stata «la sua fattiva collaborazione mai alcuna violenza intima avrebbe potuto esserle usata»: era il 1999, e la Terza sezione della Cassazione il suo convincimento lo affidava a una sentenza prontamente messa in naftalina tanto era assurda. Eppure, è stato necessario attendere il 2008 perché la Suprema Corte, sempre attraverso la Terza sezione, riconoscesse che «i jeans non sono paragonabili ad una cintura di castità» e che dunque, a ben considerare, non sono d’ostacolo alla violenza sessuale. Ma assolti da ogni responsabilità i calzoni a cinque tasche, sul banco degli imputati è rimasta la donna: se lo stupro riguarda una fanciulla non più vergine «il trauma sarà da ritenersi più lieve» ed il maschio assalitore «avrà diritto ad una condanna più lieve», ha stabilito nel 2006 ovviamente la Terza sezione. La stessa che un anno fa ha bissato: quando lo stupro è di gruppo, in attesa di giudizio ben può il giudice adottare misure alternative alla carcerazione. E nell’ottobre del 2012 un’altra pronuncia da manuale: se più sono i violentatori «va riconosciuto uno sconto di pena a chi non abbia partecipato a indurre la vittima a soggiacere alle richieste sessuali del gruppo, ma si sia limitato a consumare l’atto».
La giustizia non è di questo mondo. Esiste solo nelle fiabe. Ginevra, adesso, lo sa.

…..Siamo curiosi di sapere cosa sentenzierà questa volta la Magistratura:  se accoglierà la tesi pateticamente ridicola dell’Avvocatura di Stato che ci fa riandare col pensiero all’indimenticabile Flaiano secondo il quale in Italia anche le tragedie finiscono in farsa, oppure se condannerà lo Stato a risarcire la vittima dello stupro. In tal auspicabilke ipotesi dovrebbe   condannerà gli incauti funzinari dell’Avvocatura di Starto alla pena acessoria della stessa violenza subita  della 74enne. Perchè  in futuro si asterrebbero dallo scrivere cazzate. g.

GLI STATALISTI TRASVERSALI

Pubblicato il 19 ottobre, 2013 in Politica | No Comments »

Circola in questi giorni un appello firmato da un gruppo di economisti — fra i quali Francesco Giavazzi che del tema si è già occupato sul Corriere — contro il nuovo statalismo, le azioni neo-protezioniste del governo Letta. I sottoscrittori fanno riferimento a tre interventi a gamba tesa del governo volti a bloccare gli investitori stranieri: l’operazione che ha portato la Cassa depositi e prestiti al pieno controllo di Ansaldo Energia, quella su Telecom Italia e, infine, la ristatalizzazione di fatto di Alitalia attraverso l’intervento delle Poste.

In tutti e tre i casi, anziché lasciare che il mercato seguisse il suo corso e che le suddette aziende venissero acquisite da investitori disposti a rischiarvi i propri soldi, si è scelta, cambiando le regole ex post, a giochi ormai aperti, la via statalista. Pessimi segnali inviati ai mercati da quello stesso governo che diceva di volere attirare capitali esteri, di voler far cambiare idea a coloro che non investono in Italia perché ritengono il nostro Paese inaffidabile. Le vicende di cui si occupa l’appello, peraltro coerenti con una lunga tradizione statalista, hanno di singolare il fatto che si devono all’azione non di un governo di sinistra ma di un governo ove la destra ha un peso pari a quello della sinistra. Che un governo di sinistra possa decidere interventi di tal fatta lo si può pure capire. Perché lo esigono i sindacati e perché, nei ranghi della sinistra, sono tanti quelli che continuano a preferire l’intervento pubblico alla libera competizione di mercato.

