Jobs act, legge di Stabilità, Italicum, illazioni sul Quirinale, e poi tutto il resto che ogni giorno ammannisce la politica italiana, fatta di progetti di legge discussi per anni, di sentenze del Tar, di pronunce del Csm, di dibattiti tra i partiti più o meno sempre eguali. Ma non è solo la politica italiana. È questa in genere la politica democratica: fatta di riti un po’ stucchevoli, di discussioni pompose che preludono di regola a compromessi al ribasso realizzati da figure perlopiù mediocri. E infatti finora è stata più o meno quasi sempre questa la politica anche negli altri Paesi d’Europa: in quell’Europa dove, non a caso, siede oggi alla testa dell’Unione un grigio politicante lussemburghese come Jean-Claude Juncker, abile a restare per decenni al potere tra servizi segreti ed evasori fiscali.
Ma almeno nel nostro continente, e qui da noi in modo particolare, tutto l’universo storico in cui questa politica delle democrazie – grigia e costosa, ma per molto tempo efficace – è stata iscritta, scricchiola. Il mito della continua crescita economica non è più che un mito; il lavoro sta cessando di avere un valore coesivo tra individui e strati sociali: aumenta sempre più il divario tra chi ha e chi non ha, così come la differenza tra i destini dei singoli o tra ciò che significa vivere in un luogo o in un altro, mentre la secolarizzazione aggredisce alla radice l’intero mondo valoriale e simbolico dei tradizionali rapporti tra gli individui (dalla parentela alla genitorialità). In tutta Europa, insomma, si profila una crisi profonda dai contorni ancora imprecisi ma di sicuro inquietanti. Improvvisamente la democrazia si è trovata davanti un ospite inatteso: la povertà in crescita. Mentre masse sempre più ampie appaiono ideologicamente allo sbando, mentre si afferma dovunque e ad ogni occasione un rabbioso sentimento di rivolta contro le élites .
L’Italia vede tutti questi fenomeni aggravati dalla congenita inconsistenza, non solo organizzativa, del nostro Stato – mangiato dal partitismo, dalle corporazioni, dall’ordinamento regionale e dalla malavita, spesso uniti in un unico intreccio – corroso dalla sostanziale latitanza della legge. La disintegrazione ormai fisica della Penisola a cui assistiamo in queste ore appare quasi il segno di una metafora e insieme di un presagio. Naturalmente di fronte a tutto ciò c’è chi pensa che ogni cosa finirà comunque per aggiustarsi (anche se non si sa come). Ma forse è più ragionevole chiedersi se l’Europa che abbiamo conosciuto non sia ormai entrata nella prospettiva di una vera e propria nuova fase storica, segnata tra l’altro dai terremoti che dal Medio Oriente all’Europa sud orientale, all’Africa subsahariana, stanno sconvolgendo tutti gli scenari nelle nostre vicinanze. Una nuova fase storica che per la democrazia ha il valore di una sfida. Se non vorrà essere travolta, infatti, essa dovrà trovare la forza e la capacità di rinnovarsi profondamente. Di uscire dalla normale amministrazione, dalle pratiche e dalle procedure collaudate, da molte delle sue idee consuete; dovrà probabilmente mettere in discussione i preconcetti dei quali si è fin qui nutrita e sottrarsi alla deriva esasperatamente « discutidora » che l’insidia in permanenza; dovrà andare oltre l’orizzonte cautamente «mediano» che finora è stato perlopiù il suo. Sarà obbligata, in altre parole, a fare la cosa forse per lei più difficile: e cioè passare dalla «politica» al «politico». Vale a dire mettere da parte una prassi orientata alla «via di mezzo», al «c’è sempre qualcosa per tutti», e viceversa provare a pensare la realtà in modo inedito e radicale (che vada alla radice delle cose), organizzando in tal senso anche il meccanismo delle decisioni: senza vietarsi ad esempio di immaginare pure regole e istituti nuovi.
Alla fine, riscoprire il «politico» dovrebbe voler dire per la democrazia innanzi tutto questo: riscoprire e riformulare il concetto di sovranità, e con esso la necessità creativa imposta periodicamente dalla vicenda storica. La sfida che essa dovrà affrontare in futuro consisterà probabilmente nel restare se stessa, con i suoi principi costitutivi – il consenso, le libertà individuali e il «governo per il popolo» – ma avere il coraggio di osare, di uscire dalle forme del suo stesso passato, di trovarsi vesti nuove, un nuovo soffio ispiratore.
I leader democratici, quando sono veri leader, servono per l’appunto a una tale opera di rifondazione. E io credo che proprio in quest’ottica molti italiani, con maggiore o minore consapevolezza, hanno guardato a Matteo Renzi. L’impressione, però, è che il presidente del Consiglio non sia riuscito finora a compiere lo scatto necessario per andare nella direzione auspicata. Che egli, ad esempio, fatichi molto a mettersi al di sopra della baruffa quotidiana dei tweet, delle dichiarazioni, delle schermaglie; che neppure per un giorno riesca a sottrarsi all’attrazione fatale del triangolo romano delle Bermuda (Parlamento – Palazzo Chigi – largo del Nazareno) e al gorgo del chiacchiericcio politicistico che vi staziona. La sua eloquenza – scoppiettante quando si trattava di mettere nell’angolo gli avversari da «rottamare» – non si è mostrata finora capace di trovare i toni di drammatica verità e di serietà che sarebbero necessari a indicare davvero un nuovo cammino al Paese; e quindi di trasmettergli quella scossa anche emotiva senza la quale esso non potrà mai rimettersi in piedi. L’ispirazione che anima Renzi è volata finora troppo bassa, ha avuto una voce troppo tenue, per dare vita ad una visione del destino della nazione e della società italiana che preluda davvero alla loro rinascita entro una rinnovata forma democratica. Almeno finora è andata così. Intanto però il tempo passa. Pian piano le grandi speranze si consumano. E tra poco, inevitabilmente, esse si sentiranno tradite: per un uomo politico non c’è quasi nulla di peggio. Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera, 20 novembre 2014