Matteo Renzi, a destra, davanti a un’immagine di Silvo Berlusconi (Ansa/Peri) Matteo Renzi, a destra, davanti a un’immagine di Silvo Berlusconi

Tutto lascia credere che l’elezione del presidente della Repubblica, avendo mandato all’aria il cosiddetto patto del Nazareno, abbia posto fine a quella strategia dei «due forni» sulla quale il governo Renzi ha fin qui potuto contare: cioè l’uso di maggioranze parlamentari di volta in volta diverse, includenti oppure no Forza Italia, a seconda dei provvedimenti da votare. Il che, tuttavia, non ha certo cancellato quello che è forse l’elemento chiave che nel nostro sistema politico nato nel 1994 assicura fisiologicamente, come un fatto abituale, un grosso vantaggio competitivo alla Sinistra rispetto alla Destra. Beninteso, ve ne sono parecchi, di questi elementi fisiologici di preminenza: il fatto, tanto per cominciare, che la Sinistra ha dietro di sé settori della società civile più compatti e in certo senso più strategici (ad esempio i media e la cultura); che può contare in linea di massima su una maggiore motivazione, e quindi fedeltà, del proprio elettorato; che essa ha maggiore familiarità e conoscenze con personalità e circuiti politici internazionali.

Ce n’è uno però, come dicevo, più importante degli altri. Questo: la Sinistra, quando è al governo, sa e può fare,pur se entro certi limiti e per intenderci alla buona, politiche sia di sinistra che di destra, dal momento che sa che anche in questo ultimo caso conserverà comunque i propri voti, e in più attirerà quasi certamente voti dal campo avversario. La Destra invece no: essa sa e può fare (quando pure ci riesce) solo politiche di destra; e dunque al massimo può conservare il bacino elettorale suo proprio non potendo tuttavia sperare di ampliarlo di molto. Nella Seconda Repubblica ha funzionato così. Specialmente, come dicevo sopra, per effetto del diverso grado di fedeltà e di senso di appartenenza – o se si preferisce di «laicità» – che esiste in Italia tra il «popolo» di sinistra e quello di destra. Anche se è vero che in compenso la Destra gode del vantaggio di partenza di rappresentare socialmente la maggioranza del Paese. Sta di fatto che nel gioco politico iniziatosi nel ’94 mentre la prima riesce a disporre di due strade la seconda è sembrata sempre capace di percorrerne una sola.

Di tutto ciò, come ha mostrato ieri su queste colonne Michele Salvati, l’azione finora svolta da Matteo Renzi è il massimo esempio – ma non il solo: negli enti locali i casi sono moltissimi – di quanto sto dicendo. Pur con vari mal di pancia perché di certo in contrasto con molte sue premesse, la Sinistra renziana, infatti, può fare liberalizzazioni, riformare la Costituzione, cancellare privilegi nel mercato del lavoro, prendere di petto i sindacati, invocare inchieste e castighi sui vigili fannulloni di Roma, dare un’immagine di sé insomma (non importa che poi la realtà sia talvolta un’altra) diversa da quella sua tradizionale, e così facendo ricevere un gran numero di consensi pure dal centro e dalla destra. Che cosa è stata capace di fare invece di analogo in senso opposto nei suoi anni d’oro la Destra?

Certo, ha pesato molto la leadership berlusconiana, i cui limiti sono divenuti presto evidenti. Specialmente la sua scarsa determinazione e la sua inettitudine a tenere insieme la maggioranza e a guidarne l’azione di governo. Che infatti è apparsa fin da subito priva di un riconoscibile orientamento generale, di un qualunque disegno, sfilacciata in mille provvedimenti dettati dall’emergenza o da puri interessi particolari. La conclusione è stata che nei loro lunghi anni di governo, Berlusconi e i tanti che erano con lui non sono riusciti a trasmettere al Paese l’idea di che cosa potesse voler realmente dire un programma politico di destra, quali principi – se mai c’erano – essa mirasse a realizzare. Tanto meno – figuriamoci! – Berlusconi e i suoi (anche quelli che poi lo hanno abbandonato) sembrano aver mai pensato di spingersi su una strada programmatica che potesse apparire «di sinistra».

Questo è forse il principale problema che il tramonto dell’ex premier lascia in eredità alla sua parte. Se la Destra vuole tornare ad essere elettoralmente competitiva deve prefiggersi una linea che sia riconoscibilmente alternativa a quella della Sinistra, naturalmente, ma che al tempo stesso sappia interpretare anche alcune esigenze di fondo dell’ elettorato di quest’ultima. Ciò sarà possibile, io credo, ma solo a una condizione.