L’unico problema fastidioso davanti al quale può trovarsi la sinistra quando statalizza è che le può accadere di mettersi in urto con quella Europa di cui si considera la più fedele interprete italiana. Come sta accadendo nella vicenda Alitalia: è difficile dar torto agli inglesi mentre chiedono la condanna dell’Italia per violazione dei trattati in materia di concorrenza. Ma che dire della destra? Non toccherebbe a lei la più fiera difesa del mercato? Non toccherebbe alla destra contrastare le pulsioni stataliste della sinistra? E invece no. Queste operazioni si sono fatte col consenso e l’attiva partecipazione del Pdl. L’anomalia italiana è che in questo Paese non è statalista solo la sinistra.

Lo è anche la destra. Si può capire, naturalmente, che sulla vicenda Alitalia il Pdl abbia la coda di paglia e voglia in qualche modo coprire l’errore che, a suo tempo, venne commesso da Berlusconi quando sbarrò il passo a Air France, ma questo da solo non dovrebbe essere un buon motivo per razzolare in modo opposto a come si predica. Non ha molto senso battersi contro l’Imu o altre tasse e poi lasciare che l’intervento pubblico dilaghi. Poiché le tasse alte sono solo un sintomo, o l’effetto, di una presenza statale che non si sa contenere né ridurre. Prima di contrapporsi fra lealisti e ministeriali quelli del Pdl dovrebbero riflettere su che cosa vorranno proporre al Paese quando arriverà il momento di farlo. Il che implica anche una presa d’atto delle ragioni di fondo dei fallimenti dei governi Berlusconi, del fatto che le (troppe) parole spese sulla «rivoluzione liberale» non fossero accompagnate da atti in grado di dare davvero senso, e credibilità, a quelle parole. Piuttosto che sui gradi di fedeltà al capo sarebbe forse più sensato, per il Pdl, dividersi tra chi pensa che non ci siano autocritiche da fare e chi pensa che sia infine necessario cambiare registro.  Angelo Panebianco, Il Corriere della Sera, 19 ottobre 2013

IL PAESE DELLE OMBRE

Pubblicato il 18 ottobre, 2013 in Giustizia, Politica | No Comments »

Ammettere la testimonianza di Giorgio Napolitano nel processo sulla trattativa Stato-mafia da parte della Corte d’assise di Palermo sarà pure «pertinente», come ha affermato ieri uno dei sostituti procuratori. Ma non può non lasciare un sottofondo di stupore e di perplessità. Gli stessi magistrati si rendono conto dell’enormità della loro mossa. E infatti, per giustificarla riconoscono limiti rigidi e ampi che toccano le funzioni del presidente della Repubblica e le esigenze di riservatezza legate al suo ruolo. Il rischio, tuttavia, è che il capo dello Stato appaia oggetto di un ulteriore strattone da parte di alcuni settori del potere giudiziario immersi da tempo in conflitti interni; e decisi a riaffermare la propria identità a costo di scaricarne gli effetti su un Quirinale che sta tentando una stabilizzazione anche nella magistratura.

È sacrosanto chiedere a tutti informazioni che possano contribuire a trovare la verità. Ma in questo caso non si può non valutare anche una questione di opportunità; e chiedersi se non sia foriero di pericolosi equivoci gettare ombre sul presidente della Repubblica, citandolo come testimone delle preoccupazioni di un suo collaboratore scomparso. In una fase in cui a livello internazionale Napolitano viene considerato uno dei pochi ancoraggi di un’Italia condannata a galleggiare nell’incertezza, la vicenda assume contorni lievemente surreali. Dietro un aggettivo come «inusuale», utilizzato ieri dalla Guardasigilli, Annamaria Cancellieri, si indovina l’imbarazzo per una sentenza che accoglie e insieme schiva le decisioni della Corte costituzionale.

