N on c’è da meravigliarsi se l’Aula di Montecitorio era semivuota, mentre il ministro Alfano riferiva sulla nuova guerra santa scatenata in Europa. Tutto sommato è lo stesso Parlamento che, rinunciando agli F35, sarebbe pronto a disfarsi dell’arma aereonavale nel Paese che è geograficamente una portaerei nel Mediterraneo. E la politica non è l’unico pezzo della nostra classe dirigente che appare indifferente ai limiti della diserzione di fronte a una svolta così radicale della storia. È certo un ritardo antico: abbiamo sempre inteso la politica estera come una paziente attesa di ciò che avrebbero fatto gli Usa o la Francia. N on basta un upgrading nella prima classe di Bruxelles per colmare il ritardo di una classe dirigente: prova ne sia lo scarso interesse che suscita in questo frangente, perfino sulla stampa italiana, l’azione della nostra Federica Mogherini, Alto Rappresentante per la politica estera dell’Ue. Ma bisogna dire che la fine dei partiti, un tempo capaci di formare un’intellettualità diffusa, informata sui fatti del mondo anche se partigiana, colta per quanto faziosa, ha peggiorato le cose. Il nostro dibattito politico è rimasto così avvitato sull’asse Est-Ovest, pulluliamo ancora di antiamericani e di filorussi; ma nel frattempo il mondo è girato, e sull’asse Nord-Sud, Europa-Islam, non sappiamo che dire.

Non tace solo la politica. Da quanto tempo in Italia non si pubblica un bestseller come Le suicide français di Eric Zemmour, o un romanzo come Sottomissione di Michel Houellebecq? Chi, dopo la Fallaci, ha provato a «profetizzare il presente» nel Paese più esposto d’Europa all’ondata migratoria, sollevata proprio dallo tsunami dell’Islam? E in quante università italiane si studia e si legge l’arabo? Sono di fronte a noi, a pochi chilometri da noi, ma non sappiamo niente di loro (con rare eccezioni: un politico come la Bonino, saggisti come Cardini e Buttafuoco).
Poiché nulla accade per caso nella storia delle nazioni, è possibile che questa indifferenza nasca in realtà da una rimozione. I nostri ceti intellettuali, quelli che formano l’opinione pubblica dalla scuola ai talk show , sono infatti molto più a loro agio con l’ appeasement che con la guerra, se la cavano meglio con la retorica del dialogo che con quella dello scontro di civiltà. Sanno apprezzare un «ritiro» e deprecare una battaglia.

Quando la storia si incarica di smentirne il sogno irenista, e scoprono che il mondo è pieno di cattivi, restano senza parole. Nasce da qui l’ostracismo a ogni serio dibattito sull’identità nazionale, subito tacciato di razzismo (e perciò regalato al furbo Salvini, che ne fa un uso stupefacente). Nasce così la orribile confusione tra interesse nazionale e scambio commerciale, che consente di dire pubblicamente «chi se ne frega dell’Ucraina, pensiamo al nostro export con la Russia». Siamo pur sempre il Paese del colonnello Giovannone, pronto a stringere negli Anni 70 un patto di non belligeranza col terrorismo palestinese, purché non colpisse in casa nostra. In più, da noi il dibattito pubblico è di solito egemonizzato da un’opinione militante, pronta a scendere in piazza per difendere la satira quando attacca Berlusconi, ma molto più prudente quando se la prende con Maometto.
Nel suo ultimo romanzo Houellebecq ipotizza che l’Europa sia esausta proprio perché stanca della sua libertà, e sempre più disposta a barattarla con un po’ di benessere e di quieto vivere. È una tentazione che in Italia ben conosciamo. Ma è anche l’ennesima illusione: il nemico che abbiamo di fronte non fa prigionieri.
Antonio Polito, Il Corriere della Sera, 10 gennaio 2015