Se soltanto trovassimo una pozione magica per farlo tornare giovane… ». In un Sudafrica che, dopo la fine della sua presidenza nel 1999, si è progressivamente avvitato in una specie di crisi esistenziale che rischia di compromettere la sua eredità, milioni di cittadini solevano invocare un suo impossibile ritorno sulla scena politica anche dopo che aveva compiuto i novant’anni. E ora che si è spento, Nelson Mandela è destinato a diventare un personaggio leggendario, l’incarnazione di un sogno che, purtroppo, si è avverato solo in piccola parte: quello della «nazione arcobaleno», in cui neri, bianchi, indiani e meticci avrebbero convissuto in armonia e prosperità. Se dovessimo stilare una classifica tra i vincitori del Nobel per la pace dell’ultima generazione, Mandela è sicuramente quello che lo ha meritato più di tutti, perché il passaggio senza spargimento di sangue e senza collassi economici dal vecchio regime di supremazia bianca a una democrazia dominata dalla maggioranza nera è stato un capolavoro politico forse senza eguali nel mondo moderno. L’età avanzata e una certa fragilità, dovuta anche ai 27 anni trascorsi nel carcere di massima sicurezza di Robben Island, non gli hanno consentito di portare l’impresa a compimento.
Il suo posto nella storia, perciò, non dipenderà tanto da quello che è riuscito a realizzare nei suoi quattro anni da primo presidente nero della Repubblica sudafricana, quanto dalla sua capacità di imporre le prospettive di una società unita, al di là delle laceranti divisioni che hanno caratterizzato la sua storia.
Quando nacque nel villaggio di Mvezo, nel cuore del Transkei, il 18 luglio 1918, terzo figlio di un capotribù Xhosa, il futuro Nelson Mandela venne chiamato Rolihlahla Dalibhunga. Furono i missionari metodisti a dargli il nome con cui è diventato famoso, a curare la sua istruzione e infine a mandarlo al College di Fort Hare, la prima università per neri del Sudafrica. Una volta laureato, aprì uno studio legale in società con Oliver Tambo, un altro futuro protagonista della resistenza contro l’apartheid, ma si buttò quasi subito in politica, in difesa dei diritti dei neri che, con la vittoria del partito nazionalista nelle elezioni del 1948 e le successive leggi razziali, erano stati ridotti a non-cittadini.
Tra i fondatori dell’African National Congress, l’attuale partito di governo, fu arrestato una prima volta nel 1956 (e prosciolto dall’accusa di volere costituire un regime comunista), nominato nel 1961 comandante della «Lancia della nazione», il movimento di liberazione del partito, spedito all’estero a cercare appoggi nel 1962 e arrestato nuovamente al suo rientro in patria nel 1963. Stavolta, il tribunale lo condannò all’ergastolo, ma il discorso di denuncia che pronunciò davanti alla Corte prima di sparire per un quartodi secolo nelle carceri dell’ apartheid destò una enorme eco in tutta l’Africa e rimane, per molti, il punto più alto della sua militanza.
Anche durante la segregazione a Robben Island, Mandela riuscì a rimanere la guida suprema dell’ ANC, il principale punto di riferimento per i compagni sfuggiti all’arresto che, in clandestinità o in esilio, continuavano la lotta.
I suoi stessi carcerieri erano in qualche modo intimiditi dalla sua personalità e – in realtà non infierirono mai contro di lui.
Infatti, quando il regime dell’apartheid cominciò a vacillare, fu a lui che si rivolse per cercare una soluzione. Già nel 1985, il presidente Botha gli offrì in segreto la libertà un cambio di un ripudio della lotta armata, ma Mandela rifiutò. Il governo decise egualmente di trasferirlo da Robben island al carcere di Pollsmoor, nel tentativo di costruire, attraverso di lui, un ponte verso la comunità nera, e il 4 luglio 1989 lo stesso Botha si decise a incontrarlo. Il colloquio mise le basi per gli sviluppi successivi, che in quattro anni hanno radicalmente cambiato il volto del Paese: la liberazione del Madiba (il patriarca) il 2 febbraio 1990, la legalizzazione dell’ANC, la nomina di Mandela a suo presidente, il conferimento del premio Nobel per la pace (insieme a F.W. De Klerck, successore di Botha e ultimo presidente bianco), la proclamazione di una nuova Costituzione che sanciva l’eguaglianza di tutti i cittadini indipendentemente dal lorocolore e la elezione di Nelson Mandela a nuovo capo dello Stato, con lo stesso De Klerck come vice per rassicurare la minoranza bianca.
Non si può dire che Mandela sia stato un buon presidente: un po’ per l’età ormai avanzata, un po’ per la totale mancanza di esperienza amministrativa, il suo governo ha lasciato molto a desiderare: non ha garantito alle masse delle township i progressi che si aspettavano, ha tollerato la corruzione della nuova classe dirigente, non ha combattuto con sufficiente determinazione la diffusione dell’ AIDS. Ma il suo carisma era tale che tutto gli è stato perdonato. Il suo vero capolavoro è stato il superamento della frattura tra le varie comunità fino a quel momento divise dall’apartheid, all’insegna del motto «Chi ha coraggio non deve avere paura di perdonare » . Così, si è inventato la famosa «Commissione per la verità e la riconciliazione », davanti alla quale sono sfilati tutti coloro, bianchi e neri, che avevano commesso dei crimini nel corso del conflitto razziale e che- salvo nei casi più graviin cambio della piena confessione si sono guadagnati l’impunità.
Famosi sono rimasti anchealcuni suoi gesti, come quello di sostenere la squadra di rugby degli Springbock, autentici simboli del potere bianco che erano stati esclusi per anni dalle competizioni internazionali proprio su pressione dell’ANC, e di festeggiare con loro la vittoria nei campionati del mondo del ‘ 95; oppure, come quello di invitare a palazzo per il the le vedove dei suoi predecessori bianchi che lo avevano incarcerato.
Il suo passato di rivoluzionario lo ha anche spinto a commettere degli errori, come l’appoggio dato fino alla fine a Cuba e alla Libia; e, quando, ormai ritirato a vita privata, si è piegato troppo spesso ai voleri del suo ambiguo successore Mbeki. Con tutti suoi difetti, Mandela passerà comunque alla storia come il personaggio di maggiore statura espresso dall’ Africa postcoloniale: un uomo leale e generoso in un mondo di intrinseca ferocia, uno dei pochi visionari che siano riusciti a trasformare la loro visione in realtà. In un certo senso, è stata per lui una fortuna la graduale perdita di contatto con la realtà del Paese che ha contrassegnato i suoi ultimi anni: la crescente corruzione nell’ANC, gli affari sporchi di vari suoi familiari, il crescente malcontento delle masse tradottosi di recente in scioperi e violenze non lo hanno più toccato; ed è morto sereno, come meritava.Livio Caputo, Il Giornale, 6 dicembre 2013
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