Si tratta del verdetto col quale a gennaio la Consulta stabilì la distruzione delle intercettazioni telefoniche tra il Quirinale e l’ex ministro Nicola Mancino, ritenendole inammissibili. Non solo. I commenti fatti a caldo da alcuni magistrati della Procura palermitana contengono giudizi negativi e liquidatori sull’ipotesi di amnistia e indulto avanzata nei giorni scorsi al Parlamento proprio da Napolitano: parole anche queste un po’ irrituali. Oggettivamente fanno sponda a quanti, nei partiti, hanno criticato la proposta del capo dello Stato, evocando un inconfessabile salvacondotto per Silvio Berlusconi: sebbene si abbia la sensazione che il vero motivo dell’attacco al Quirinale sia l’ennesimo tentativo di dare una spallata al governo delle larghe intese.

Dalla presidenza della Repubblica ieri è arrivato un comunicato nel quale si precisa di essere «in attesa di conoscere il testo integrale dell’ordinanza di ammissione della testimonianza… per valutarla nel massimo rispetto istituzionale»: risposta ineccepibile e insieme gelida, che lascia aperta la possibilità di rispondere alla Corte d’assise di Palermo in base alle tesi esposte dai giudici; e che lascia trasparire l’eventualità di un nuovo conflitto tra vertici dello Stato. Il fatto che perfino il presidente del Senato, Pietro Grasso, sia stato chiamato a deporre a Palermo, non rende l’iniziativa meno singolare, anzi. Grasso è stato a lungo ai vertici della Procura del capoluogo siciliano, e poi capo dell’Antimafia a livello nazionale. E si è attirato l’ostilità di alcuni settori della magistratura per non avere voluto avallare teoremi a suo avviso poco fondati sul piano delle prove.

C’è da sperare che quanto sta accadendo non abbia niente da spartire con una stagione apparentemente archiviata. La testimonianza richiesta alla prima carica dello Stato e al suo supplente, tuttavia, se anche non è una forzatura in punto di diritto, suona poco comprensibile dal punto di vista istituzionale. Rischia di gettare su un Napolitano rieletto per un settennato senza che l’abbia chiesto né cercato, il peso di vicende figlie di un conflitto trasversale fra spezzoni della magistratura e dei partiti: un residuo di veleni antichi e più recenti, versati su un equilibrio politico e su un sistema già fragili e tormentati. Massimo Franco, Il Corriere della Sera, 18 ottobre 2013

…….Quella di Palermo,   la convocazione di Napolitano come teste in un processo che intende processare lo Stato, anche alla luce della sentenza che ha scagionato per la seconda volta il generale Mori da qualsiasi accusa di compromessi con la mafia, appare non solo inusuale, irrituale e surreale, ma anche offensiva per lo Stato e le sue Istituzioni e pone la Magistratura, o meglio una certa piccola parte della Magistratura, nella posizione di improprio “avversario” di quello Stato di cui essa è solo una parte, importante, certo, ma sempr e solo una parte, chiamata non a legiferare nè a ipotizzare   improbabili complotti ma a punire delitti certi quando siano stati accertati. Infine v’è una nota  tra il ridicolo e il patetico  che va sottolineata: Nnapolitano dovrebbe testimoniare circa le pene intime di un suo collaboratore poi morto per malore, forse provocato da ingiuste  accuse. E se Napoitano testimoniasse che il suo ormai defunto consigleire giuridico è morte di crepacuore provocato dalle accuse infondate  di qualche PM in cerca di gloria, che accadrebbe? Che quel PM potrebbe finire sotto processo per responsabilità indiretta della morte di un uomo? g.


L’INDIGESTIONE DELLE DEROGHE, di Michele Ainis

Pubblicato il 14 ottobre, 2013 in Politica | No Comments »

Il governo Letta ha passato la nottata, ma per l’Italia è ancora notte fonda. Viviamo in un sistema che alleva disoccupazione e recessione, prigioniero di lobby armate fino ai denti, lacerato dal divorzio fra popolo e Palazzo. Zero efficienza economica, zero equità sociale, zero legittimazione democratica. C’è un nesso fra queste tre voragini? Sì che c’è, ma per illuminarlo dobbiamo aprire gli occhi sul quarto zero tondeggiante sullo sfondo: quello delle riforme istituzionali e costituzionali. Ci sarà pure una ragione se alle nostre latitudini fa notizia la sopravvivenza del governo, non già la sua caduta. Se ciascun potere dello Stato, nessuno escluso, appare debole ma al contempo rissoso, sleale, prepotente. Se infine il sistema nel suo complesso è incapace di produrre grandi scelte, però microdecisioni sì, e sono sempre decisioni di favore.

