Il governo Renzi sta varando le linee guida della riforma della scuola. Propone di assumere dal prossimo anno a tempo indeterminato 150 mila docenti precari e tra due anni 40 mila nuovi docenti tramite concorso con un investimento a regime di 4 miliardi all’anno. L’obiettivo dichiarato è quello di dotare le scuole di tutti gli insegnanti di cui hanno bisogno ed eliminare la «supplentite». Non convince. L’obiettivo di stabilizzare i precari può avere senso. Non è colpa loro se per anni lo Stato italiano ha fatto mezze promesse facendogli frequentare scuole di specializzazione, senza mai stabilizzarli.
Il numero abnorme e crescente dei precari pende come una spada di Damocle sulla speranza di concorsi futuri perché la «stabilizzazione» è sempre in agguato (come dimostrato da questa riforma).
È sbagliato poi procedere a una regolarizzazione totale in un colpo solo. Intanto perché un numero di supplenze brevi sarà sempre necessario visto che gli insegnanti di ruolo non si possono spostare a metà anno e, in particolare alle medie e alle superiori, ci sono sempre buchi da riempire. Ma, soprattutto, viene meno l’obiettivo di incidere drasticamente sulla qualità dei professori creando un cammino prevedibile, affidabile e meritocratico per l’accesso all’insegnamento che attragga i migliori.
Questo sarebbe anche possibile seguendo come pare la strada dei concorsi annuali. Peccato che essi siano poco credibili dal fatto che di colpo si stabilizzano 150 mila precari. Una cifra che equivale a 6 anni di turn over visto che ogni anno vanno in pensione tra i 20 e i 30 mila insegnanti.
E non è questione di risorse. Contrariamente a quanto sostengono le «linee guida», la scuola italiana non ha bisogno di molti fondi aggiuntivi, perché, anche dopo i «tagli», il rapporto insegnanti-studenti è più alto della media Ocse (l’Organizzazione cooperazione e sviluppo economico). Tanto più che Matteo Renzi ha promesso di tenere i conti della spesa pubblica sotto controllo.
Quanto alla meritocrazia, la riforma lascia molto a desiderare. Sulla selezione, perché appunto i concorsi sono incerti e quindi si riduce la possibilità di attrarre i migliori. Va un pochino meglio sui 150 mila da stabilizzare. Un po’ di meritocrazia ci sarebbe perché dovranno essere scelti dalle scuole: i più bravi riceveranno offerte da più istituti e gli altri marginalizzati in incarichi secondari.
Per ciò che riguarda il resto degli oltre 600 mila insegnanti, per i presidi e per le scuole, l’obiettivo di raggiungere una maggiore meritocrazia si perde. Secondo le linee guida della riforma, i professori dovrebbero avere stipendi differenziati. Ma in base a cosa? L’unico criterio concreto appare essere quello dell’aver frequentato dei corsi di specializzazione, che in Italia si sono sempre rivelati di scarsa utilità formativa. Le scuole verranno invece misurate in base a una non meglio precisata «autovalutazione». Cosa se ne faccia il ministero di queste «autovalutazioni» non è chiaro.
Esistono Paesi, come la Finlandia, che hanno ottimi sistemi educativi. Eppure non valutano le scuole e non differenziano gli stipendi degli insegnanti per merito. Come ci riescono? Puntando moltissimo sulla selezione all’ingresso degli insegnanti (una professione che attira i migliori laureati) e su una vera formazione, fatta in classe da professori esperti e non attraverso corsi di aggiornamento. Proprio le due leve che questo decreto sembra ignorare o addirittura penalizzare, come avviene per la selezione attraverso concorsi.
Se si vogliono ottenere risultati in poco tempo, come ha fatto la Polonia, bisogna allora valutare scuole e insegnanti. E si deve farlo sulla qualità dei risultati, misurati in modo oggettivo, non su parametri burocratici o potenzialmente fasulli.
Dovremmo rilanciare gli odiati test Invalsi e dotarci di un ispettorato serio. Si dovrebbero usare i risultati di quei test almeno per dare trasparenza alle famiglie su come sono valutate le scuole. E andrebbe fatto prima ancora di pensare a differenziare gli stipendi degli insegnanti e i fondi alle scuole. Ma di tutto questo, nonostante l’obiettivo della trasparenza sia citato, le linee guida non parlano affatto.
Il dubbio che emerge è che l’obiettivo politico sia il vero leit motiv di questa riforma. Che verrà applaudita dagli insegnanti e dai sindacati che si sono opposti ai «tagli», ma purtroppo anche da milioni di famiglie che non amano i test e non capiscono che essi sono una garanzia per la qualità dell’insegnamento e quindi di un minore rischio di disoccupazione per i propri figli. Il «patto tra insegnanti, scuole e famiglie» di cui parla la riforma rischia quindi di peggiorare ulteriormente la quota di senza lavoro tra i giovani del nostro Paese. Il Corriere della Sera, 4 settembre 2014