Nelson Mandela, in una foto scattata nel 1990

Se soltanto trovassimo una pozione magica per farlo tornare gio­vane… ». In un Sudafrica che, dopo la fine della sua presiden­za nel 1999, si è progressiva­mente avvitato in una specie di crisi esistenziale che rischia di compromettere la sua eredità, milioni di cittadini solevano in­vocare un suo impossibile ritor­no sulla scena politica anche dopo che aveva compiuto i no­vant’anni. E ora che si è spento, Nelson Mandela è destinato a diventare un personaggio leg­gendario, l’incarnazione di un sogno che, purtroppo, si è avve­rato solo in piccola parte: quel­lo della «nazione arcobaleno», in cui neri, bianchi, indiani e meticci avrebbero convissuto in armonia e prosperità. Se do­vessimo sti­lare una classifica tra i vincito­ri del No­bel per la pace del­l’u­ltima ge­nerazione, Mandela è sicuramen­te quello che lo ha meritato più di tutti, perché il passaggio senza spar­gimento di sangue e senza col­lassi economici dal vecchio re­gime di supremazia bianca a una democrazia dominata dal­la maggioranza nera è stato un capolavoro politico forse sen­za eguali nel mondo moderno. L’età avanzata e una certa fragi­lità, dovuta anche ai 27 anni tra­sco­rsi nel carcere di massima si­curezza di Robben Island, non gli hanno consentito di portare l’impresa a compimento.

Il suo posto nella storia, perciò, non dipenderà tanto da quello che è riuscito a realizzare nei suoi quattro anni da primo presi­dente nero della Repubblica su­dafricana, quanto dalla sua ca­pacità di imporre le prospetti­ve di una società unita, al di là delle laceranti divisioni che hanno caratterizzato la sua sto­ria.

Quando nacque nel villaggio di Mvezo, nel cuore del Tran­skei, il 18 luglio 1918, terzo fi­glio di un capotribù Xhosa, il fu­turo Nelson Mandela venne chiamato Rolihlahla Dalibhun­ga. Furono i missionari metodi­sti a dargli il nome con cui è di­ventato famoso, a curare la sua istruzione e infine a mandarlo al College di Fort Hare, la prima università per neri del Sudafri­ca. Una volta laureato, aprì uno studio legale in società con Oli­ver Tambo, un altro futuro pro­tagonista della resistenza con­tro l’apartheid, ma si buttò qua­si subito in politica, in difesa dei diritti dei neri che, con la vit­toria del partito nazionalista nelle elezioni del 1948 e le suc­cessive leggi razziali, erano sta­ti ridotti a non-cittadini.

Tra i fondatori dell’African National Congress, l’attuale partito di governo, fu arrestato una prima volta nel 1956 (e pro­sciolto dall’accusa di volere co­stituire un regime comunista), nominato nel 1961 comandan­te della «Lancia della nazione», il movimento di liberazione del partito, spedito all’estero a cer­care appogg­i nel 1962 e arresta­to nuovamente al suo rientro in patria nel 1963. Stavolta, il tri­bunale lo condannò all’ergasto­lo, ma il discorso di denuncia che pronunciò davanti alla Cor­te prima di sparire per un quar­todi secolo nelle carceri dell’ apartheid destò una enorme eco in tutta l’Africa e rimane, per molti, il punto più alto della sua militanza.

Anche durante la segregazione a Robben Island, Mandela riuscì a rima­nere la guida suprema dell’ ANC, il principale punto di rife­rimento per i compagni sfuggi­ti all’arresto che, in clandestini­tà o in esilio, continuavano la lotta.

I suoi stessi carcerieri erano in qualche modo intimiditi dal­la sua personalità e – in realtà ­non infierirono mai contro di lui.

Infatti, quando il regime del­l’apartheid cominciò a vacilla­re, fu a lui che si rivolse per cer­care una soluzione. Già nel 1985, il presidente Botha gli of­frì in segreto la libertà un cam­bio di un ripudio della lotta ar­mata, ma Mandela rifiutò. Il go­ve­rno decise egualmente di tra­sferirlo da Robben island al car­cere di Pollsmoor, nel tentativo di costruire, attraverso di lui, un ponte verso la comunità ne­ra, e il 4 luglio 1989 lo stesso Botha si decise a incontrarlo. Il colloquio mise le basi per gli svi­luppi successivi, che in quattro anni hanno radicalmente cam­biato il volto del Paese: la libera­zione del Madiba (il patriarca) il 2 febbraio 1990, la legalizza­zione dell’ANC, la nomina di Mandela a suo presidente, il conferimento del premio No­bel per la pace (insieme a F.W. De Klerck, successore di Botha e ultimo presidente bianco), la proclamazione di una nuova Costituzione che sanciva l’eguaglianza di tutti i cittadini indipendentemente dal lorocolore e la elezione di Nelson Mandela a nuovo capo dello Stato, con lo stesso De Klerck come vice per rassicurare la mi­noranza bianca.

Non si può dire che Mandela sia stato un buon presidente: un po’ per l’età ormai avanzata, un po’ per la totale mancanza di esperienza amministrativa, il suo governo ha lasciato mol­to a desiderare: non ha garanti­to alle masse delle township i progressi che si aspettavano, ha tollerato la corruzione della nuova classe dirigente, non ha combattuto con sufficiente de­terminazione la diffusione dell’ AIDS. Ma il suo carisma era tale che tutto gli è stato perdonato. Il suo vero capolavoro è stato il superamento della frattura tra le varie comunità fino a quel momento divise dall’apar­theid, all’insegna del motto «Chi ha coraggio non deve ave­re paura di perdonare » . Così, si è in­ventato la fa­mosa «Com­missione per la verità e la ri­conciliazio­ne », davanti alla quale so­no sfilati tutti coloro, bian­chi e neri, che avevano com­messo dei cri­mini nel cor­so del conflit­to razziale e che- salvo nei casi più gravi­in cambio del­la piena con­fessione si so­no guadagna­ti l’impunità.

Famosi so­no rimasti an­chealcuni suoi gesti, co­me quello di sostenere la squa­dra di rugby degli Springbock, autentici simboli del potere bianco che erano stati esclusi per anni dalle competizioni in­te­rnazionali proprio su pressio­ne dell’ANC, e di festeggiare con loro la vittoria nei campio­nati del mondo del ‘ 95; oppure, come quello di invitare a palaz­zo per il the le vedove dei suoi predecessori bianchi che lo avevano incarcerato.

Il suo passato di rivoluziona­rio lo ha anche spinto a com­mettere degli errori, come l’ap­poggio dato fino alla fine a Cu­ba e alla Libia; e, quando, or­mai ritirato a vita privata, si è piegato troppo spesso ai voleri del suo ambiguo successore Mbeki. Con tutti suoi difetti, Mandela passerà comunque al­la storia come il personaggio di maggiore statura espresso dall’ Africa postcoloniale: un uomo leale e generoso in un mondo di intrinseca ferocia, uno dei pochi visionari che siano riusci­ti a trasformare la loro visione in realtà. In un certo senso, è sta­ta p­er lui una fortuna la gradua­le perdita di contatto con la real­tà del Paese che ha contrasse­gnato i suoi ultimi anni: la cre­scente corruzione nell’ANC, gli affari sporchi di vari suoi fa­miliari, il crescente malconten­to delle masse tradottosi di re­cente in scioperi e violenze non lo hanno più toccato; ed è mor­to sereno, come meritava. Livio Caputo, Il Giornale, 6 dicembre 2013