Una condizione che si spiega con la storia particolare del nostro Paese e delle sue culture politiche. Tra le quali quella liberal-democratica nei fatti si è sempre mostrata fragile, poco radicata e soprattutto incapace di sorreggere vaste ambizioni. Altrove sarà diverso, è certamente diverso, ma in Italia – come del resto in molti altri Paesi dell’Europa continentale – una sostanziale contaminazione della Destra moderata con punti programmatici diversi dai propri, i quali guardino verso sinistra, è possibile solo se la Destra riesce a integrare dentro di sé, stabilmente – non già in modo estrinseco sotto forma di fragili accordi di vertice che lasciano il tempo che trovano – la cultura del cattolicesimo politico.

Berlusconi ha pensato che fosse sufficiente un’alleanza con le gerarchie ecclesiastiche all’insegna di una strumentale condivisione di «valori irrinunciabili» (a lui e al suo ambiente peraltro del tutto estranei). Ma evidentemente non di questo si tratta. Bensì di fare i conti con quel lascito di idee e di propositi che vengono da una lunga storia e che hanno alimentato un’esperienza che è stata decisiva per la vicenda della democrazia italiana.

Altrimenti, per una Destra che oggi miri a contrastare l’egemonia renziana l’alternativa è una sola: quella di puntare spregiudicatamente su un massiccio smottamento ideologico-emotivo delle masse (popolari e non) verso particolarismi anarcoidi, verso forme di xenofobia e di antieuropeismo radicali. È la via attuale della Lega: una via tenebrosa e senza ritorno. Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera, 10 febbraio 2015

…….Lucida analisi della realtà che però non riguarda solo il centrodestra della seconda repubblica. Anche nella prima repubblica il centrodestra, che salvo le correnti di sinistra peraltro subalterne per scelta autonoma alla sinistra dell’epoca (basta ricordare gli “indipendenti di sinistra”, tutti cattolici eletti nelle liste del PCI), poteva  ben individuarsi nella DC, era “vittima” della sua collocazione ideologica e perciò costretta a scelte che anche quando potevano considerarsi  indirizzate ai ceti medio-bassi della scoietà, finivano per portare acqua alla sinistra ufficiale. Del resto incominciò nella prima repubblica l’asservimento del mondo culturale italiano alla sinistra, anzi, per dirla tutta, iniziò sin da subito dopo la guerra, quando Togliatti non ebbe scrupolo ad arruolare nel PCI i tantissimi intellettuali forgiati dal fascismo (e la lista sarebbe lunghissima)  affidando loro il compito di indirizzare la “cultura” verso la sinistra. Fu allora che la sinistra occuò tutti gli spazi possibili, dai premi letterari alla cinematografia alle  case editrici, attraverso cui operò una intensa  opera di “cattura” della società italiana del dopoguerra, nonostante che il benessere procurato dal boom degli anni non potesse ascriversi di certo alla sinistra  in genere e al Pci in particolare. Poi è arrivata la seconda repubblica e l’improvvisa assunzione del potere da parte anche di quel segmento della politica  escluso sino ad allora dalla vita dello Stato. Stranamente, però, è stato proprio questo segmento, cioè la destra missina e poi postmissina, a mancare l’appuntamento con la storia e con la realtà, è stata questa che, a prescindere dallo stesso Berlusconi che pur nella prima repubblica aveva comuqnue tranquillamente operato, ha glissato rispetto a tutto ciò che aveva denunciato come invasione e straripamento della sinistra nella società italiana. Come molti commentatori, primo fra tutti Pietrangelo Buttafuco,  hanno rilevato, la classe dirigente postmissina si è preoccupata più di se stessa,  anzi solo di se stessa e magari dei propri cari, piuttosto che della società, per cui invece di rifare al contrario ciò che la sinistra aveva fatto nei decenni precedenti,non ha in alcun modo rimodulato la presenza del centrodestra all’interno della società, mostrando non solo indifferenza, ma, peggio, evitando  accuratamente di  restituire alla destra ciò che le era stato tolto. Insomma, mostrando assoluta manxcanza di spregiudicata disinvoltura nelle scelte, da quelle culturali a quelle politiche, a quelle economiche. Certo, ha vinto e governato, ma ha mancato i grandi appuntamenti che pure milioni di elettori moderati, la grande maggioranza di questo Paese, si attendevano che fossero raggiunti. E ciò spiega le ragioni per cui oggi esso è elettoralemente minoritario nel Paese che  pur rimane, come rileva Galli della Loggia, nella sua maggioranza moderato e liberale. g.