Un Paese ha bisogno di élite e al tempo stesso di una burocrazia. E come esistono élite ed élite , così esistono burocrazie innovative e burocrazie arteriosclerotizzate: ha fatto bene Giuliano Amato a sottolinearlo nella sua intervista di lunedì al Corriere . Solo un micidiale semplificatore come Lenin o forse un addicted al blog di Beppe Grillo possono pensare che per amministrare uno Stato possa bastare l’esperienza di una cuoca (anche se alla cuoca il primo era pronto ad affiancare il plotone d’esecuzione, mentre il secondo forse è disposto, più mitemente, ad accontentarsi di Internet).
Il problema dunque non è burocrazia sì o no. Nel caso dell’Italia il problema è innanzitutto un problema di formazione e di reclutamento.
Le burocrazie che danno buona prova di sé sono dappertutto quelle reclutate su base rigidamente meritocratica: cioè attraverso corsi di studi seri ed esami severi. L’esempio classico continua a essere (pur con qualche smagliatura) la burocrazia francese con le diverse Alte Scuole alle sue spalle. La prima defaillance del nostro sistema sta proprio qui. Da noi, infatti, non solo a cominciare dal curriculum scolastico e universitario il criterio del merito è virtualmente scomparso, ma veri esami d’ingresso degni di questo nome si fanno ormai esclusivamente in pochissime amministrazioni. Ancora resiste bravamente, ad esempio, la Banca d’Italia, ma già gli Affari esteri e la Magistratura – dove una volta entrare costituiva una prova non indifferente, e dove la carriera e la progressione retributiva non conoscevano l’anzianità – si sono arrese ai tempi nuovi.
In questo vuoto di meritocrazia il fattore decisivo da cui sempre più dipendono ingresso e carriera nell’alta burocrazia è diventato il mix formato da origine sociale, relazioni familiari e politica. Si tratta di un mix micidiale. Per due ragioni. Da un lato perché di fatto così si sancisce l’esclusione dall’élite del Paese di coloro che provengono dalle classi meno abbienti e comunque meno favorite, realizzando una selezione di tipo classista non in base alle capacità, che è l’opposto di quanto dovrebbe avvenire in una democrazia (e di quanto, tra l’altro, avveniva e in non piccola misura nel Regno d’Italia. Alberto Beneduce, grand commis degli anni Trenta, ad esempio, che ebbe nelle sue mani metà dell’economia italiana e la cui grande opera Amato giustamente ricorda, era figlio di un tipografo napoletano).
La seconda ragione sta nel fatto che con una burocrazia la quale, essendo di scarsa qualità e potendo vantare pochi meriti propri, dipende dalla politica per il proprio reclutamento, per la sua ascesa ai vertici nonché – nel caso dei luoghi di comando ministeriale, dei gabinetti, degli uffici legali, ecc. – per il restarvi un numero illimitato di anni, con un simile stato di cose va ovviamente a farsi benedire la necessaria distinzione tra politica e amministrazione. La seconda, che deve tutto alla prima, non avrà mai il coraggio di prenderla di petto e di opporsi con forza alle sue ragioni in nome dell’interesse generale – come invece sarebbe necessario. Ne diventerà invece serva, anche se naturalmente una serva padrona. Cioè l’alta burocrazia si abituerà – dietro l’ossequio formale ai politici – a fare in realtà soprattutto il proprio comodo e il proprio interesse, a tessere le proprie relazioni, favorire i propri amici, in ultimo accrescere il potere dei suoi membri. Dando vita per l’appunto a quella oligarchia di cui oggi soffre l’Italia. Fonte: Il Corriere della Sera