A pensare di disboscare così l’arretrato della giustizia civile son buoni tutti, verrebbe da dire sesi cedesse alla tentazione di imitare il premier Renzi in talune sue sprezzature: con un decreto leggesi va dai cittadini impantanati in 5,2 milioni di cause pendenti e li si invita caldamente a portarle fuori dal circuito giudiziario Tribunale / Appello, ad affidarle (salvo che per i diritti indisponibili) ad arbitri privati presi da un elenco dell’Ordine degli Avvocati, e a pagarli per ottenere quella decisione che lo Stato tardava a dare. Un’idea di dubbia attrattiva e neppure tanto originale, marcata com’è dagli stessi virus che scorazzano già da tempo nell’organismo malato della giustizia: il subappalto ai privati come stabile puntello all’emergenza; la progressiva svalutazione delle garanzie di indipendenza e imparzialità connesse alla giurisdizione; il messaggio che, fuori dalle corsie preferenziali aperte per sorridere ai mercati internazionali (tipo il «Tribunale delle imprese»), giustizia ordinaria resti solo per chi se la può pagare; e l’equivoco di forme di risoluzione alternativa delle controversie non come opzione culturale per ridurre la propensione alla litigiosità, ma come espediente imposto per legge per dirottare su laghetti privati i fiumi di contenzioso civile che tracimino dagli acquedotti tribunalizi.
Eppure il resto della riforma contiene anche misure promettenti, altre che meritano di essere sperimentate, e altre ancora il cui successo o insuccesso dipenderà dalla capacità di abbandonare l’illusorio pensiero unico delle riforme «a costo zero» (e qui già depone male l’impegno di appena 150 assunzioni a fronte della carenza in organico di quasi 8.000 cancellieri).
Certo, per coglierle bisogna andare oltre i tweet con i quali Renzi si è già portato parecchio avanti: «Garantire un processo civile di primo grado in un anno invece di tre come oggi» è infatti un cinguettìo curioso, se a scriverlo è il capo di un governo sul cui sito online i dati Ue mostrano che in materia commerciale una causa civile di primo grado dura in media oggi poco meno di 600 giorni, dunque circa un anno e otto mesi, non tre.
Ma al netto del marketing politico, e della rivendita di misure già avviate da altri (il «Tribunale delle imprese» è stato introdotto nel 2012 per la nicchia di cause di proprietà intellettuale-conflitti societari-antitrust, e il Processo Civile Telematico sta entrando ora a regime ma è frutto di 15 anni di travagliata marcia), fa benissimo la riforma ad alzare il tasso di mora dall’attuale 1% all’8,15%, in modo da disincentivare la beffa di chi oggi, avendo torto marcio in una causa, usa i tempi lunghi del tribunale come scudo per resistere contro chi ha ragione, contando sul fatto che nel peggiore dei casi a distanza di anni gli tocchi pagare solo il dovuto più un interesse infinitamente meno caro di quello per prendere soldi in prestito.
Opportuno – a condizione che non si creda che il rito da solo sia tutto – asciugare i tempi morti dell’attuale procedura civile, spingendo le parti ad anticipare e concentrare il «botta e risposta» che oggi arriva a consumare anche 8/12 mesi prima di approdare alla trattazione vera e propria della causa, Anche la «negoziazione assistita» dagli avvocati dei litiganti, prima che le nuove cause arrivino in tribunale e anzi nel tentativo di non farcele proprio arrivare grazie alla condivisione di una «convenzione» con valore di sentenza, è un esperimento francese da provare. Di buonsenso é l’idea che marito e moglie per divorziare, se non hanno figli piccoli e sono d’accordo sulle condizioni economiche, possano non intasare i tribunali. E una gran cosa, se ben coordinata, sarebbe la fusione in un unico «Tribunale della famiglia e per i diritti della persona» delle oggi frammentate competenze di giudici ordinari, minorili e tutelari (più le richieste di asilo politico).
È invece nel penale che il baldanzoso piglio del premier è evaporato nella stretta tra il quasi alleato di governo – Berlusconi – protagonista per anni di incostituzionali leggi ad personam , e l’alleato vero di governo – il ministro dell’Interno Alfano – che molte di quelle leggi incostituzionali fabbricò da Guardasigilli di Berlusconi. Il risultato del sandwich é un ripiegamento tattico su 5 titoli da «vorrei ma non posso», utili a far dire a tutti che tutti hanno vinto: chi sulla formulazione di falso in bilancio e autoriciclaggio, chi sull’ossessione di limiti alla pubblicabilità delle intercettazioni demandati a una legge delega «dopo confronto con i direttori dei giornali». In definitiva si compra tempo in attesa di tempi migliori, per contenuti sui quali il governo somiglia a un capofamiglia che, frastornato da commensali reclamanti ciascuno una pietanza diversa, affastella nel carrello della spesa ingredienti contraddittori, presi al supermarket delle tante commissioni ministeriali autrici di progetti che però almeno erano organici e coerenti. Tipica la scelta di non cancellare la berlusconiana legge ex Cirielli, ma di bloccare i termini di prescrizione dopo la condanna di primo grado, facendoli rivivere e ripartire dopo 2 anni se per allora non si sia celebrato l’appello (non è chiaro se anche nei processi già iniziati come per Berlusconi a Napoli o Formigoni a Milano, o solo per i nuovi rinvii a giudizio come sarebbe più logico). Ma così da un lato si ignora che di questi 2 anni già 8/10 mesi nella realtà si consumano prima che il processo arrivi fisicamente in appello, tra impugnazioni da attendere e formazione del fascicolo in cancellerie sotto organico. E dall’altro lato si lascia l’imputato esposto all’eventuale inerzia giudiziaria: sia perché lo scoccare del supplemento di tempo non determina l’estinzione dell’accusa (come invece suggeriva la commissione Canzio), sia perché il blocco della prescrizione non viene bilanciato da un meccanismo di controllo da parte del giudice sul trattamento tempistico da parte del pm della notizia di reato nelle indagini preliminari, fase dove le statistiche mostrano che ad esempio nel 2011 si sono concentrate 86.000 delle 120.000 prescrizioni dell’anno. Luigi Ferrarella, Il Corriere della Sera, 30 agosto 2014