C i hanno messo un anno (meglio tardi che mai),però alla fine i giudici di Palermo hanno sciolto la riserva: Napolitano sarà testimone coatto al processo sulla trattativa Stato-mafia. Anzi non coatto, volontario; e non è un dettaglio da poco. Perché il Codice di procedura penale (articolo 205) distingue la posizione del capo dello Stato da quella degli altri vertici delle nostre istituzioni.

Il presidente della Consulta o il premier, come d’altronde i due presidenti delle Camere, se rifiutano di deporre in un processo subiscono l’accompagnamento coattivo; lui no, il codice di rito lo esclude espressamente. Dunque la sua testimonianza è sempre spontanea, non obbligatoria. Ma evidentemente la Corte d’assise di Palermo non si cura dei dettagli. Non se ne cura nemmeno il presidente, dal momento che si è subito dichiarato disponibile. Potremmo rallegrarcene: dopotutto stiamo celebrando il trionfo del principio d’eguaglianza, con il primo cittadino trattato come tutti gli altri cittadini.

Ma invece no, c’è un retrogusto amaro in quest’ultima vicenda. C’è il sospetto che la ricerca della verità sia diventata ormai un pretesto, peraltro espresso nel peggior giuridichese. Nella sua lettera del 31 ottobre scorso, Napolitano aveva già messo nero su bianco ciò che aveva da dire; ma adesso i giudici vogliono ascoltarlo per acquisire quel «contenuto dichiarativo negativo», magari con l’aiuto d’un interprete. Come a dire che la sua testimonianza scritta ai loro occhi suona reticente, sicché vogliono sottoporla alla prova dell’orecchio. Non che la verità non ci stia a cuore.

Ne avremmo fame e sete, sulla strage di piazza Fontana, su quella di Bologna, su Ustica, sul delitto Moro, sulle troppe pagine stracciate della nostra storia nazionale. La magistratura italiana fin qui non ci ha saziato, però meglio il digiuno che un’abbuffata di bugie. E meglio l’apatia che una guerra permanente fra poteri pubblici e privati, se ciascuno usa la propria competenza per affermare la propria potenza. Succede spesso, ora impiegando lo schermo dell’art. 18 per regolare i conti con i sindacati, ora sventolando la privacy per ridurre al silenzio i giornalisti, ora con l’abuso dei decreti e dei voti di fiducia per addomesticare il Parlamento. Ma in Italia la vera rivoluzione sarebbe questa: che ciascuno torni a fare il suo mestiere, senza impadronirsi di quello altrui . Michele Ainis, Il Corriere della Sera, 26 settembre 2014

……..Retrogusto amaro condiviso, non tanto per la persona quanto per la figura del Capo dello Stato della cui parola scritta si dubita, quasi fosse un qualsiasi “azzeccagarbugli”.