Le prove? Alla data del 2012 il nostro ordinamento ospitava 63 mila norme di deroga. Significa che la regola non esiste più: defunta, insieme al principio d’eguaglianza. Perché la deroga, l’eccezione, non è che l’abito normativo cucito indosso su misura a questa o a quella camarilla. E perché i sarti sono tanti, quando i Consigli regionali mettono becco sugli affari nazionali, quando le coalizioni di governo sono affollate come vagoni della metropolitana, quando ogni progetto di legge fa la spola tra due Camere, e ciascuna può aggiungervi il suo bel vagoncino colorato.

Nel 2006 il gabinetto Prodi esordì con un record planetario: 1.364 commi stipati in un solo articolo di legge. L’anno dopo diede il suo addio alle scene con una Finanziaria un po’ più magra: 97 articoli, che tuttavia in Parlamento si gonfiarono fino a diventare 151, e infine 1.201 commi. Nei suoi quattro anni di gloria, il gabinetto Berlusconi sfornò una manovra dopo l’altra, salvo rimangiarsele come il conte Ugolino. Sicché, per esempio, l’ultima (agosto 2011) dettava un contributo di solidarietà per i redditi più alti, ma alla fine della giostra il contributo restò sul collo dei soli dipendenti pubblici. Nel 2012 il gabinetto Monti annunziò una stangata fiscale per tassisti e farmacisti, il Parlamento stangò la stangata. Per forza: in Italia le manovre si varano immancabilmente per decreto, i decreti devono ottenere la conversione in legge, ma ogni decreto convertito diventa un decreto pervertito.

Da qui l’urgenza di porre mano alle riforme. Stabilendo la fine del bicameralismo paritario, una trovata che non ha eguali al mondo. Disegnando rapporti più nitidi fra il centro e la periferia del nostro vecchio impero. Attivando canali di partecipazione e decisione da parte del corpo elettorale. E in ultimo rafforzando la stabilità degli esecutivi, giacché in caso contrario anche l’economia sarà sempre instabile e precaria. Insomma, non è vero che le riforme costituzionali non diano da mangiare: semmai è questo lungo digiuno di riforme ad averci affamato. Ma a quanto pare non ne parla più nessuno. E nel silenzio degli astanti, s’ode unicamente la voce dei loro detrattori. Che però non entrano nel merito, non sanno misurarsi con la sostanza dei problemi. No: si trincerano dietro questioni procedurali (l’articolo 138) o personali, profittando di un’inchiesta che coinvolge 5 membri della commissione di studio per delegittimare l’intera commissione, quindi il suo lavoro, quindi la riforma in sé.

Un classico paralogismo: Pietro e Paolo erano apostoli, gli apostoli erano dodici, dunque Pietro e Paolo erano dodici. Come a dire che se nel mio condominio abita un clandestino, allora siamo tutti clandestini. Però siccome quella vicenda giudiziaria è ancora da chiarire, siccome fin qui volano sospetti ma non fatti, il paralogismo non è che paranoia.
Diciamolo senza troppi giri di parole: il fallimento di questo processo di riforma ucciderebbe la residua credibilità dei nostri politici. Anche delle nuove leve, dei quarantenni che stanno scalzando i loro padri. Non foss’altro perché gli italiani, viceversa, alle riforme mostrano di crederci: alla consultazione in rete indetta dal governo hanno partecipato all’incirca 170 mila cittadini, e il 13% sono giovani sotto i 28 anni. Non trasformate i credenti in creduloni. Michele Ainis, Il Corriere della Sera, 14 ottobre 2013